Vesna va veloce

Vesna è un giovanissima ceca (Tereza Grygarová) che arriva a Trieste con uno di quegli innumerevoli autobus che, approfittando della scomparsa della cortina di ferro, portavano gli est-europei in visita lampo ai paesi occidentali. Ma l'idea di Vesna non è quella di tornare indietro, vuole invece stare da noi. A far che, non lo sa bene nemmeno lei. Vorrebbe diventar ricca e, dopo aver accumulato tanti soldi, godersi il semplice piacere di sedersi su una sedia in un bel giardino a prendere il fresco in una tiepida giornata.

Incontra un gran numero di uomini, ognuno che avrebbe una sua storia (nel bene e nel male) da raccontare, ma Vesna va davvero veloce e, solo sul suo percorso fino a Rimini, scivolano rapidamente, lasciando poche o nessuna traccia, un assicuratore (Silvio Orlando) in cerca di tenerezze, un camionista (Tony Sperandeo), un cameriere (Roberto Citran), uno slavo disperato.

Sembra che Vesna a Rimini ci voglia restare, ma continua a correre velocemente da un incontro all'altro, mangia a sbafo in una tavola calda guadagnandosi il maltrattamento da parte del proprietario (Antonio Catania) e snobbando il cameriere (Stefano Accorsi) che cerca di consolarla. Decide invece di dedicarsi alla prostituzione, passando in rassegna, sempre rapidamente, una galleria di personaggi di varia umanità (a partire da un tremendo Ivano Marescotti), fino a che non incappa in Antonio (Antonio Albanese) un cliente a cui si sente attratta, ma solo parzialmente.

Il problema è che Antonio le fa qualche domanda di circostanza sulla sua vita, e rimane stupito quando lei gli dice che la prostituzione non è certo piacevole, ma è sempre meglio di quello che faceva prima - senza che si riesca a capire cosa mai fosse.

Nonostante la diffidenza di Vesna, succede qualcosa che li avvicina, e i due passano qualche tempo assieme, abbastanza per illudere lei che lui la accetti così com'è, e lui che lei possa accettare una vita semplice con lui.

Ma, appunto, è solo una illusione. Lei, evidentemente, non vuole lasciare il giro, lui si sente intrappolato dai silenzi con cui Vesna protegge il suo doloroso e misterioso passato e, complice una serata in un albergo nell'entroterra (il cui proprietario è Marco Messeri), si consumerà la rottura.

Non è il mio film preferito tra quelli di Carlo Mazzacurati (regia e co-scrittura), però è ben rappresentativo della sua cinematografia. Molto viene lasciato alla sensibilità dello spettatore, ognuno può decidere di interpretare anche il finale come meglio gli pare.

Degna di nota la colonna sonora, basata sul sassofono di Jan Garbarek e integrata con canzoni come Ask dei The Smiths e un paio di brani dei Mau Mau.

The pervert's guide to cinema

C'è 'sto tizio, Slavoj Žižek, che per un paio d'ore parla in un inglese dal forte accento sloveno di cinema, aiutato da numerosi spezzoni che arrivano da ben note pellicole. E questo più o meno è tutto.

La regia è di Sophie Fiennes, la documentarista tra i fratelli Fiennes, la musica è di Brian Eno.

L'interesse in tutto ciò nasce dal fatto che Žižek parla di cinema dal suo punto di vista di Philostar, ovvero di filosofo(/psicologo) con un forte impatto mediatico, almeno per chi segue quegli argomenti. A me, che non sono particolarmente interessato alla psicoanalisi, sono sfuggiti alcuni punti. Ad esempio Žižek fa un parallelo tra i tre piani della casa di Norman Bates in Psycho e il suo (di Bates) io, super-io, e id, che mi è sembrato molto elegante e ben svolto, ma non sono sicuro di aver afferrato in pieno.

