Blade runner 2049

Sono passati trenta anni e Deckard (Harrison Ford) non sa ancora bene se è un replicante o un umano a tutti gli effetti. Lui, comunque, sembra aver messo da parte il problema e ha deciso indipendentemente da quale sia la risposta la sua via, che consiste fondamentalmente nel tenersi lontano da tutto e tutti - il che ha l'effetto collaterale di farlo apparire in scena solo molto avanti nell'azione. A spiegagli come sono andate le cose potrebbe essere Wallace (Jared Leto), big boss dell'azienda omonima che ha assorbito la Tyrell. Trattandosi però di torbido personaggio, si limita a pungolare il nostro vecchio blade runner, pensando probabilmente di spingerlo a dire o fare qualcosa di sbagliato. Niente da fare, Deckard è una pellaccia, e seguirà la sua strada senza deviazioni.

Al centro della storia, però, c'è un altro blade runner, che risponde al kafkiano nome di K (Ryan Gosling). Costui non ha il dilemma di Deckard, sa bene di essere un replicante, epperò spera in un qualcosa di apparentemente impossibile che, sorprendentemente, scopriamo essere effettivamente avvenuto, anche se non si capisce bene se e quanto questo lo coinvolga davvero (*).

Se nell'originale il tema dominante quanto i replicanti dovessero essere considerati umani a tutti gli effetti o se potessero essere "ritirati" senza starci a pensare tanto sopra quando non più utili, ora questa sembra essere rimasta solo una scusa degli umani per mantenere la loro posizione di potere. Il punto chiave qui è trovare il modo di fare cadere le deboli argomentazioni umane. Anche la tecnologia ha cospirato ad indebolire la posizione umana, con le intelligenze artificiali, vedasi in particolare
Joi (Ana de Armas), che pur partendo da un setup iniziale di puro sfruttamento (**) evolve in qualcosa di molto più umano.

Ottima la regia di Denis Villeneuve che non mi ha fatto per niente rimpiangere la decisione di Ridley Scott di occuparsi solo della produzione, che mi sembra di aver capito sia il ruolo che più gli piace tenere. Molto adatta anche la colonna sonora, del solito Hans Zimmer.

(*) Apparentemente il finale dà una risposta definitiva sulla questione. Viene lasciato solo un piccolo spiraglio aperto, in modo da lasciare la massima libertà a chi scriverà il seguito, se si deciderà di farlo.
(**) L'incontro ravvicinato tra K e la gigantesca versione pubblicitaria di Joi ci chiarisce di quella che era l'idea del produttore, la si confronti con la "vera" Joi di K per notare gli imprevisti sviluppi.

La ruota delle meraviglie

Un estate negli anni cinquanta. Mickey (Justin Timberlake) fa il bagnino a Coney Island per raggranellare i soldi che gli servono per andare all'università. Ha qualche annetto di più di un normale studente, ma pare che costui abbia girato il mondo per conto dell'esercito. Dico "pare", perché lui stesso (che gran parte del tempo parla a noi direttamente) ammette di essere poco affidabile in quello che dice, avendo una tendenza verso il melodramma.

Ci narra dunque una storia, che pare essere quella di Carolina (Juno Temple), che si è sposata giovanissima ad un delinquente italoamericano, da cui ora è in fuga. Ha deciso quindi di tornare dal padre, il giostraio Humpty (Jim Belushi), con cui aveva bruscamente rotto per scappare con il suo bello. Nel frattempo Humpty si è risposato con Ginny (Kate Winslet), ex attrice di secondo piano, a sua volta divorziata con figlio piromane, costretta a fare la cameriera per tirare avanti.

Cambio improvviso di prospettiva, e ora la protagonista sembra essere Ginny, che tradisce Humpty proprio con Mickey, che vede come sua via di uscita da quello che le sembra essere un vicolo cieco. O forse il protagonista è Mickey, con tutte le sue incertezze su Ginny, di cui è innamorato, ma forse anche no.

Trattasi di storia piuttosto complessa, e non invidio i miei vicini di posto al cinema, che hanno delegato la scelta del film a uno del gruppo, non aspettandosi un Woody Allen tragico. A dire il vero, visto che alcuni del gruppo sostenevano che sarebbe stato meglio per loro puntare su di un cinepanettone, probabilmente anche un Woody Allen comico non sarebbe stato adatto a loro. E insomma, un minimo di preparazione prima di comprare il biglietto!

Paddington 2

Secondo episodio delle avventure dell'impossibile orsetto peruviano trasferitosi a Londra. La breve introduzione, oltre a spiegare tutto quel che serve allo spettatore che si fosse dimenticato cos'era successo nella prima puntata, ci racconta anche un particolare che non era stato chiarito, ovvero come Paddington era entrato a far parte della sua prima famiglia adottiva.

La storia verte sul desiderio dell'orsetto di fare un degno regalo a sua zia Lucy, in occasione del suo centesimo compleanno. Non sembrerebbe un gran problema, eppure questo scatenerà una serie di eventi che porterà il nostro piccolo plantigrado addirittura in galera.

Il ruolo del supercattivo viene occupato questa volta da uno spassoso Hugh Grant che non teme di impersonare un attore a cui è rimasto solo il ricordo del passato, ma che continua ad essere eccessivamente pieno di sé. Ha meno spazio, ma altrettanto succoso, Brendan Gleeson, terribile galeotto che sembra aldilà di ogni possibile redenzione.

Il target è sempre quello dei ragazzini che potrebbero riconoscersi nei fratelli adottivi dell'orso, e questo giustifica una certa leggerezza nella realizzazione. Il risultato m'è sembrato comunque apprezzabile per tutte le età. A patto di sapere a cosa si sta andando incontro, si intende.

Assassinio sull'Orient Express

Il bello di vedere un film giallo che si sa già come va a finire è che si può lasciare che chi di dovere si occupi delle investigazioni, mentre noi ci occupiamo degli aspetti solitamente considerati secondari. Lo stesso dicesi per chi sta dall'altra parte dello schermo. Se la tensione sul fatto di sangue non è poi così importante, si può dare più enfasi ad altri elementi della storia.

Il grosso problema di questa storia di Agatha Christie sta nel cospicuo numero di sospettati. Praticamente un intero vagone di prima classe dell'Orient Express partito da Istanbul è sospettato dello strano omicidio del sordido affarista americano Ratchett (Johnny Depp). Una dozzina di personaggi che potrebbero rendere la narrazione frammentaria e poco godibile. Fortuna che la regia (Kenneth Branagh) e l'alto tasso medio di professionalità del cast evitano il rischio. Così quasi tutti riescono a tratteggiare il proprio personaggio efficacemente nonostante i pochi minuti a disposizione. Invero nemmeno Hercule Poirot (ancora Kenneth Branagh) ha moltissimo tempo per dirci molto di lui, ma scopriamo come il nostro uomo viva il suo dono investigativo come una dannazione. Il fatto è che non riesce ad accettare l'imperfezione del nostro mondo, la sua mancanza di bilanciamento, e questo, che gli rende spesso impossibile anche fare una semplice colazione, gli ritorna utile nello scoprire i buchi logici nei piani dei delinquenti con cui ha a che fare.

Questo caso, però, non è come gli altri. Al povero Poirot deve essere sembrato un inferno. Nessuno si comporta correttamente, tutti mentono, tutti hanno lati oscuri, eppure nessuno sembra essere un assassino. Riuscirà, nonostante tutto, a trovare il bandolo della matassa?

The square

Perdinci, causa improvviso attacco di pigrizia, ho accumulato una lista di film visti e non riportati nel blog. Fortuna che la suddetta pigrizia si è riverberata pure sulle visioni, e così la lista non è poi così lunga. Iniziamo dal fondo, lo scorso weekend ho visto il film dello svedese Ruben Östlund (*), palma d'oro a Cannes, probabile candidato agli Oscar a venire.

Christian (Claes Bang) è apparentemente nel pieno della forma e del successo. Dirige un museo d'arte moderna a Stoccolma (**), ha evidentemente un lauto stipendio e una certa considerazione nel bel mondo. Scopriremo nel proseguio della storia che è in realtà un blade runner (***), nel senso che sta correndo da tempo sull'orlo del precipizio, e basterebbe un nulla a farlo cadere. Come sarebbe lecito attendersi, questo accade, nella veste di un bizzarro furto che il nostro subisce. La sua meccanica è così curiosa da far pensare che si tratti di una installazione, una di quelle che Christian potrebbe ospitare nel suo museo, ma a lui sfugge l'ironia del fatto e diventa morbosamente fissato sul recuperare quello che gli è stato sottratto. Distrazione fatale che gli causa una serie di contrattempi, portandolo ad una catastrofe.

Non è una tragedia, e quindi le conseguenze non saranno troppo pesanti, ma non è nemmeno una commedia, e dunque non è che si rida molto, almeno durante la proiezione. Trattasi piuttosto di una satira, sul mondo dell'arte moderna e un po' su tutta la gente che le gira attorno.

Avrei preferito uno svolgimento più snello, credo che si sarebbe tranquillamente potuta tagliare una mezz'oretta di pellicola, ma ho comunque apprezzato il curioso senso dell'umorismo dell'autore che mi ha lasciato più perplesso che divertito al momento, e che è poi riemerso con il passare del tempo.

(*) Per me uno sconosciuto. Il suo precedente Forza maggiore (2014) era già stato premiato a Cannes - ma nella selezione Un certain regard, ed era anche piaciuto oltreoceano, da cui, immagino, le maggiori ambizioni di questa volta.
(**) Ovviamente finto, non credo che nessun museo avrebbe accettato di essere rappresentato come si vede qui. Si finge che i regnanti locali abbiano ceduto parte del loro palazzo nel centro città per questa iniziativa.
(***) Del vero Blade runner 2049 parlerò in altro post, spero presto.

Valerian e la città dei mille pianeti

La scena di apertura è praticamente perfetta nel narrare in pochi minuti l'antefatto dell'azione senza che una sola parola venga detta. Mentre ci ascoltiamo Space oddity (*) scorrono le immagini di decenni, secoli, di sviluppo della base Alpha, che sarebbe poi una evoluzione della Stazione Spaziale Internazionale, che si suppone abbia attratto prima un po' tutte le nazioni umani, e poi specie aliene, fino a diventare un enorme pacifico conglomerato.

Finita la bella prefazione, ci viene spiegato che Alpha è così grossa da non poter restare nell'orbita terrestre, e così viene sparata via. E qui cominciano le domande a cui la sceneggiatura (**) non pensa nemmeno di darci una risposta. Ad esempio, forse avrebbe avuto più senso mantenere Alpha in orbita attorno al nostro Sole. Meno costi, meno rischi, tutto più facile. Ma forse è meglio così, capiamo subito che è meglio non andare troppo per il sottile con la verosimiglianza e che dobbiamo invece goderci lo spettacolo.

Succede dunque che, quando ormai Alpha è a svariati anni luce di distanza dalla Terra, un oscuro caso richiede che il maggiore Valerian (Dane DeHaan) e la sergente Laureline (Cara Delevingne) partano per una missione di cui anche loro non hanno i contorni molto precisi. In parallelo c'è pure il fatto che Valerian vorrebbe che Laureline non fosse semplicemente la sua collega ma ella, pur non essendo contraria, non apprezza l'immaturità di lui, e non ha nessuna voglia di essere solo la sua ennesima conquista.

