Lo spettatore più attento avrà notato come nella precedente puntata Jim Moriarty (Andrew Scott) appaia in due brevi sequenze. In una come idea fissa di Sherlock Holmes (Benedict Cumberbatch), nell'altra come antagonista del suo fratellone Mycroft (Mark Gatiss). Qui si tirano le conclusioni di questa partita a tre.
Sherlock e Jim sono il ritratto speculare della stessa personalità. Il consulting detective tiene a bada la sua noia nei confronti di un mondo per lui risulta troppo spesso scontato lavorando per gli "angeli", il consulting criminal lavora sul campo avverso. L'incontro li ha fatti sbarellare, Sherlock vede Jim anche dove non c'è, Jim ha trasformato Sherlock nella sua ossessione. Si può capire quando Jim abbia fatto bene i suoi compiti notando come riesca ad identificare correttamente chi siano tre amici del suo arcinemico. Se a Watson (Martin Freeman) ci arriverebbe chiunque, la signora Hudson (Una Stubbs) è un bersaglio più complicato, come pure l'ispettore Lestrade (Rupert Graves), così spesso maltrattato dal nostro. Sherlock, ovviamente, va anche oltre, riuscendo a calcolare le decisioni di Jim fino all'ultima.
Tra Sherlock e Jim c'è in mezzo Mycroft, che ha scelto di mettere la sua intelligenza al servizio dello Stato, e non capisce perché il suo dotato fratellino non voglia fare lo stesso. Il lavoro che si è scelto Mycroft ha il vantaggio di tenere impegnata costantemente la sua mente, ma ha lo svantaggio di fargli perdere il senso della misura, ancor peggio di come lo perde solitamente Sherlock.
Il titolo può risultare criptico ai meno assidui lettori di Conan Doyle, ma ne ho già parlato abbastanza nel post dedicato alla mia prima visione di questo episodio.
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