Nonostante questa debolezza, dovuta peraltro alla scarsa cultura dello spettatore, e limitata solo ad alcuni momenti, ho apprezzato la lettura alternativa degli spezzoni di film mostrati. Parziale e a tesi, evidentemente, ma che vale la pena di tener presente. Da sottolineare poi che questa lezione di cinema è tenuta con toni molto leggeri, con Žižek che spesso butta lì con nonchalance battute per rompere la tensione.

I sogni segreti di Walter Mitty

Il povero Ben Stiller è contrastato da una piccola comunità che non lo ha per niente in simpatia. Per fortuna sua, e del mondo intero, questa è ben poco attiva e conta, per quel che ne so, un numero minimale di appartenenti. La cito qui esclusivamente perché tra i congiuranti c'è pure il sottoscritto, e questo spiega come mai io abbia svicolato una prima volta dalla visione questo suo ultimo film (regia, parte principale, co-produzione) usando come scusa la prima versione cinematografica tratta dallo stesso racconto di James Thurber, The secret life of Walter Mitty. Mezzuccio che non ha retto al passare del tempo, anche a causa della sua lunghissima (e poco giustificata, a mio avviso) permanenza in cartellone.

Devo ammettere che, dopotutto, non è poi così male. Anche se non sono d'accordo con l'impostazione generale, la storia (praticamente scritta di sana pianta da Steve Conrad mantenendo ben poco del film precedente o del racconto di Thurber) più o meno potrebbe reggere, magari facendola rivedere da uno sceneggiatore più esperto. Anche lo Stiller regista se la cava per buona parte del tempo, anche se mi pare incapace di approfondire a dovere i personaggi, che restano quasi tutti allo stadio di bozzetto.

Però avrei preferito che Stiller non fosse anche protagonista. Ma lo Stiller regista e quello produttore devono aver fatto notevoli pressioni per prenderlo a bordo. Il brutto è che Walter Mitty è fondamentalmente l'unico personaggio del film. Tutti gli altri, e parliamo di gente come Kristen Wiig (Cheryl, la collega di cui Mitty si innamora), Shirley MacLaine (madre di Mitty), e persino Sean Penn (il fotografo Sean O'Connell che scatena l'intera azione), hanno poco tempo e battute restando, nel migliore dei casi, sullo sfondo.

Walter Mitty lavora praticamente da sempre a Life, e siamo nel periodo in cui quella gloriosa testata sta terminando la sua avventura cartacea. Ai tempi si pensava ad una sua transizione elettronica, sperando in qualche modo di farla sopravvivere nel web. In realtà quello che è rimasto, vedi life.time.com, è poco più che un museo digitale del bel tempo andato.

Per motivi non chiari, Walter ha una notevole difficoltà ad affrontare il mondo reale, e reagisce alle difficoltà fantasticando una sua vita parallela in cui è una specie di supereroe. Questo handicap (e un buffo problema nell'uso delle tecnologie moderne) gli impedisce di dichiararsi alla bella collega (la Wiig) che pure non sembra maldisposta nei suoi confronti. La catastrofe di Life complica ulteriormente le cose, con l'arrivo di un gruppetto temporaneo di manager (mal sceneggiati) che non sanno di cosa si occupano e pensano solo a tagliare teste alla svelta. Vedere Tra le nuvole di Jason Reitman per avere qualche squarcio su come questa tematica avrebbe potuto essere meglio trattata.

Un contrattempo porta (in modo forzato) il protagonista a abbandonare il proprio guscio per partire alla ricerca di un prezioso negativo. Lo strano è che questo lungo viaggio che gli farà lasciare New York, per la Groenlandia, l'Islanda, un breve ritorno a casa, poi l'Afghanistan, lo Yemen (non mostrato), Los Angeles (ma vediamo solo l'aeroporto) sembra più pensato per farci vedere belle immagini che per permettere una maturazione del personaggio.