Se i due protagonisti non brillano per carisma (***) è divertente trovare in particine secondarie Clive Owen, che fa il cattivo (°), Rihanna, una cantante-ballerina mutante, Ethan Hawke, magnaccia senza scrupoli, Herbie Hancock, ministro della difesa, Rutger Hauer, presidente della federazione umana. Impressionante il numero e la varietà degli alieni. Roba da perderci la testa. Una cosa tipo la scena del bar spaziale del primo Guerre Stellari (quello che poi è diventato il capitolo IV, 1977) all'ennesima potenza.

(*) Canzone spesso utilizzata sia in film di fantascienza, come ad esempio in Eva (2011), dove ne sentiamo un pezzetto dalla versione originale di David Bowie, sia in film che sono più interessati al senso profondo di questo hit del Duca Bianco piuttosto che ai suoi riferimenti di genere, come il remake di Walter Mitty (2013), dove a cantarla è anche Kirsten Dunst.
(**) Di Luc Besson, basata sui fumetti di Pierre Christin e Jean-Claude Mézières. Sempre di Luc Besson la regia. La produzione invece l'ha affidata alla moglie.
(***) Ma se la cavano bene per quel che devono fare. L'attrazione reciproca è credibile, e anche nelle scene di azione tutto fila in modo accettabile.
(°) Tecnicamente questo sarebbe uno spoiler, ma si vede subito che quello è il suo ruolo.

Ombre rosse

Non mi stupisce che John Ford sia tra i registi del suo periodo più ammirati dai suoi colleghi. La scena dell'assalto indiano della diligenza, un tiro a sei lanciato a tutta velocità nel deserto, è un pezzo di maestria assoluta (*), senza nemmeno bisogno di star tanto a pensare come cavolo possono averla girata, con i mezzi a disposizione all'epoca. Notevoli anche le scene girate in interno, realizzate solitamente con minimi spostamenti di macchina, e a volte con un curioso indugiare a fine sequenza sul personaggio che in quel momento è sotto la lente (**), come se lo si volesse studiare anche fuori dall'azione.

Altro aspetto di assoluto rilievo, è la capacità di tenere assieme un cast composito, dove nessuno spicca, perché è l'interazione tra personaggi estremamente diversi a reggere il racconto. Pare infatti che Ford sia stato colpito proprio dall'idea di mettere un microcosmo dagli stridenti contrasti in un ambiente claustrofobico e tirare le corde degli accordi e contrasti. Meno interesse aveva trovato nel succo della storia breve, firmata da Ernest Haycox che, a dire il vero, non è tra le sue cose più riuscite. C'è da dire anche che il racconto è pesantemente ispirato da Palla di sego di Guy De Maupassant, trasposto da una guerra franco-prussiana al west, eliminandone quasi totalmente la graffiante polemica sociale e aggiungendovi un lieto fine ben poco convincente. La sceneggiatura di Dudley Nichols approfondisce meglio i caratteri, ma rende la storia più confusa, sia per adattarla al protagonista maschile, inesistente nel racconto originale, dal peso minimo nella versione di Haycox sia per gonfiare maggiormente l'happy end, a ulteriore scapito della credibilità della storia.

Una diligenza è in viaggio nel West, quando all'improvviso Geronimo diventa turbolento. Per motivi vari, il viaggio deve proseguire e, ognuno per il suo motivo, magari anche sottovalutando i pericoli, i passeggeri decidono anch'essi di continuare. Diverse le tensioni tra di loro, catalizzate in particolare su Dallas (Claire Trevor), prostituta che è costretta a cambiare paese, e su una signora di relativa alta classe che è in viaggio per raggiungere il marito, ufficiale dell'esercito. C'è poi un giocatore d'azzardo professionista (John Carradine) che intraprende il viaggio con l'idea di far da cavalier servente alla dama, e un medico ubriacone (Thomas Mitchell - premiato con l'Oscar per questa interpretazione), anch'egli imbarcato in quanto poco apprezzato in paese. Lo spazio sarebbe già scarso, ma il banchiere locale si aggrega all'ultimo momento (***) e poco dopo un avanzo di galera dal cuore d'oro, Ringo Kid (John Wayne) finisce per riempire anche l'ultimo strapuntino.

Ne capitano un po' di tutti colori, con un parto in condizioni di emergenza, responsabili di stazioni di cambio che si dimostrano irresponsabili, donne indiane che cantano in spagnolo, fino ad arrivare alla scena madre, dove ogni proiettile dei bianchi ammazza (almeno) un pellerossa. Finale con Ringo Kid (°) che regola i suoi conti e si avvia verso una nuova vita con la sua bella.

(*) Non per nulla il titolo originale è Stagecoach.
(**) Credo che si tratti di una vestigia del modo di dirigere tipico dei film muti. Il cinema era giovane, e lo spettatore aveva bisogno del suo tempo per digerire le scene, e magari scambiare qualche osservazione col vicino senza interferire con la recitazione. Al giorno d'oggi la sensazione che mi dà è di una piacevole calma narrativa, contrapposta ai montaggi moderni che spesso hanno raggiunto una freneticità al di là del bene e del male.
(***) Personaggio bizzarro. Sta scappando con la cassa ma fa discorsi benpensanti e conservatori che ricordano molto gli slogan recentemente riutilizzati da Donald Trump. E invece di starsene buono nel suo angolino, cercando di passare inosservato, sembra far di tutto per mettersi in mostra. Mal gliene incoglierà.
(°) Wayne aveva già più di trent'anni, altro che "kid"! Ma d'altronde, la Trevor non ha certo l'aspetto di una prostituta da saloon, e anche per lo stato interessante della puerpera bisogna andare sulla fiducia.

Dunkirk

Siamo nel 1940 e Hitler ha quasi vinto la seconda guerra mondiale. Quel che resta del cospicuo esercito inglese in Francia è in rotta, costretto in una sacca attorno al porto di Dunkerque, apparentemente con due sole scelte, la resa o l'annientamento. Si sceglie così la terza ipotesi, evacuare le truppe con mezzi di fortuna, manovra che sorprendentemente funziona.

La narrazione che Christopher Nolan ci fa della vicenda, pur essendo inquadrata nei fatti storici, segue il punto di vista di alcuni personaggi di fantasia, che seguono tre diverse trame legate in modo non banale tra loro. Abbiamo così una trama più terricola (*) dominata dalla storia di un soldatino, Tommy (Fionn Whitehead) che fa di tutto per trovare un passaggio dall'altra parte della Manica. Le sue peripezie sfiorano più volte le preoccupazioni del comandante Bolton (Kenneth Branagh), che dirige l'operazione dal molo, ma senza che i due abbiano modo di entrare realmente in contatto. Al centro della trama marinara (**) c'è la barchetta civile del signor Dawson (Mark Rylance) che fa parte del contingente che viene mandato in guerra, a salvare l'esercito. Si troverà così a raccogliere dal mare, tra gli altri, anche un ufficiale che per noi resta senza nome (Cillian Murphy), che ha avuto modo anche di scambiare qualche battuta con Tommy. La terza trama (***) segue una pattuglia di Spitfire che cerca di offrire un minimo di copertura aerea all'operazione. Delle tre, quest'ultima è la più propriamente bellica, con duelli aerei e un personaggio, il pilota Farrier (Tom Hardy) che tutto sommato potrebbe star bene in un normale film di genere.

Lo sviluppo è tale da creare una continua crescita di tensione, che verrà risolta solo nel finale. Eccellente anche la colonna sonora del solito Hans Zimmer.

Da notare l'uso limitato della verbalità. Qui la gente parla solo quando deve, e quel poco che ci si può aspettare data la situazione. Si consiglia perciò la visione ad un pubblico adulto, nel senso che sappia reperire informazioni da quello che vede, e non solo quando gli vengono spiattellate sotto forma di spiegone.

Da notare anche l'assenza di sequenze splatter. Muore gente, e nemmeno poca, ma la cosa non viene mostrata come se fosse un gioco.

(*) Che prende titolo, Il molo, da quello che è il riferimento di tutti i soldati che si trovano a Dunkerque come unica via di fuga. Ha una durata dichiarata di una settimana.
(**) Il mare, dura un giorno.
(***) Il cielo, ha a sua disposizione una sola ora, l'autonomia di volo di un aereo da caccia.

McFarland

La storia narrata è una specie di frullato di svariati stereotipi. M'è capitato così, durante la visione, di pensare a La scuola della violenza (1966) con Sidney Poitier, Moneyball (2011), Professore per amore (2014), Mosse vincenti (2011) e chissà quanta altra roba. Troppi spunti, mi sono detto. Per tenerli assieme ci sarebbe voluta una sceneggiatura di ferro, mano ferma alla regia, una produzione convinta.

Purtroppo mi sembra che la Walt Disney abbia solo instillato in tutti quanti un desiderio di edulcorare la materia, cosa che deve aver guidato Christopher Cleveland e Bettina Gilois nella rielaborazione la storia di partenza (*) inventando quanto serviva allo scopo. La regia di Niki Caro non mi è parsa né memorabile né incisiva e mi domando come mai abbiano deciso di affidarle ora due cose come il film sulla Callas e il live action di Mulan. Forse è stata apprezzata la sua disponibilità a seguire le direttive e la capacità dimostrata nel gestire il cast, costruito attorno ad una stella un po' appannata ma che comunque mantiene una sua notevole presenza scenica, Kevin Costner, e una stellina mai completamente esplosa, Maria Bello.

Sul finire degli anni ottanta, Jim White (**) sembra indirizzato verso una tragica uscita di scena lavorativa. Nessuno se ne sarebbe accorto, se non la moglie Cheryl (la Bello) e le loro due figlie, dato che costui è un insegnante californiano delle superiori. Cosa per noi strana, insegna contemporaneamente ginnastica e scienze, e forse pure qualcos'altro di altrettanto scorrelato. Tralasciate le scienze, lo vediamo all'opera come insegnante di ginnastica e scopriamo che, pur avendo principi tutto sommato condivisibili, ha un brutto carattere e una certa dose di sfortuna. Questo lo porta a perdere il posto (***) e ad accettare un'offerta non propriamente dorata. Trattasi infatti di insegnare in una scuola superiore dalla nomea piuttosto scarsa, la McFarland, dove la quasi totalità degli alunni è di origine ispanica.

Il trasferimento della famiglia mi ha ricordato quello dipinto in From Prada to nada, con meno autoironia, però. Mi è sembrato che l'intenzione della Caro fosse buona ma il risultato m'è parso paternalistico e inconsapevolmente razzista. Una cosa da capanna dello zio Tom, per intendersi.

Assistiamo così lo shock culturale di White che non sa bene come nuotare nel suo nuovo ambiente, e finisce per rischiare subito un altro licenziamento, anche se per una causa che, questa volta, direi sia condivisibile. Trova comunque il suo equilibrio che sembra consistere in un depresso galleggiare rischiando il meno possibile in attesa di escogitare un modo per tornare nel mondo dei bianchi.

Poi viene l'idea, che è quella di metter su, dal niente, una squadra di corsa campestre. Cosa decisamente non semplice, visto che lui non sa nulla di quello sport, e che non è facile trovare ragazzi con quel talento e con la voglia e la possibilità di impegnarsi.

Facile immaginarsi come andrà a finire, eppure, e nonostante tutte le riserve sopra esposte, il film non mi è dispiaciuto. Però è un peccato, perché sicuramente avrebbe potuto essere meglio.

Nota di demerito per le sequenze dedicate alla gara, vedasi Un ragazzo di Calabria (Comencini, 1987) se si vuole avere un'idea di quale possa essere lo spirito di una tale corsa. Nota di merito per non aver nascosto quanto al pseudo-White non importi nulla della scuola, degli alunni, di tutto il vicinato fino ad una fase molto avanzata della storia.

