Dogville

Lars Von Trier è uno tra i pochi uomini di cinema viventi che hanno realmente qualcosa da dire. Affermato questo mio personalissimo dogma, passo a blaterare di questo suo film (scritto, diretto, ripreso) di quasi un decennio fa.

Trattasi, come spesso accade con questo autore, di malloppazzo che richiede di giungere alla sua visione ben preparati. Nel mio caso, ad esempio, dopo una mezz'oretta ho dovuto sospendere la visione per abbiocco improvviso. Però una volta passata la crisi, le due ore e mezza successive sono scorse vie leggere senza altri intoppi.

Quella che penso sia la parola chiave arriva solo nel finale: arroganza. E' una storia di arroganti. Ognuno pensa di sapere cosa sia giusto, e tutti sbagliano. Un giovane intellettuale in erba (Paul Bettany) si arroga il diritto di spiegare agli abitanti del suo depresso paesino (Dogville, da qualche parte negli USA, tra le montagne, in fondo ad una strada che non porta in nessun posto) cosa sia giusto e cosa sia sbagliato. Una giovane donna di città (Nicole Kidman), evidentemente cresciuta nella ricchezza e ora in fuga non sappiamo bene fino al finale rivelatore da cosa e perché, finisce in questo posto letteralmente dimenticato da Dio (c'è una chiesetta, ma il prete non passa da tempo immemorabile). Il giovane, continuando nella sua arroganza, decide di usarla per mostrare ai suoi compaesani una diversa via nella vita. A sua volta la giovane decide che costoro sono dei "buoni selvaggi", e finisce per accettare tutto da loro, venendo vessata, violentata, maltrattata in un crescendo che sembra senza fine.

La fine invece arriva, e non è delle più consolatorie. Nel microcosmo di Dogville, che rappresenta un po' tutta l'umanità, non c'è nessuno che si salvi, almeno a livello morale. Se non il cane - che teleologicamente dà nome al paese stesso.

Cast di una bravura abbacinante. Oltre ai protagonisti ricordo Lauren Bacall (gli anni passano, ma lo sguardo è sempre quello), Ben Gazzarra, Stellan Skarsgård (decisamente a suo agio nei ruoli da tipaccio), e James Caan a cui, come al solito, gli tocca di fare il boss mafioso - e lo fa egregiamente.

Tecnicamente il film è a dir poco sorprendente. Un curioso tentativo di conciliare il radiodramma, con una voce in sottofondo (in originale l'ammaliante John Hurt) che racconta l'azione, il teatro e l'avanguardia cinematografica - giocando tra un minimalismo scenico, che costringe gli attori a fingere si aprire porte che non ci sono, e effetti speciali, così speciali che ci danno emozioni senza quasi farsi notare. Mi verrebbe quasi da dire che anche Von Trier pecchi di arroganza, mescolando così pretenziosamente le carte, se non fosse che mi pare di vedere nella figura del protagonista una sorta di alter-ego dell'autore, e bisogna dire che non gli fa nessuno sconto.

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