Dicevo che le tre versioni (il racconto e i due film) della storia hanno poco in comune. In particolare, nella versione original non mi pare che il sognare ad occhi aperti del protagonista sia connotato positivamente o negativamente, è una pura fuga dalla realtà, senza particolari motivazioni o vantaggi. Direi che potrebbe essere una narrazione umoristica dell'autore sul come gli nascevano le fantasie che poi trasformava in vignette o racconti. Nel primo film diventa invece una difesa del protagonista dal forte carattere della madre (e poi del capo sul lavoro) che, al momento opportuno, si trasforma in una potente arma che gli consente di ottenere quello che vuole. Qui, invece, viene vista come una specie di malattia. Non si capisce bene come mai Mitty abbia questo problema - il rapporto con la madre sembra normale, ha una sorella (Kathryn Hahn) invadente, ma niente di terribile - si accenna ad trauma relativo alla morte del padre, ma manca una spiegazione che soddisfi. La tag line del film è addirittura Stop dreaming, start living: Smetti di sognare, inizia a vivere. E infatti quando Walter inizia ad agire i suoi sogni ad occhi aperti magicamente spariscono.

Colonna sonora non particolarmente interessante, a parte l'inclusione di Space oddity di David Bowie, che viene anche simpaticamente inglobata nella narrazione, permettendo alla Wiig di darne una sua interpretazione accompagnandosi da sé alla chitarra.

I Croods

Tecnicamente molto bello, la sceneggiatura (nonostante lo zampino di John Cleese) mi ha lasciato invece perplesso in più punti. Curioso notare come Walt Disney e Dreamworks sembra si siano scambiate il target di riferimento. Ai tempi una storia come quella di Shrek non poteva che arrivare dai secondi, adesso sarei quasi sorpreso se fossero loro a produrre qualcosa di simile.

Si narrano le vicende dei Croods, una assurda famiglia simil-preistorica alla Flintstones, che però abita su un pianeta colorato e abitato che assomiglia più a Pandora (nel senso del pianeta su cui si svolge la storia di Avatar) che alla nostra Terra. La figlia maggiore, Hip (Emma Stone la voce originale) è stufa di vivere in una caverna, anche perché il padre, Grug (Nicolas Cage doppiato da Francesco Pannofino), è iperprotettivo. E ne ha ben donde, visto l'ambiente che li circonda. Il conservatorismo estremo di Grug viene spiazzato da una serie di eventi cataclismatici, ovvero terremoti e l'arrivo di Guy, un ragazzotto che sembra destinato a portarsi via Hip.

Segue la solita marcia verso una terra promessa, con relativo cambio di paradigma che i protagonisti dovranno accettare se vogliono sopravvivere. Ho trovato imbarazzante che il passaggio dal vecchio al nuovo mondo avvenga passando attraverso un vallo tra due alti picchi gemelli, per la sua simbologia sessuale fin troppo evidente.

Mi ha negativamente colpito come siano trattati i caratteri femminili. La signora Crood (Catherine Keener) non fa praticamente nulla, sua madre (Cloris Leachman) è vista come una suocera dei film anni cinquanta, la stessa protagonista finisce per diventare subalterna a Guy. Di tutt'altra pasta le moderne eroine Disney.

Reality

La storia narrata da Matteo Garrone è semplice ma efficace. Luciano (Aniello Arena, esordio sul grande schermo), pescivendolo napoletano che arrotonda le entrate grazie ad una truffa che ha cucito assieme alla moglie (Loredana Simioli) sulla vendita per corrispondenza di un buffo robot da cucina, e che da sempre rallegra il vasto parentado con spettacolini da varietà casalingo, si convince che ha i numeri giusti per entrare nel cast del Grande Fratello, e fare così il gran salto in una vita migliore. Per rincorrere questo sogno sacrifica il lavoro, la famiglia, la sua sanità mentale. Lo raggiungerà? Forse sì. In ogni caso il prezzo che paga sembra troppo alto.

Lo svolgimento è in bilico tra la brutale realtà di una Napoli degradata abitata da personaggi tragicamente grotteschi e una spiazzante atmosfera da favola, ben supportata dalla bella colonna sonora di Alexandre Desplat.