(*) Basata su cose successe davvero, adattate senza andare troppo per il sottile.
(**) O meglio, la versione di costui interpretata da Costner, che assomiglia vagamente al prototipo originale.
(***) E scopriremo che non si tratta della prima volta. Potrebbe semmai essere una delle ultime.

Cattivissimo me 3

Terzo (*) episodio della saga del cattivissimo Gru che già nella prima puntata (2010) passava dalla parte del bene grazie all'intervento di tre provvidenziali orfanelle e nella seconda (2013) diventava addirittura membro di una specie di anti-spectre volta a tenere a bada i cattivi di tutto il mondo.

La trama qui diventa complicatissima. Gru (**) e la sua bella Lucy (***) vengono cacciati dal lavoro per i loro scarsi risultati, e questo causa pure una insurrezione dei minion che speravano di poter tornare alle loro abituali cattiverie.
Nel contempo Gru scopre di avere un fratello gemello, Dru (°), identico ma dotato di folta capigliatura bionda. Il supercattivo Balthazar Bratt minaccia sfracelli, la più grande delle ex-orfanelle rischia di fidanzarsi a sua insaputa, mentre la più piccola cede il suo unicorno di peluche per aiutare la famiglia e poi ne cerca uno vero. I minion finiscono in galera per essere penetrati illegalmente in uno studio televisivo (°°) e qui spadroneggiano finché non decidono di evadere. Eccetera.

Manca, purtroppo, il dottor Nefario che si è cristallizzato nel corso di uno dei suoi sballati esperimenti.

(*) O quarto, considerando il prequel Minions (2015).
(**) In originale Steve Carell, in italiano uno spiacevole Max Giusti.
(***) Kirsten Wiig maltrattata al doppiaggio da una improbabile e inascoltabile Arisa.
(°) Le voci sono le stesse di Gru, ma qui Giusti m'è sembrato più accettabile.
(°°) Ma non prima di aver eseguito una delirante versione de La canzone del maggior generale, ovvero I am the very model of a modern major-general di Gilbert & Sullivan, che, per conto mio, basta da sola a giustificare il biglietto.

Il GGG - Il grande gigante gentile

Un abbastanza spaventevole ma amichevole gigante (Mark Rylance), noto tra i suoi simili come Nano ma che nel suo piccolo preferisce essere chiamato GGG (*), si trova nella malaugurata circostanza di dover rapire un'orfanella londinese, Sophie (Ruby Barnhill), e di portarla nel suo strano Paese.

La convivenza tra Sophie e GGG funzionerebbe anche piuttosto bene, non fosse per il caratteraccio degli altri giganti, che maltrattano costantemente il piccolo GGG e, subodorando(**) la presenza di una umana, se la vorrebbero mangiare in un boccone.

Fortuna che Sophie ha un piano, chiedere aiuto alla regina d'Inghilterra (Penelope Wilton), spiegarle il pericolo che rappresentano i giganti ma chiarendo che il GGG è ben diverso nella sua indole.

Tra i personaggi minori appare anche brevemente Rebecca Hall, che fondamentalmente dice "Ehi, ci sono anch'io!", incassa un congruo assegno e se ne va.

Buono l'uso della CGI, bravo Rylance, eccellente la storia di partenza (***) che purtroppo è stata brutalmente normalizzata dalla sceneggiatura di Melissa Mathison, dalla regia di Steven Spielberg, e probabilimente anche dal determinante peso produttivo della Walt Disney, tutti quanti evidentemente preoccupati di non dare troppo fastidio a nessuno.

(*) In originale BFG, Big Friendly Giant.
(**) Ucci, ucci ...
(***) Uno dei caposaldi della produzione di Roald Dahl.

Codice criminale

Uno sconosciuto compagno di visione cinematografica s'è detto scontento del film perché, che diamine, non è realistico trovare un delinquente nomade figo come Michael Fassbender. Difficile ribattere nel caso specifico, però allora che dire di un irlandese sull'orlo della morte per fame che si imbarca sul Titanic e ha l'apparenza di Leonardo DiCaprio? Ho dunque il sospetto che la critica nascondesse una qualche altra perplessità che quello spettatore non è riuscito ad esplicitare. Quale sia, vattelapesca.

Prima regia cinematografica di Adam Smith, non completamente riuscita, a mio parere, per un finale che ha cambiato inaspettatamente tono al racconto lasciandomi leggermente basito, per l'abuso della camera a mano, oltre che per una sceneggiatura perfettibile. m'è sembrata comunque buona l'idea e la direzione del cast in cui praticamente tutti sembrano a proprio agio. Pare che i Chemical Brothers abbiano scritto la colonna sonora del film in quanto amici di Smith.

Colby Cutler (Brendan Gleeson) è il dispotico patriarca che domina su una piccola comunità nomade che direi di origine irlandese e pare basata ormai da molto in un qualche paesino inglese. Sporchi, cattivi, ignoranti e piuttosto delinquenti, non sono per niente simpatici agli stanziali. Sentimenti che ricambiano di cuore. Ma il vero problema è che Chad (Fassbender), erede designato, ha seri dubbi sulla sua vita. Da un lato la vita sregolata gli calza a fagiolo, dall'altra si rende conto che è in un vicolo cieco, e che sta mettendo sulla stessa strada senza uscita i suoi due piccoli figli. Se non fosse per sua moglie Kelly (Lyndsey Marshal), probabilmente si limiterebbe a lagnarsi del padre ma abbozzare. Lei invece funziona da pungolo (*), e lo spinge ad affrontare il conflitto direttamente. Ma Colby ne sa una più del diavolo, ed escogita un contropiano per mandare in fumo quello di Chad di lasciare l'accampamento, forse per addirittura per integrarsi con gli stanziali.

L'ambiente degradato in cui si svolge l'azione mi ha fatto pensare a Come un tuono di Derek Cianfrance con Ryan Gosling (**). Entrambi potenti, qui forse Smith paga la sua relativa mancanza di esperienza.

(*) Un po' come il personaggio di Diane Keaton ne Il padrino.
(**) Altro film, tra i millemila possibili, per il quale si potrebbe applicare la stessa critica ingiustificata che ho citato su in cima.

Una vita da gatto

Tom Brand (Kevin Spacey) è a capo di un complesso eterogeneo di aziende che potrebbero ricordare vagamente la Virgin di Richard Branson, in quanto hanno l'unico comun denominatore nella creatività del paròn. Il conglomerato è quotato in borsa ma il Brand ha una comoda maggioranza assoluta che gli permette di fare quel che vuole, nonostante i mugugni degli azionisti di minoranza che, a ben vedere, non è che abbiano poi tutti i torti visto che il lider maximo si lascia guidare più dal suo strabordante ego che da un vero fiuto per gli affari.

Altro lato della medaglia, la famiglia Brand è tenuta assieme solo dallo spirito disneyano (*) che pervade questa produzione cinematografica. La corrente signora Brand, Lara (Jennifer Garner), è persino in buoni rapporti con la precedente, anche se questa non sembra particolarmente pacificata. Il grosso problema è che Tom pensa solo agli affari e di conseguenza maltratta, ma più spesso non dedica alcun tempo, a moglie e figli.

A fare scattare l'azione del film ci sono due eventi, uno legato al mondo degli affari, l'inaugurazione del nuovo grattacielo Brand a New York, che dovrebbe essere il più alto dell'emisfero nord, ma forse non riesce ad ottenere il record, e il compleanno della più piccola di famiglia, che vuole disperatamente come regalo un gatto - animale che Tom non sopporta. In assenza di idee alternative, all'ultimo momento Tom capitola e decide, sulla strada di casa, di passare dal più vicino venditore di felini, e prendere un animale a caso. Il gestore del posto è però Felix Perkins (Christopher Walken) che è dotato di misteriosi e incomprensibili poteri, il che porta Tom a trasmigrare nel gatto, con il rischio di restare sotto questa forma per tempo indeterminato.

La storia non è certo un granché, e direi che ha l'unico pregio di avermi fatto pensare allo strepitoso e folle La ricompensa del gatto dello Studio Ghibli. Nonostante i grossi nomi coinvolti (**) ho avuto l'impressione che l'interesse principale di tutti quanti fosse rivolto all'incasso dell'assegno pattuito. Effetti speciali demoralizzanti.

(*) Quello dei live-action del secolo scorso, intendo.
(**) La regia è di Barry Sonnenfeld, che non è certo un autore di peso, ma ha fatto cose ad alto budget e riscontro di pubblico, come Men in black.

Fortunata

Non ho visto la concorrenza, ma credo che il premio a Jasmine Trinca come migliore attrice a Cannes, sezione Un certain regard, sia meritato. Ho qualche perplessità sull'equilibrio del racconto e sulla sua trasposizione cinematografica, dovuto alla coppia Margaret Mazzantini - Sergio Castellitto. M'è parsa più riuscita la prima parte, dove il dramma è bilanciato da uno spirito comico che un po' mi ha fatto pensare a lavori del tempo che fu di Pedro Almodovar, meno la seconda, dove si punta più decisamente al tragico, con una certa confusione che credo sia riconducibile a modelli italiani, area Marco Ferreri, che forse aveva un suo senso una cinquantina di anni fa, ma che oggi mi pare poco comprensibile.

Fortunata (la Trinca) vive nella periferia romana (Torpignattara?) una vita sull'orlo della catastrofe. Ha un divorzio in corso con Franco (Edoardo Pesce), greve, violento, poco propenso a mollare la preda senza combattere, e il sogno di passare dalla condizione di pettinatrice a domicilio e quello di proprietaria di un negozio.

Pare che abbia un solo amico (*), che chissà perché si fa chiamare Chicano (Alessandro Borghi), tossico all'ultimo stadio, a cui aggiunge una dipendenza per lotto (!) e lo sconforto di avere una mamma (Hanna Schygulla, nientemeno) affetta da Alzheimer.

La piccola Barbara (Nicole Centanni) si trova nella impossibile condizione di accettare il conflitto dei genitori e chiede aiuto a suo modo, sputando su chi gli sta attorno. I servizi sociali fanno il loro lavoro, e la bimba viene seguita da uno psicologo, Patrizio (Stefano Accorsi), che sembra abbastanza efficace. Il problema è che qualcosa scocca tra Patrizio e Fortunata, e dunque la povera Barbara si trova non solo a dover conciliare il conflitto tra i genitori, si trova essa stessa in competizione con la madre per le attenzioni di una figura maschile.

Il tema della tragedia greca è introdotto dalla madre di Chicano, che ai tempi era una famosa attrice teatrale nota per il ruolo eponimo in Antigone. Ad un certo punto abbiamo pure uno spiegone, seppur risolto rapidamente, in cui ci viene fornito un sunto della storia, che però non ho capito bene come la Mazzantini immagini sia rilevante con la storia di Fortunata. Forse si intende puntare sulla contrapposizione maschile-femminile, lasciando gli aspetti negativi ai primi e quelli positivi alle seconde, che però mi pare sminuente nei confronti delle tematiche esplorate in Antigone, molto più sottili e profonde.

Più interessante la meditazione su cosa voglia dire essere fortunati, già perché mi pare ovvio che la tesi sia che la protagonista sia, nonostante tutto, fortunata. Subisce una catastrofe matrimoniale, perde il suo unico amico, non riesce a ricostruire una nuova coppia romantica, fallisce nel lavoro, non ha il becco di un quattrino ma - alla fine - sembra riesca a superare (**) il trauma infantile che ha probabilmente condizionato la sua intera esistenza per ripartire da quello che davvero le interessa, ovvero il rapporto con la figlia.