Buona rappresentazione del nostro corrente sfacelo culturale-economico. L'unico contraltare al vuoto spinto che mitizza il successo basato sul nulla di chi nulla sa fare, ma che tutti conoscono perché appare in televisione è la Chiesa. I discorsi di Michele (Nando Paone), cugino di Luciano, non però riescono ad avere alcuna presa sul protagonista.

In un piccolo ruolo (il barista) c'è anche Ciro Petrone.

No - I giorni dell'arcobaleno

Il momento storico narrato dal film è interessante. Siamo nel 1988 e la sanguinaria dittatura cilena instaurata quattordici anni prima e che ha nel suo líder máximo il generale Augusto José Ramón Pinochet Ugarte sembra imbattibile. Ha il controllo assoluto dei media, esercita con un controllo asfissiante sulla società civile, e può anche vantare un miglioramento complessivo dello stato dell'economia, ottenuto anche grazie ad un misto di consenso e rassegnazione tra la popolazione.

Il guaio (per lui) è che nel frattempo la guerra fredda è finita. L'Unione Sovietica ha finito i soldi per combatterla e, di conseguenza, per gli Stati Uniti non ha più senso foraggiare un governo imbarazzante come quello cileno. Viene dunque chiesto di verificare con un plebiscito se davvero, come sostiene Pinochet, il Cile sia con lui.

L'idea di Pablo Larraín (basata su una pièce teatrale di Antonio Skármeta, trasformata piuttosto radicalmente in sceneggiatura da Pedro Peirano) è quella di focalizzarsi su un singolo aspetto di quello che accadde in quei giorni, la realizzazione e gestione del quarto d'ora televisivo concesso all'opposizione, per un paio di settimane prima delle votazioni, per illustrare le ragioni del no a Pinochet. E di narrarla come se fosse un documentario girato in quei giorni.

Ho alcune perplessità sia sull'impostazione sia sulla riuscita del film. Il fatto che venga mescolato materiale di repertorio a finzione cinematografica, e che il tutto venga amalgamato così bene, utilizzando macchine da presa d'epoca, e probabilmente degradando il risultato per simulare l'invecchiamento della pellicola, finisce per smussare i confini tra il documento storico e la pura fantasia della coppia Peirano-Larraín. In particolare il protagonista, il giovane pubblicitario che sembra così reale grazie all'interpretazione di Gael García Bernal, non è mai esistito.

Inoltre ho trovato molto noiosa tutta la prima parte del film, anche per la scelta di simulare una ripresa quasi amatoriale. I brutti colori, la sgranatura dell'immagine, la cattiva bilanciatura della luminosità, spesso esasperata dalla presenza nell'inquadratura del sole o di altre fonti luminose, come se chi girasse non avesse il tempo di badare a questi dettagli, mi hanno reso molto faticosa la visione.

Non mi è chiaro poi cosa si voglia dire. Mi pare che si voglia sostenere che la vittoria del no sia stata principalmente figlia di quel quarto d'ora televisivo, il che mi sembra anti-storico, oltre che piuttosto offensivo nei confronti dei cileni.

Educazione siberiana

Non ho capito bene perché Gabriele Salvatores abbia deciso di partecipare a questo progetto. Forse è stato attirato dalle promesse di internazionalità (che in realtà non mi pare siano state mantenute) derivanti dall'interessante cast artistico. Purtroppo il film ha un grosso problema, che mi pare si possa identificare nel romanzo su cui è basata la sceneggiatura.

Non ho letto il libro di Nicolai Lilin ma dai commenti (anche positivi) che ho visto mi pare quanto di più anti-filmico si possa immaginare. Una serie di episodi che illustrano la comunità da cui proviene l'autore mescolando realtà e fantasia in una proporzione non ben definita. E secondo i detrattori è una sovrabbondante fantasia che mira a nobilitare quanto di ben poco nobile c'è in una realtà molto depressa.