Meno soddisfacente m'è sembrato lo sviluppo del personaggio di Patrizio. Anche lui ha un nome che indica il ruolo, è infatti l'unico abbiente della storia (***) e avrebbe i mezzi culturali, intellettivi e pure emotivi per condurre una vita decente. Eppure, per motivi poco chiariti (°), sembra che finisca per mandare tutto a catafascio. Forse viene spaventato dall'irruenza poco civilizzata di Fortunata, forse viene attirato dal modello paterno che, per quanto negativo, lo ha ovviamente marcato sin da piccino. Forse, più grettamente, è una inaspettata montagnola di soldi a fargli fare il salto definitivo. Non sappiamo, viene lasciato a noi il compito di decidere.

(*) Ci sarebbero anche alcune sciroccate, piuttosto tamarre e abbastanza almodoroviane, che però restano molto sullo sfondo, una specie di coro che fa un buffo controcanto all'azione principale.
(**) Anche se non ho capito bene come. Per via di una illuminazione, sembrerebbe. E grazie a un archetipico bagno in mare che la pone la scelta se chiudere o se far ripartire la sua vita.
(***) Si intuisce la sua disponibilità economica dalla bella Ducati che possiede, dai modi, e dal weekend che offre alla sua bella, superiore alle possibilità di un normale psicologo della mutua.
(°) L'unico personaggio disegnato con una adeguata profondità è quello della protagonista, gli altri mancano di dettaglio, e spesso dobbiamo lavorare di fantasia o per stereotipi per riuscire a comprendere il senso delle loro azioni.

Adorabile nemica

Harriet (Shirley MacLaine) è ricca da far paura e altrettanto sola. Bastano poche inquadrature per darci l'esatta dimensione di ciò, e rapidi scambi di battute con il suo sconfortato giardiniere (Gedde Watanabe) e la sua perplessa parrucchiera ci spiega anche come mai chiunque possa la rifugge. Ella infatti ritiene suo diritto avere l'ultima parola su qualunque argomento (*) e suo dovere maltrattare ferocemente chiunque abbia a che fare con lei.

La noia, infine, la spinge ad un mezzo tentativo di suicidio che sembra più mirato ad allargare la cerchia delle sue vittime, nella persona del suo medico curante, che a porre fine ad una vita tendente sempre più all'insulso. Un secondo tentativo che parrebbe più sostanzioso viene interrotto da un (im)provvido dubbio, cosa scriveranno nel necrologio?

Data la smania di controllo che Harriet su tutto e tutti, non può morire con questa incertezza. Si reca dunque alla sede del giornale locale e si impossessa di Anne (Amanda Seyfried), la delegata agli articoli obituari, affinché il suo coccodrillo sia confacente alla elevate sue aspettative.

A mio parere, le cose migliori del film si trovano in alcune piccole sottotrame che si sviluppano dalla storia principale, come questa faccenda del giornale locale. La testata è a conduzione familiare, e il corrente direttore, figlio d'arte, sembra un pesce fuor d'acqua, costretto a far funzionare una attività per la quale non pare abbia un particolare attrazione, forse per la sola necessità di mantenere la tradizione di famiglia. Scopriamo ad esempio che non hanno un archivio digitale ma bensì un immenso deposito cartaceo che deve essere la disperazione di tutti i dipendenti, e che lui non sembra ancora essersi ben capacitato di come le nuove tecnologie non siano state solo una moda passeggera. Fatto sta, il giornale è sull'orlo del tracollo, e si conta su una possibile donazione di Harriet per evitare, o almeno ritardare, una catastrofe che non pare lontana.

Si passa dunque alla modalità "strana coppia", Harriet contro Anne, apparentemente molto diverse accumunate controvoglia da uno scopo comune. La prima decide che un buon necrologio ha quattro caratteristiche fondamentali, il personaggio deve: (1) essere rispettato dalla comunità; (2) essere amato da amici e parenti; (3) aver cambiato la vita di qualcuno in modo inaspettato; (4) avere un qualcosa in più di speciale. Il problema è che Harriet ha passato la sua vita a schiacciare come un rullo compressore tutti quelli che gli erano attorno, pensando solo alla sua carriera, e dunque non ha materiale da offrire per ottenere il risultato cercato. Ma non sono certo queste quisquilie che possono preoccuparla.

Lo spunto iniziale non mi è dispiaciuto, ma la sceneggiatura (**) non regge per tutto lo svolgimento. Per essere chiari, se non ci fosse stata la MacLaine nel ruolo principale, potevano anche fare a meno di girare. Non mi ha per niente impressionato la Seyfried. Inizialmente pensavo che fosse fuori ruolo lei, ripensandoci forse è la parte che non è abbastanza robusta, e nessuno avrebbe potuto farci niente. Anche la regia di Mark Pellington non mi entusiasmato, anche se la parte musicale (***) evidentemente trae giovamento dalla sua esperienza nel campo.

La struttura del genere vorrebbe che Harriet capisse, sia pur tardivamente, di aver fatto errori non da poco nella sua vita, e magari riuscisse a metterci in limine una toppa. Qui invece, probabilmente in linea con il cinismo dei tempi, non è lei a cambiare (°), saranno gli altri a dover riconoscere di non averla capita. Anne, addirittura, la prenderà come esempio per la sua vita. Per fortuna il film finisce senza che noi si possa scoprire in che esistenza miserevole si stia andando a cacciare quella giovine donna ancora irrisolta.

(*) Da cui il titolo originale, The last word. Il titolo italiano, come spesso accade, ha ben poco senso.
(**) Di Stuart Ross Fink, praticamente uno sconosciuto.
(***) Un'altra sottotrama non disprezzabile include una radio privata che pare riemergere misteriosamente dal secolo scorso.
(°) C'è una sua battuta quando ormai il finale non è lontano, in cui ribadisce che lei è così, e non ha nessuna intenzione di modificare alcunché del suo carattere. Anzi, ridicolizza la figlia che le ha chiesto di affrontare i suoi problemi.

Il drago invisibile

E' una specie di remake di Elliott il drago invisibile (1977) su cui però si è lavorato parecchio, rendendolo piuttosto distante dall'originale. Quello era un tipico film Disney del periodo, in anche cui i personaggi reali avevano un comportamento da animazione. Questo invece è più vicino ad un live-action puro e semplice, anche se comunque mirato ad un pubblico familiare, con bambini anche piccoli.

In entrambi i casi, il protagonista, Pete, è un orfanello. Ma nella versione del secolo scorso ricorda molto un Oliver Twist sfruttato da chi lo dovrebbe aiutare e in cerca di una famiglia degna di questo nome, qui invece, sembra un piccolo Tarzan che, persi i genitori, trova conforto in un drago, forse invisibile, forse inesistente.

In realtà, il dubbio se il drago esista davvero o se sia solo una proiezione fantastica di Pete (Oakes Fegley), dura poco. Abbiamo infatti prove tangibili della sua esistenza, e ci sarà persino un cattivo, Gavin (Karl Urban), che lo vuole catturare per farne non si sa bene cosa, ma con lo scopo di diventare ricco e famoso.

Ad aiutare Pete saranno Grace (Bryce Dallas Howard), una guardiaboschi con lo spirito da crocerossina, e il di lei padre (Robert Redford), considerato da tutti un po' picchiatello perché da molti anni racconta a tutti che nelle foreste dei dintorni abita un drago.

A vedere Pete in volo su Elliott, si direbbe che che lo sceneggiatore-regista (David Lowery) abbia visto La storia infinita ma non mi sembra abbia tratto giovamento dagli spunti che il romanzo su cui è basato (Micheal Ende) gli avrebbe potuto dare. Si segue piuttosto un filone ambientalista o alla buon selvaggio ben poco approfondito.

Bello comunque il drago e la sua integrazione nella realtà cinematografica.

The circle

Mae (Emma Watson) è una giovane donna di belle speranze ma dalla realtà piuttosto avvilente. Un brutto lavoro malpagato, un padre (Bill Paxton *) malato di sclerosi multipla che non può permettersi cure adeguate (**), un ex fidanzato, Mercer (Ellar Coltrane), che le ronza attorno ma che per lei è solo un amico.

Tutto ciò cambia quando una sua cara amica, Annie (Karen Gillan), le procura un colloquio per l'azienda presso cui lavora, niente di meno che The circle, una specie di mostruosa combinazione tra Google, Facebook, Apple et similia. Dopo una chiacchierata insulsa da cui Mae non esce né bene né male, il lavoro è suo (***), e finisce a fare circa le stesse cose che faceva prima, ma in modo molto più cool e, soprattutto, con uno stipendio e benefit migliori.

Col passare del tempo, Mae entra sempre più nello stile di vita di The circle, anche se non si capisce bene quanto sia veramente convinta di quello che sta facendo o se lo faccia per mera convenienza (°). L'impegno lavorativo, teoricamente limitato, diventa sempre più pesante, anche perché le numerose attività parallele, che dovrebbero essere su base volontaria e ricreative, sono a tutti gli effetti obbligatorie, se non si vuole essere tagliati fuori.

Al vertice di The circle si trova un terzetto composto da un simil Steve Jobs, Bailey (Tom Hanks), visionario, simpatico, a cui non si riesce a non dir di no, da quanta bontà sprizza da ogni poro, a qualunque cosa egli dica, un sinistro uomo nell'ombra, Tom (Patton Oswalt), e un evanescente Ty (John Boyega), presentato come il genio informatico che ha posto le basi tecniche dell'azienda ma che poi ha preferito una posizione molto defilata. Scopriremo più avanti che Ty è molto critico sulla direzione che i suoi due soci hanno dato al suo lavoro, ma sembra che non abbia la forza di opporsi. Il resto dei dipendenti, levata Annie che gira per il mondo senza un attimo di riposo, sembrano una massa indistinta di zombie, decerebrati ma felici.

Alcuni fatti, tra cui un incidente che non mi spiego in cui Mae rischia di perdere la vita, portano la nostra protagonista a salire rapidamente nella considerazione di Bailey, portandola a diventare il testimonial planetario di The circle. Nel contempo, Mae ha anche a che fare con Ty, che le rivela le sue perplessità. In più, succedono altre cose che coinvolgono i genitori di Mae, Mercer e Annie che dovrebbero mettere dei dubbi in Mae sul suo lavoro. Sembriamo diretti verso una catastrofe totale, però verremo salvati da un improbabile, e poco definito, finale.

Nonostante alcune aree oscure, il film mi è abbastanza piaciuto. Sicuramente è buona la storia originale, basata sul romanzo omonimo di Dave Eggers, ottimo il cast, almeno nella mezza dozzina di ruoli principali. Qualche dubbio ce l'ho nella sceneggiatura e regia di James Ponsoldt. In particolare il lieto fine, che diverge nettamente dai toni distopici dell'originale, suona falso, attaccaticcio e irrisolto. Ma forse Ponsoldt ne è almeno parzialmente incolpevole, se è stato imposto dalla produzione che temeva l'assenza di un happy ending. Lo sviluppo però è tutto poco chiaro, spesso non ho capito cosa muove Mae, ma più che una legittima incapacità del carattere di predere decisioni in un contesto più grande di lei, ho avuto l'impressione che Ponsoldt non sapesse bene in che direzione fare andare la storia.

Ne sconsiglierei comunque la visione ad alcune categorie. In primis, a chi non piace Emma Watson. Dietro di me al cinema avevo un rappresentante di questo gruppo che si è più volte lagnato rumorosamente di lei, in quanto, secondo lui, non faceva altro che riproporre il personaggio harrypottesco di Hermione. La Watson è praticamente sempre sullo schermo. Se non vi piace, evitate la pellicola.

Anche i fanboy di Steve Jobs, o dei marchi a cui, volenti o nolenti, si allude, potrebbero non gradire la critica. In più, per il nostro mercato, gli entusiasti del movimento cinque stelle potrebbero restarci male nel vedere come un autore del tutto estraneo alla nostra realtà abbia percepito e ben rappresentato il pericolo di una oscura commistione tra web e politica.

Di materiale per fare un opera pungente ce n'è in abbondanza. Peccato che non si sia osato spingersi in nessuna delle direzioni appena sfiorate. Ne sarebbe potuto venire fuori qualcosa di molto più interessante. La cosa buffa è che quello che forse è lo scambio di battute più memorabile del film è qualcosa come "Cos'è che temi di più?" "Il potenziale inespresso".

(*) Nei titoli di coda gli viene dedicato il film, che è stato il suo ultimo.
(**) La storia è ambientata negli USA, e la nostra sanità pubblica, al confronto, è paradisiaca.
(***) Il che fa pensare che l'influenza di Annie abbia pesato sul giudizio finale. Il ruolo di Annie non è chiarissimo, ma di sicuro sta ai piani alti di The circle.
(°) Che include anche l'estensione della sua copertura sanitaria alla famiglia.

L'altro volto della speranza

Abbastanza simile al precedente lavoro di Aki Kaurismäki, Miracolo a Le Havre (2011), e sempre in linea con lo stile narrativo del film maker finlandese. Qui seguiamo le vicende in bilico tra farsa e tragedia di due personaggi principali, Wikström (Sakari Kuosmanen) e Khaled (Sherwan Haji).

Wikström è un finlandese in piena crisi matrimoniale e occupazionale, che decidere di risolvere abbandonando la sua signora e il suo lavoro, per tornare single e dedicarsi alla ristorazione, senza avere alcuna seppur minima esperienza a riguardo. Trovati fortunosamente i capitali, li investe in un terribile ristorantino sull'orlo della catastrofe.

Khaled in Finlandia c'è arrivato per caso, scappato dalla Siria in guerra con la sorella, diviso da lei in un passaggio di frontiera, ha vagabondato per l'Europa alla sua ricerca, finché la necessità di sfuggire ad un agguato lo ha portato su di una nave diretta ad Helsinki. Il suo tentativo di restare nella legalità dura poco, causa una burocrazia ottusa, e si ritrova sulla strada con ben poche possibilità di durare a lungo.

Le due storie si incrociano con esiti buffi e drammatici fino ad un sanguinoso lieto fine.

Ghost in the shell

Basato sul manga di Masamune Shirow che ha dato origine ad universo cyberpunk giapponese con ramificazioni un po' su tutti i media. L'idea della produzione (*) era evidentemente quella di creare un franchise alla X-Men / Wolwerine ma qualcosa sembra essere andato storto, e i bassi incassi americani sembrano aver già decretato la fine subitanea della serie.

La storia del maggiore Mira Killian (Scarlett Johansson) ricorda un po' quella di RoboCop, incrociata influenze da Total recall. Causa qualcosa che lei non ricorda, solo il suo cervello si è salvato, che è stato inserito dalla Hanka Robotics in un corpicino niente male ma interamente bionico. Do ut des, in cambio della sopravvivenza viene convertita in arma letale, parte di una squadra di polizia molto particolare al comando di Daisuke Aramaki (Takeshi Kitano). In genere agisce in coppia con Batou (Pilou Asbæk), gli altri elementi, pur sembrando anch'essi tipacci poco raccomandabili, restano sullo sfondo.

L'azione vera e propria inizia quando una organizzazione segreta, che pare essere capitanata da tal Kuze (Michael Pitt), si mette ad ammazzare scienziati della Hanka. E si limitassero a questo. Sfruttando l'intreccio sempre più stretto tra componenti biologiche e informatiche, costoro fanno del vero e proprio hackeraggio che incide anche sulla componente umana delle loro vittime.

La faccenda si inspessisce ancor di più quando rischia la vita la dottoressa Ouelet (Juliette Binoche) che è un po' la mamma del Maggiore, con tutte le implicazioni e complicazioni di tale rapporto. E poi le cose diventano ancor più intricate.

La regia di Rupert Sanders, pur non essendo molto personale non è disprezzabile. Evidenti, e probabilmente ineludibili, i riferimenti a un gran numero di altre pellicole del genere, a partire da Blade runner per le atmosfere futuristico-decadenti. Più complicata la relazione con Matrix, che è a sua volta inspirato dal manga di partenza, e che quindi non si capisce bene chi citi chi.

Polemiche a mio avviso poco sensate sono state fatte sulla occidentalizzazione della storia, in particolare per quanto riguarda la Johansson, che pure ha un pedigree tale da giustificare appieno la sua scelta come protagonista. Vero che fa un po' strano vedere il solo Kitano (**) rappresentare il sol levante tra i protagonisti, e ancora più che sia l'unico a parlare in giapponese. A questo punto sarebbe stato più simpatico se ci fosse stato un magma linguistico, che però sarebbe stato un incubo per lo spettatore.

Ovvia anche la semplificazione della trama, che da una originale meditazione sui problemi di accettare la fusione tra carne e metallo, e l'interazione tra individui così diversi anche strutturalmente, verte qui più sul tema dell'identità. Siamo più quello che facciamo o quello che la nostra storia ci porta ad essere? Più semplice, sì, ma certo non banale.

Avrei preferito un maggior approfondimento sui personaggi, che tendono ad essere rappresentati bidimensionalmente. Il tempo necessario lo avrei preso dagli scontri a fuoco, fatti anche bene, ma poco interessanti.

(*) Al cui centro sta la DreamWorks.
(**) E comunque il grande vecchio Beat regge benissimo la baracca, anche con i pochi minuti effettivi a disposizione.

The walk

Adattamento di Robert Zemeckis della biografia di Philippe Petit, centrata sulla quella che è forse la sua esibizione più famosa, ovvero la passeggiata su di un cavo teso alla sommità delle torri gemelle a New York.

Chi fosse interessato ad una narrazione più aderente ai fatti dovrebbe leggere il libro dello stesso Petit, che è alla base delle sceneggiatura, o magari il documentario di James Marsh se interessati solo all'evento clou. Qui siamo nel regno dell'intrattenimento, e ogni licenza è lecita per ottenere lo scopo di Zemeckis. Anche se devo ammettere non mi sia chiarissimo quale sia. A tratti mi è sembrato evidente che Zemeckis voglia tirare un parallelo tra la carriera di Petit e la sua. Le capacità fisiche di illusionista-fantasista-giocoliere-acrobata del francese si rispecchiano in quelle virtuali dell'americano che, come suo solito, mi lascia a bocca aperta con i suoi piani sequenza impossibili e gli effetti speciali che sembrano più veri del vero. Il finale però non mi quadra, quasi che Zemeckis non abbia saputo come trovare una chiusa decente al racconto.

La storia è narrata in un lungo flash-back dallo stesso Petit (Joseph Gordon-Levitt) che ci porta per mano per la sua vita facendoci assistere alle sue esibizioni parigine come artista di strada, fino al momento in cui, letto casualmente un articolo sulla costruzione dei due grattacieli, abbia deciso di consacrare la sua vita all'impresa di cui sopra. Per far ciò, deve compiere una serie di passi preparatori, il primo del quale consiste nell'inghiottire il suo orgoglio da ribelle e convincere Papa Rudy (Ben Kingsley) a rivelargli i segreti del mestiere.

Questa prima parte è narrata con toni favolistici alla Amélie Poulain/Hugo Cabret che, pur facendo probabilmente poca giustizia alla realtà dei fatti, mi hanno molto divertito.

Stacco deciso, si passa l'Oceano e il film diventa un heist movie, sempre molto divertito, una cosa tipo Ocean's eleven, ma un pochino meno divertente. Petit, con la sua strana banda di accoliti franco-americani che ha raccolto sul suo percorso, parte all'azione. Con gran difficoltà prepara il cavo e, nonostante la canonica serie di traversie, riesce nell'impresa.

Curiosamente la passeggiata, che dovrebbe essere la parte mozzafiato del racconto, non mi ha convinto. Non dico mi abbia annoiato, ma non ci ho trovato un gran interesse. Forse l'avrei apprezzata di più se fosse stata narrata in modo diverso, se invece di seguire gli aspetti esteriori, fosse stata utilizzata per farci capire qualcosa di più di Petit, se fosse arrivata la risposta alla domanda iniziale, "perché?", che invece resta appesa al filo.

Peggio ancora il finale, che mi ha proprio rattristato. Zemeckis ci fa raccontare dal suo Petit che, dopo aver fatto questa traversata nel vuoto, fondamentalmente si è ritrovato lui stesso vuoto. Resta a New York, lascia andar via la donna che l'ha seguito e incoraggiato (Charlotte Le Bon), senza che si spieghi neanche bene il perché, e sembra che non faccia più nulla, se non baloccarsi col ricordo di quella camminata.

Non è che io riesca a immaginarmi un finale migliore di questa storia. Petit che fa altre sue folli camminate clandestine? Bah, non aggiunge molto. Ho avuto un flash mentre seguivo con poca gioia Petit che andava avanti e indietro sul filo, non potendo scendere senza consegnarsi alla polizia. Mi è venuto in mente Miracolo a Milano (1951) e, per un secondo, mi sono visto Petit fare un inchino salutare tutti quanti e volarsene via in cielo. Ma sarebbe davvero stato un altro film.

Oceania

Tempo fa, da qualche parte in Polinesia, una dolce bimbetta che si chiamerebbe Moana ma a noi è nota col nome di Vaiana, viene plagiata dalla nonna che la convince, a suon di racconti mitologici, che lei abbia l'Oceano dalla sua parte e sia chiamata a compiere una missione impossibile lontano dalla sua isola natia, con lo scopo di salvare l'umanità. D'altro canto il padre, capo del villaggio, ha, causa un trauma di gioventù che ci verrà svelato più avanti, una profonda avversione nei confronti dell'Oceano e fa tutto perché la figlioletta non lasci mai la terraferma.

Una misteriosa calamità spinge Moana-Vaiana a rompere gli indugi e partire, seguendo le ultime indicazioni della vecchia pazza, in direzione poco chiara alla ricerca di un semidio, tal Maui, che un millennio prima sarebbe stato la causa della catastrofe incombente. Inesplicabilmente, la vecchia aveva ragione. Moana trova Maui che, molto malvolentieri, si presta all'impresa.

Le traversie che seguono chiariscono particolari al contorno, e fanno sì che tutto finisca per il meglio.

Nella prima parte del film mi sono annoiato, causa svolgimento lento e scarso interesse nelle vicende dei personaggi principali. Meglio la seconda parte, quando si approfondisce la personalità di Maui e di tutto il resto che segue. La storia rimane stereotipata, ma diventa più interessante seguirne gli sviluppi.

In contrasto con il canone corrente delle animazioni, questa volta la Walt Disney rinuncia quasi completamente a fornire un prodotto che sia fruibile a un pubblico di ogni età. Si punta tutto sull'animazione (*) e sulle canzoni, che, per quel che ho sentit,o sono meglio in originale ma sono comunque di alta qualità anche in italiano.

La sceneggiatura ha qualche spunto interessante per un pubblico più maturo, ma bisogna mettersi a cercarlo armati di buona volontà.

(*) Eccellente. I capelli, il mare, i movimenti degli umani. Tutto allo stato dell'arte.

Kreuzweg - Le stazioni della fede

Questo dei Brüggemann (*) sembra uno di quei film che si va a cercare gli spettatori a piccoli numeri. Dieci qua, una mezza dozzina là. Ogni tanto capita nel pubblico qualche sbadato, che non si è accorto che non era stato chiamato alla visione. E ci resta molto male.

Da un lato la distribuzione italiana ha aiutato la tendenza all'autolimitazione del pubblico con uscite centellinate e mantenendo il titolo originale tedesco, accompagnato da un sottotitolo sibillino. Ma chissà, se avessero avuto il coraggio di tradurlo, se questo avrebbe avuto un impatto positivo o negativo sul numero di biglietti staccati.

Lo stile è di una totale asciuttezza, la storia è divisa in quattordici capitoli, quanti sono le tappe della Via Crucis, e seguono pochi giorni nella vita di Maria (Lea van Acken), una quattordicenne, attorno al momento della sua cresima. Ogni capitolo si svolge sotto l'occhio vitreo della macchina da presa, immobile, che lascia che l'azione si svolga senza che, almeno apparentemente, ne prenda parte, in un unico ininterrotto piano sequenza. A me ha fatto pensare a Michael Haneke, vedasi Amour, Niente da nascondere, o un po' tutta la sua filmografia. L'impressione che abbiamo è di avere a che fare con un quasi documentario, che vediamo i fatti come davvero sono andati e non come ce li sta proponendo il regista. Il che può risultare di una certa pesantezza per lo spettatore abituato ai montaggi sempre più frenetici del cinema ad alto budget, ma che permette, a chi abbia pazienza, una maggiore partecipazione alla vicenda.

Solo due quadri fanno eccezione, quello centrale, la cresima, in cui la camera compie tre o quattro movimenti, e quello finale in cui la tensione si spezza e la macchina da presa ci riporta quella che deve essere il respiro di sollievo di Maria, finalmente libera.

(*) Fratello e sorella. Lei, Anna, si è occupata della scrittura, lui, Dietrich, ha firmato anche la regia.
(**) Nato anche lui a Monaco di Baviera, come i Brüggemann, ma una trentina di anni prima.

Ballerina

Un nuovo studio entra nel giro dei lungometraggi di animazione, i canadesi de L'Atelier Animation. Questo primo loro progetto è relativamente a basso costo, si parla di una trentina di milioni, mostra qualche incertezza quando si tratta di gestire il movimento dei personaggi, ma anche molto cuore. Al punto da farmi pensare che la storia della protagonista Félicie è un po' anche la loro.

Si narra infatti di un'orfanella che ha una gran passione per la danza, sin da prima che se ne possa ricordare. Anzi, una delle scene principali del film è quando ha una intuizione e riesce ad associare una immagine che le appare spesso in sogno con quella che è la radice di un suo lontanissimo ricordo.
Così motivata, riuscirà a superare una serie di difficoltà e giungere nel finale ad una soluzione soddisfacente.

Buono il doppiaggio italiano, almeno nelle parti principali, ad esclusione di Odette, personaggio importante, che aiuta Félicie a superare alcune tra le principali barriere che le si parano davanti. La scelta di usare la voce di Eleonora Abbagnato deve avere avuto un motivo più commerciale (*) che artistico. Non mi pare che abbia funzionato in nessuno dei due ambiti. Spiacevole anche il doppiaggio del giovane ballerino di origine russa, Rudolph, che nella nostra versione ha un pesante accento romano. Cosa che non ho notato in Sabrina Ferilli, che qui dà la voce alla supercattiva della storia.

Fra l'altro, a parte Régine, non ci sono veri cattivi, al massimo cattivelli, e l'evoluzione del carattere con cambiamenti inattesi è piacevolmente distribuita tra diverse parti.

Se le citazioni e riferimenti ad altri film, di animazione e no, si sprecano, sono tutte fatte con molto garbo, e risolte con simpatiche variazioni sul tema. Bravi dunque i due Eric alla regia, Summer, che ha anche co-scritto la sceneggiatura (**), e Warin, noto per il suo lavoro in Appuntamento a Belleville. Ho notato una certa confusione sui tempi in cui si sarebbe svolta la storia, la costruzione della Tour Eiffel, la statua della libertà, la presenza di motociclette, la notorietà di Sherlock Holmes, si intrecciano malamente. Ma non mi è parso un problema.

(*) Credo si sia trattata di un esca lanciata al pubblico di riferimento - bambine appassionate di danza.
(**) Da notare che la storia parte in Bretagna, dove è nato lui, e finisce a Parigi.

Schindler's list - La lista di Schindler

Un imbroglioncello di piccolo calibro, tale Oskar Schindler (Liam Neeson), scopre qual'è il motivo per cui tutta la sua vita fino a quel momento è stata un percorso di denso di fallimenti. Non c'era stata la guerra. Ora che la guerra c'è, e può finalmente mettere a frutto i suoi dubbi talenti per fare successo.

Piomba così a Cracovia, nella Polonia appena sconfitta dall'esercito nazista, e in breve compra una fabbrica fallita per impossibilità dei precedenti proprietari a procedere nel loro lavoro, in quanto schedati come ebrei, usando i soldi di elementi di spicco della stessa comunità, facendo notare loro che nel ghetto in cui sono stati rinchiusi valgono più le pentole che lui si accinge a produrre. D'altro canto usa la sua passione per alcolici, donne, e bella vita in genere, per accattivarsi l'amicizia di persona che contano nei vertici nazisti locali.

Il suo totale disinteresse per quello che accade tutto intorno a lui, risulta perfetto per la situazione. Infatti può così fregiarsi della sua spilla d'oro di appartenente al partito nazista senza alcun imbarazzo, come può anche assicurarsi i servizi di Itzhak Stern (Ben Kingsley) che, oltre ad essere un valente contabile, conosce un po' tutti.

Tutti felici, tutti contenti. L'esercito tedesco ha pentole a basso prezzo, Stern riesce a fare assumere in fabbrica alcune persone che rischierebbero di essere eliminate su due piedi, gli ufficiali nazisti corrotti hanno la loro fetta di torta, e Schindler diventa ricco ogni sua più rosea aspettativa.

Le cose cambiano con l'arrivo di Amon Goeth (Ralph Fiennes), che viene mandato lì per creare un lager in cui stipare una metà degli ebrei che erano stati prima costretti nel ghetto di Cracovia. Gli altri sono uccisi in una notte, e non si capisce bene a chi sia capitato la sorte peggiore. L'azione è così brutale che Schindler inizia a farsi domande. E poco a poco mette da parte il suo sogno di ricchezza per cercare di salvare quanti più ebrei gli sia possibile.

Il film, in bianco e nero e dalla durata fiume di tre ore abbondanti, scorre rapido e senza grossi intoppi. Si vede la mano di Steven Spielberg in un approccio che solo a tratti è un po' troppo, come dire, spielberghiano. Il risultato è una di quelle cose che restano impresse.

A mio parere, le parti a colori, un breve prologo iniziale e il finale poco più lungo che ci riporta ai nostri giorni, sono le cose meno riuscite. Meglio sarebbe stato iniziare con la presentazione di Schindler e finire con l'arrivo dell'Armata Rossa - che, a dire il vero, consta in un solo soldato a cavallo.

A parte l'impatto emotivo della vicenda, che è ovviamente il cuore del racconto, notevole il gioco tra Neeson, Fiennes e Kingsley. Bravo il primo a seguire il mutamento carattere di Schindler, bravo il secondo a rappresentare la follia monocorde di Goeth, e bravo il terzo a raccontare in sottrazione la rassegnata caparbietà di Stern.

Allied: Un'ombra nascosta

Nel 1942 Max Vatan (Brad Pitt), introverso contadinotto canadese, viene mandato in missione quasi-suicida a Casablanca allo scopo di uccidere il console tedesco in Marocco. Per compiere questa insensata azione deve fingere di essere il marito parigino di Marianne Beauséjour (Marion Cotillard) fascinosa resistente francese finita lì per sfuggire alle indagini della polizia militare tedesca dopo che la sua unità nella Francia occupata è stata annichilita.

Ufficialmente coppietta innamorata, in realtà sconosciuti che fanno il loro lavoro ben consci di avere una altissima possibilità di lasciarci le penne a breve, i due hanno una relazione complicata che poi però sfocia in un profondo amore. Sorprendentemente, l'azione funziona, e Max decide d'impeto di portare Marianne con sé nella relativamente meno pericolosa Inghilterra. I due si sposano e poco dopo nasce, sotto un bombardamento quasi d'ordinanza, la loro figlia.

Un anno dopo, i servizi segreti inglesi comunicano a Max che Marianne è una spia tedesca. Lui deve partecipare passivamente ad una trappola per confermare definitivamente la cosa e ucciderla. Altrimenti entrambi verranno uccisi.

Max è convinto che si tratti di un errore. In subordine potrebbe anche essere una verifica sul suo conto, per accertarsi di quanto sia affidabile prima di dargli un compito estremamente delicato. Oppure Marianne potrebbe essere davvero una spia.

Interessante il lavoro alla regia di Robert Zemeckis che mescola la sua consueta capacità nel gestire scene di notevole complessità tecnica, facendole peraltro sembrare assolutamente naturali, ad un gusto nel nuovere la macchina da presa che mi ha ricordato molto i classici del dopoguerra. Ad esempio certe inquadrature e zoom su alcuni particolari mi hanno fatto pensare a Hitchcock, e il racconto visuale della Casablanca nella seconda guerra mondiale non può che riportare alla memoria il capolavoro di Michael Curtiz. Molto bella la ricostruzione d'epoca. Molto bravi gli attori, in particolare la Cotillard.

Non mi ha convinto appieno la sceneggiatura di Steven Knight, che pure ha nel suo bagaglio cose ragguardevoli come La promessa dell'assassino (2007) di David Cronenberg. In particolare, non riesco trovare un senso, in qualunque modo la guardi, per le circostanze della missione a Casablanca. Né per gli alleati né per l'asse.

Le due ore di azione filano via bene, anzi, il finale m'è sembrato persino tirato via, ridotto ai minimi termini proprio per non rischiare di sforare troppo con i tempi.

Sherlock 4.3: Il problema finale

Qualche passaggio scricchiola un po' (*) ma, paradossalmente per una serie basata sulla logica, in questa puntata la ragione viene messa in secondo piano dal sentimento, ed è con quella chiave di lettura, così ostica per il suo protagonista, che va affrontata.

Sapevamo già, dalla puntata scorsa, che il problema finale (**) sarebbe stato legato a Eurus (Sian Brooke), la più giovane della famiglia Holmes, di cui nulla Sherlock (Benedict Cumberbatch) si ricordava e di cui nulla Mycroft (Mark Gatiss) avrebbe voluto dire.

Sherlock e John Watson (Martin Freeman) concepiscono un piano per far saltare l'equilibrio nervoso al solitamente imperturbabile più astuto fratello Holmes, così da spingerlo a rivelare la verità. I fatti relativi a Eurus sono così spaventosi che Mycroft può narrarne solo il minimo indispensabile, aggiungendo qualche piccolo dettaglio quando necessario, senza che al fratellino o a John vengano sospetti.

Lo sviluppo spiega molto di quanto era poco chiaro nelle precedenti puntate, ma anche punti corposi, come l'apparentemente inspiegabile capacità di Jim Moriarty (Andrew Scott) di colpire Sherlock nei punti più deboli (***), sbiadiscono di fronte a quello che è il punto chiave, la spiegazione di come mai Sherlock sia così ossessionato dal risolvere misteri polizieschi, e perché faccia così fatica a legarsi con altre persone.

Il finale di puntata è congegnato in modo tale da reggere benissimo come finale di serie (ohimé), ma lasciare comunque la porta aperta a possibili sviluppi. Magari un episodio speciale, di tanto in tanto, possiamo pure sperare di ritrovarcelo nella calza della befana.

(*) Ad esempio la scena dell'esplosione. Difficile credere che nessuno dei personaggi coinvolti non riporti almeno una qualche lieve ferita, si sia rotto un qualche osso, strappato un muscolo.
(**) The final problem, che secondo Conan Doyle avrebbe dovuto essere la scontro finale con Moriarty, in questa versione firmata da Mark Gatiss e Steven Moffat consumato ne Le cascate di Reichenbach.
(***) Al punto che mi aveva fatto pensare alla bislacca ipotesi che fosse proprio Jim il terzo fratello Holmes. Sembrava anche a me quasi impossibile, e infatti. In un certo senso, però, Jim era stato plagiato da Eurus, diventando una specie di sua longa manus, e quindi, per interposta persona, la lotta tra Sherlock e Jim era davvero una lotta fratricida.

Paterson

Paterson (Adam Driver) è un autista di autobus che vive a Paterson, New Jersey, con la pazzerella Laura (Golshifteh Farahani). I due si amano teneramente, e se Paterson ha perplessità sulla vena creativa di Laura, le dissimula abbastanza bene. L'idillio è disturbato da Marvin (*), il bulldog inglese della coppia, che è evidentemente geloso di Paterson e vorrebbe Laura tutta per sé.

Uno dei pochi motivi di discussione nella coppia è causato dalla vena poetica di Paterson, che scrive di getto brevi composizioni in versi sciolti che trattano temi molto quotidiani con un punto di vista candido e disarmante (**). Il punto è che Paterson le scrive in un libricino che custodisce gelosamente, e Laura è l'unica che abbia avuto modo di conoscerne alcune. Lei vorrebbe che lui rendesse in qualche modo pubblico il suo lavoro, o che almeno ne facesse una copia. Malvolentieri, Paterson promette che il weekend successivo fotocopierà il libercolo.

Da questi presupposti parte la narrazione di una settimana della vita dei protagonisti, seguendo la prospettiva prevalente di Paterson. Il che è tendenzialmente noioso, considerando che la routine del nostro è inchiodata ad appuntamenti fissi che si ripetono sempre uguali tutti i giorni. Si sveglia abbracciato a Laura, fa colazione, raggiunge la stazione degli autobus, prende il suo mezzo, scambia due chiacchiere con un collega, guida tutto il giorno, prestando a volte orecchio alle parole dei passeggeri, torna a casa, cena con Laura, porta a spasso Marvin, si ferma al bar di Doc (Barry Shabaka Henley) dove beve qualche birra e chiacchiera con i presenti.

Questo quadro ripetitivo (***) viene scardinato da piccoli avvenimenti che oggettivamente sono di minima importanza ma, all'interno della cornice, mostrano quanto siano significativi per i nostri.

Chi conosce Jim Jarmush dovrebbe apprezzare questo suo lavoro che è perfettamente in linea con la sua poetica. Agli altri la tranquillità con cui si lascia che i minuti passino potrebbe risultare eccessiva.

(*) Interpretato da Nellie, ruolo che le è valso la Palma d'Oro di categoria. Ohimé, postuma.
(**) Sono in realtà lavori di Ron Padgett. Nel finale si cita la New York school, forse come indizio per permettere più facilmente di identificarlo.
(***) Per conto mio sarebbero bastate tre o quattro giornate, il resto mi è sembrato un eccesso di descrizione.

Il riccio

Una indisponente undicenne parigina di famiglia bene, che risponde all'inconsulto nome di Paloma (Garance Le Guillermic), alla sorella maggiore, Colombe, è andata anche peggio, ha deciso che si suiciderà al compimento dei dodici anni. Motivo, non vuole una vita vacua come quella della sua famiglia e di tutta la gente che conosce. Capita però un nuovo vicino, il giapponese Kakuro Ozu (Togo Igawa), che sovverte i suoi schemi e la porta ad interessarsi della portinaia Renée (Josiane Balasko) di cui entrambi hanno scoperto il segreto.

Tratto dal best seller L'eleganza del riccio di Muriel Barbery, a quanto mi dicono non mantiene le promesse del romanzo. Pare che anche la Barbery sia stata dello stesso avviso e abbia fatto il possibile per distanziare la sua opera da quella, cinematografica, di Mona Achache. Da cui il titolo, monco, e la nota sui titoli che avverte lo spettatore di quanto la sceneggiatura sia liberamente tratta dall'originale.

Simpatici alcuni passaggi, come le animazioni che prendono vita dai disegni di Paloma, o la scena in cui la protagonista cerca di provocare i genitori affermando di aver deciso cosa farà da grande, ottenendo, con suo gran dispiacere, una sorprendente approvazione incondizionata. Per il resto m'ha convinto molto poco.

Le svariate prove di suicidio di Paloma mi hanno ricordato Harold e Maude (1971), che però qui sono a solo uso e consumo dell'artefice, mentre là sono delle vere messe in scena decisamente più intriganti.

Arthur e il popolo dei Minimei

Primo film della trilogia tratta dalla serie fantasy quasi omonima (*) scritta da Luc Besson su idea di Céline Garcia. Besson stesso ha curato il passaggio al cinema della storia.

Combinazione di live-action e animazione in cui la prima ricorda molto un film Disney anni sessanta, tipo Un maggiolino tutto matto (**), la seconda, invero non completamente riuscita, è completamente folle, con riferimenti temporali mescolati che creano un curioso effetto di spiazzamento.

Si narra di un ragazzetto (Freddie Highmore) che, nell'intento di salvare la proprietà dei nonni dallo sfratto, parte alla ricerca del nonno che scopre essere in giardino, rimpicciolito al fino di andare a far visita al microbico popolo dei Minimei che lì si trovano per motivi troppo lunghi da spiegare.

Lascia così la nonna (Mia Farrow) senza spiegare bene la situazione e si fionda in una inesplicabile avventura nel corso della quale dovrà sconfiggere il perfido Maltazard e si innamorerà della bella, per quanto di carattere difficile, principessa Selenia.

Pur essendo una produzione francese, mira molto al mercato americano in particolare e di lingua inglese in generale. Io l'ho visto in italiano, e così non ho potuto sentire la voce del David Bowie che doppia il cattivo (***), Madonna come Selenia (°), e poi David Suchet (narratore), Harvey Keitel, Robert De Niro, Chazz Palminteri, Snoop Dogg, eccetera.

(*) In quattro volumi. I primi due concorrono a formare la sceneggiatura di questo episodio cinematografico.
(**) L'ambientazione è proprio anni sessanta nel New England americano. Il buffo è che sembra davvero girato in quel periodo.
(***) Scelta che deve essere stata compiuta in fase di pre-produzione, visto che Maltazard assomiglia al Duca Bianco.
(°) Come dicevo, il mondo dei Minimei è tutto strano. Selenia ha mille anni locali, che corrispondono a dieci anni nostri, ma ha una maturità e una voce di una donna non più giovanissima.

Sing

Per me che amo le animazioni, Cattivissimo me (2010) è stato un film di enorme importanza perché ha segnato la nascita dei Minion, che assumeranno maggiore importanza nel sequel del 2013 per poi diventare protagonisti assoluti nel prequel del 2015, e contestualmente la nascita di una nuova casa di produzione cinematografica, la Illumination.

Superati alcuni incidenti di percorso (*) sono rapidamente giunti ad una fase di maturità tale da riuscire a proporre una media di due titoli all'anno (**), il che, sapendo la mole di lavoro che c'è dietro, ha qualcosa di stupefacente. Interessante notare come la necessità creativa spinga la produzione ad attirare nel campo gente che viene da storie diverse. In questo caso vediamo che sceneggiatura e regia (***) sono di Garth Jennings che ha iniziato la sua carriera con i video clip per poi dirigere un film di culto come la Guida galattica per autostoppisti (2005).

Il doppiaggio italiano m'è parso molto buono, però i titoli di coda mi hanno fatto rimpiangere di aver potuto ascoltare la versione originale, che usa le voci di Matthew McConaughey, Reese Witherspoon, Scarlett Johansson, John C. Reilly, eccetera.

Buster Moon è un koala che ama alla follia il lavoro di imprenditore teatrale, purtroppo per lui i suoi concittadini non riescono a trovare nella sua passione uno stimolo sufficiente per andare ai suoi spettacoli. Il suo teatro è ormai fatiscente, e senza un colpo grosso la chiusura è imminente (°). Così decide di provare la via di un talent show per cantanti. La sbadatezza della sua vetusta assistente, l'iguana Karen Crawley, porterà ad un inaspettato successo tra gli aspiranti partecipanti, anche se aggiungerà un tassello al rischio di catastrofe che diventa sempre più incombente.

Estremamente divertente la collezione di performer che vanno dal minuscolo topolino Mike (°°) alla timida elefantina Meena.

(*) Ad esempio sconsiglio la visione di Hop (2011), che ai tempi mi deluse moltissimo.
(**) Questa volta, prima di Sing è toccato a Pets. Non mi ha entusiasmato ma è comunque un buon prodotto.
(***) Affiancato alla direzione da Christophe Lourdelet, nato come animatore nella Amblin, ha girovagato parecchio, passando anche dalla Aardman per Pirati! (2012) fino ad assumere un ruolo importante in Un mostro a Parigi (2012) della EuropaCorp di Luc Besson e quindi entrare nella Illumination.
(°) Tra gli altri, ricorda un po' anche la storia de I muppet (2011).
(°°) Evidente parodia di Frank Sinatra, ha una smodata passione per donne e guai, un grandissimo ego e una voce da crooner sensazionale.

Le 5 leggende

Motivi per così dire tecnici mi hanno mal predisposto alla visione di questo lavoro della DreamWorks. L'ho dovuto vedere in italiano, e quindi mi sono perso le voci originali, che sono di gente come Chris Pine, Alec Baldwin, Jude Law e Hugh Jackman. L'animazione degli umani non è ancora convincente, non hanno ancora la fluidità che ci si può aspettare dalla realtà, mentre ormai l'animazione del resto è eccellente, e questo mi che crei uno strano scompenso.

Non conosco la fonte di partenza (una serie di racconti di William Joyce) e quindi non so se alcuni passaggi mi abbiano generato dubbi per colpa della conversione sullo schermo, che pure è stata affidata all'ottimo David Lindsay-Abaire (*), o siano peccati originali. La cosmogonia di riferimento è alquanto bizzarra, e la conseguente interpretazione della psicologia umana poco convincente.

Nonostante tutte questi miei distinguo, alla fine mi sono divertito, e direi che il risultato complessivo è buono.

In uno strano mondo parallelo, l'Uomo nella Luna (**) è a capo della fazione del Bene, ma non interviene direttamente nelle faccende degli umani, lasciando che siano i suoi assistenti a sporcarsi le mani. Costoro sono Babbo Natale (***), il coniglio pasquale (°), la fata del dentino, e l'omino del sonno (°°).

Per quanto ne sappiamo, il Male ha un solo rappresentate, l'Uomo Nero (°°°). Costui dominava sull'umanità, distribuendo a tutti i bimbi incubi orribili con cui passare la notte, ma poi per qualche motivo all'Uomo nella Luna è venuto in mente di cambiare le cose e ha creato i Guardiani con il compito di far dormire meglio i cuccioli d'uomo.

Ora però l'Uomo Nero sta tornando, più forte che mai, e l'Uomo della Luna percepisce che i Guardiani non saranno capaci di tenerlo a bada. Così sfodera il jolly, Jack Frost (#). Costui ha tutta una sua serie di problemi, non sa chi sia, nessuno lo considera, eccetera. Riusciranno i Guardiani a portarlo dalla loro parte? Riuscirà Jack a scoprire chi è davvero? Verrà sconfitto l'Uomo Nero?

(*) Suo Rabbit hole (2010).
(**) Personaggio poco definito, che immagino prenda le mosse da quello rappresentato anche da Georges Méliès nel suo Viaggo nella Luna (1902).
(***) Chiamato amichevolmente Nord, ispirato più al Nonno Gelo russo che al San Nicola nord Europeo convertito nell'attuale iconografia dagli americani.
(°) In italiano lo chiamano Calmoniglio, chissà perché.
(°°) Mitologia ben poco popolare da noi, molto noto dagli anglofoni come Uomo della Sabbia (Sandman).
(°°°) Pitch Black. Vedasi, anche se non c'entra niente, l'omonimo primo capitolo delle storie di Riddick (2000).
(#) Personificazione del gelo. Praticamente ignoto da noi, piuttosto popolare tra gli anglofoni.

Sherlock 4.2: Il detective morente

Il titolo italiano mantiene quello che è il racconto di Conan Doyle che più ricorda la trama investigativa dell'episodio (*), in originale c'è la solita leggera variazione, The lying detective, che è uno dei tratti distintivi della serie.

Il finale della puntata precedente aveva lasciato aperto uno spiraglio sullo sviluppo, Mary Watson (Amanda Abbington) sembrava proprio averci rimesso le penne, ma non tutto (mi) sembrava perduto. I primi minuti di questo episodio lasciano ancora aperti i giochi, scopriamo però rapidamente che è solo John Watson (Martin Freeman) a mantenerla in vita, sotto forma di allucinazione.

Sappiamo che Mary ha ordito un piano per riavvicinare John a Sherlock Holmes (Benedict Cumberbatch), difficile però capire quale sia. Sembra che Sherlock stia facendo di tutto per autodistruggersi abusando di droghe, e anche se questo potrebbe forse avvicinarlo a Mary non pare essere uno sviluppo soddisfacente.

Entra però in gioco Culverton Smith (Toby Jones), ricco, famoso, consumato dentro da una cattiveria cieca e insensata. A portargli il caso è Faith Smith (Sian Brooke), figlia di Culverton, che narra con raccapriccio un meeting paterno a cui è stata costretta ad assistere, ma di cui si è dimenticata quasi tutto, causa una droga a cui tutti i partecipanti, tranne Culverton, sono stati esposti.

Il caso è così bizzarro, e Sherlock è così fuso, che il nostro non pare prenderlo in considerazione. Poco alla volta però l'interesse gli cresce dentro, anche se con effetti che è difficile considerare positivi. L'intervento della signora Hudson (Una Stubbs), che rivela alcuni degli assi che finora ha ben nascosto nella sua manica, riesce in qualche modo a far ripartire la collaborazione tra Sherlock e John, anche se quest'ultimo è più interessato a parlare con Mary che con il suo partner in investigazioni.

La soluzione del caso pare portare ad un nuovo equilibrio, ed è estremamente buffo vedere come Mycroft (Mark Gatiss) e lo stesso Sherlock reagiscano ad un abbassamento dei loro schermi protettivi nei confronti del sentimento, scopriamo però che il terzo fratello Holmes forse non è esattamente quello che credevamo, ed è con noi, in parole, opere, e anche persona, da più di quanto potessimo aspettarci.

(*) Per qualcosa di più vicino alla lettera doyliana, vedasi la versione di Jeremy Brett (1994), uno degli episodi più riusciti di quelle serie, e che mi pare abbia fornito qualche spunto alla sceneggiatura di Steven Moffat.

Florence

Storia in due tempi, anche se questo non giustifica l'italica abitudine che mantengono numerose nostre sale di spezzare la visione in due, troncando più o meno a caso, più o meno in mezzo. La storia è basata su un personaggio reale, la signora Florence Foster Jenkins, anche se la sceneggiatura (Nicholas Martin) si prende alcune libertà allo scopo di indirizzare lo sviluppo nella direzione auspicata dal regista, Stephen Frears. Mi parrebbe interessante vedere di fila questo film con un altro recente lavoro di Frears, Philomena (2013). Entrambe storie basate su accadimenti reali, là abbiamo una lenta evoluzione dei personaggi principali dovuta alla loro interazione, qua il cambiamento del carattere dei protagonisti è molto limitato, a cambiare è quello che capiamo del loro modo di agire.

La prima parte tende alla farsa. La protagonista, Florence (Meryl Streep) è una attempata signora newyorkese dalle ingenti risorse economiche e con il pallino per la musica d'arte, che sovvenziona con larghezza. Il suo club, intitolato a Verdi, fornisce spettacoli amatoriali più in linea con i gusti ottocenteschi che con quelli degli anni quaranta del novecento. Se tutti ne sono entusiasti, forse il merito va alle notevoli quantità di cibo ammannite ai fortunati associati.

St Clair Bayfield (Hugh Grant) è un posato signore dal sorriso fascino, dai modi garbati, e dalla parlata eloquente. Spiantato, di origine inglese, in gioventù è stato attore e, come molti a quei tempi (*), ha attraversato l'Oceano in cerca di fortuna nel campo dell'intrattenimento. A lui è andata male nell'arte, ma ha trovato Florence, e ora conduce una vita decisamente piacevole.

Il sospetto che nasce e ci cresce dentro rapidamente, è che un po' tutti se ne approfittino della leggera sconclusionatezza di Florence. Senza cattiveria, si intende, ma comunque accettino le sue stravaganze in cambio di una qualche contropartita. Il dubbio che la storia pencoli pericolosamente nella direzione della pochade viene quando scopriamo che St Clair ha un suo appartamento distinto in cui vive con Kathleen (Rebecca Ferguson), la quale sembra accettare la condivisione del compagno con filosofia.

A far precipitare la situazione arriva la decisione di Florence di mettersi a cantare. Il che non sarebbe così tragico se non fosse per la sua incapacità nel campo che va oltre ad ogni possibile immaginazione. Nessuno osa farglielo notare, non il prestigioso insegnante di canto (David Haig), tantomeno il timido pianista che l'accompagna, Cosmé McMoon (Simon Helberg), che non avrebbe modo di trovare un altro ingaggio che sia lontanamente paragonabile. E il peggio è che Florence decide di fare le cose in grande, tenere un primo concerto aperto al pubblico, incidere un disco, per passare poi ad una serata alla Carnegie Hall, il tutto a sue spese, ovviamente.

E qui, gradatamente, si entra nella seconda parte. Lentamente ma inesorabilmente le carte cambiano in tavola. Scopriamo così, poco alla volta, che Florence ha sempre avuto una grande passione per la musica, amore per il quale ha abbandonato la ricca famiglia rischiando la povertà assoluta. Da giovinetta campava dando lezioni di piano, fino a che incontrò il suo primo marito, che le passò la sifilide, malattia invalidante ai tempi praticamente incurabile e che portava alla morte in pochi anni. Lei ci ha convissuto per mezzo secolo, seguendo cure che per noi sono raccapriccianti, a base di mercurio e arsenico. Scopriamo anche che St Clair la ama davvero, si fa in quattro per evitare di esporla al ridicolo, lo vediamo rischiare fisicamente cercando di far sparire uno spiacevole disco di Florence, cosa che metterà anche alla prova finale la sua relazione con la pur paziente Kathleen. E lo vedremo nel finale affrontare la Carnegie Hall, in una serata che non lascia presagire niente di buono.

Piccola parte, ma succosa, per Nina Arianda, giovane moglie di un arricchito che vede nel club di Florence un modo per entrare nella New York bene. All'inizio è quella che dice che il re è nudo, o meglio, che la cantante non sa cantare, e lo fa sbellicandosi dalle risate durante il primo concerto. Ma alla serata della Carnegie vedrà, e farà vedere agli altri, oltre le stonature.

(*) Charlie Chaplin e Stan Laurel, tanto per fare un paio di nomi.

Sherlock 4.1: Le sei Thatcher

Non si può scappare dal proprio destino, spiega un antico racconto arabo in cui un mercante si prende il disturbo di scappare a Samara per evitare la morte, per poi scoprire che la morte lo aspettava proprio lì. A Sherlock Holmes (Benedict Cumberbatch) quella storia non è mai piaciuta (*), e ben si può capire perché, essendo lui così razionalizzatore e incapace di accettare quel che accade. Alla base di tutto ci deve essere un trauma infantile, come più volte accennato in passato, chissà se ne sapremo di più in questa stagione.

Comunque, fatto buffo per una prima donna del suo calibro, non è Sherlock al centro di questa puntata, e quindi non è lui nemmeno il riferimento principale della storia del mercante, bensì Mary Watson (Amanda Abbington), che fa muovere gran parte dell'azione e lascia Sherlock e il marito John (Martin Freeman) il compito di rincorrerla.

Come spiegato nello speciale dell'anno scorso, Sherlock è stato scelto come volontario per una missione suicida ma richiamato immediatamente indietro per fronteggiare il ritorno di Jim Moriarty (Andrew Scott), che però è molto morto e non si capisce bene cosa possa aver ordito in queste condizioni.

La soluzione di Sherlock è di aspettare la mossa, per quanto postuma, del suo arcinemico. E mentre lo fa, per passatempo, risolve una caterva di casi minori, dei quali, sfortunatamente, abbiamo solo rapidi accenni. In parallelo, Mary e John hanno una bimba, Rosamund Mary, di cui Sherlock diventa malvolentieri padrino, e che cerca inutilmente di introdurre alle delizie della logica.

E infine il gioco ha inizio. In un primo tempo sembra assumere le sembianze de I sei Napoleoni (**), poi succedono cose strane, a rompere i busti della Thatcher risulta essere un tal Ajay (Sacha Dhawan) cambia le carte, essendo egli nientemeno che un compagno di rischi della Mary pre-John della quale non sappiano niente. Ajay dice qualcosa, in particolare di essere molto arrabbiato con Mary. E questo è solo l'inizio di una serie di eventi che porteranno ad un presumibile tragico finale.

Non ci si poteva aspettare che la prima puntata della stagione chiarisse molto, ma qui siamo andati addirittura nella direzione opposta. Succede qualcosa di molto sorprendente, di cui parlerò fra poco, giusto per dare il tempo a chi non abbia ancora visto l'episodio di chiudere la pagina. Ma, anche se non abbiamo ancora visto in azione il cattivo del momento (***), abbiamo accumulato molti altri piccoli particolari su cui mediare.

Tornando al punto chiave, che chi non sa già sarebbe meglio se continuasse a non saperlo, Mary muore nel finale. Il che causa una rottura tra Sherlock e John. Da chiedersi però se davvero Mary è morta o se i Watson hanno agito in concerto per fingere la dipartita di lei. Potrebbe infatti essere un parallelo con la caduta di Reichenbach, e alcune cosucce che dice Mary (°) lasciano aperte entrambe le strade.

(*) Mentre era piaciuta molto a Roberto Vecchioni, che l'ha adattata in canzone, Samarcanda, title track del suo album del 1977.
(**) Vedasi la bella versione Granada con Jeremy Brett.
(***) Trailer BBC ci hanno già rivelato che è interpretato da un minaccioso Toby Jones.
(°) Dice a Sherlock che hanno pareggiato il conto, come quando lei ha sparato a lui. Ma noi sappiamo che in quel caso lui non è morto. E poi quel continuo reiterare nel messaggio-testamento al fatto che lei è morta, o potrebbe esserlo.