Il lavoro di sceneggiatura (della premiata coppia Stefano Rulli e Sandro Petraglia, con il concorso dello stesso Salvatores) ha smontato il materiale originale, lo ha fatto a pezzi e ricucito in una storia cercando di tirarci fuori qualcosa di adatto alla rappresentazione su schermo. Grazie alla capacità del terzetto il risultato è accettabile ma credo che a questo punto sarebbe stato meglio partire da zero, abbandonando del tutto la struttura originale.

Curioso che gran parte del cast, compresi di due protagonisti, siano lituani e anche alla prima esperienza cinematografica. Come se si fosse deciso (o si fosse stati obbligati) a prendere il personale sul posto per riuscire a non sforare i limiti del budget, che immagino sia stato mangiato in buona parte dalla messa in scena e poi dal cachet dei tre attori noti a livello internazionale, che pure hanno ruoli secondari. Il più importante (e costoso) dei tre è certamente John Malkovich, gli altri due sono Peter Stormare (che ricordo soprattuto per Fargo dei Coen), e Eleanor Tomlinson (che ha iniziato ad illuminare le pellicole con il suo bel sorriso a partire da The illusionist di Neil Burger nel 2006).

La storia oscilla tra lo studio della formazione di giovani delinquenti, alla C'era una volta in America di Sergio Leone, ma senza disdegnare anche una citazione di Arancia meccanica di Stanley Kubrick (sottolineata da una scheggia musicale firmata dagli Area) a quello di una famiglia della criminalità organizzata di area ex-sovietica (vedi La promessa dell'assassino di David Cronenberg, alle relazioni in un gruppo di ragazzi all'alba dei primi turbamenti sessuali (e qui la citazione di Absolute beginners di Julien Temple è sottolineata dall'uso del brano omonimo di David Bowie), senza trascurare nemmeno il film militare, con una puntata in Afghanistan.

I protagonisti sono Kolyma (Arnas Fedaravicius) e Gagarin (Vilius Tumalavicius). Il primo integrato nella comunità di onesti (!) delinquenti capitanata da suo nonno (Malkovich), il secondo ribelle, con un grosso problema di rabbia di cui non sappiamo bene quale sia l'origine. Sembra che Gagarin abbia pure una attrazione sessuale per Kolyma, che forse non è ricambiata (o forse Kolyma, così inquadrato, preferisce non riconoscerla). In ogni caso Kolyma si prende una cotta per la figlia del dottore, Xenya (Tomlinson) che è rimasta bloccata mentalmente alla sua infanzia. Il buon Kolyma, che ha pure una certa capacità artistica, cerca di sublimare la sua disastrosa vita sentimentale affrontando il tradizionale uso dei tatuaggi, a cui viene introdotto da Ink (Stormare).

Sarà Gagarin a rompere definitivamente gli indugi entrando in modalità (auto)distruttiva e causando una serie di danni spaventosi.

La parte di Malkovich, secondaria per quel che riguarda il tema della storia, è fondamentale per lo sviluppo della stessa, avendo la funzione di voce narrante che spiega le tradizioni del gruppo, facendoci capire perché l'integrato Kolyma si comporti in un certo modo, e contro cosa si scontri Gagarin.

Molto piccola la parte della Tomlinson, che però ha alcuni dei momenti liricamente più belli del film. In particolare la scena in cui Xenya cerca di spiegare a quel babbeo di Kolyma quanto lo ami e come vorrebbe fare all'amore con lui, senza avere le parole per farlo, è davvero molto toccante.

Musicalmente, a parte gli inserti progressive e del duca bianco, il tutto è tenuto assieme dalla bella colonna sonora firmata da Mauro Pagani, nientemeno.

Tirannosauro

Non ci si lasci ingannare dal titolo (e magari anche dalla locandina). Questo film, primo lungometraggio scritto e diretto da Paddy Considine, non ha nulla a che fare con i dinosauri, se non una citazione a Jurassic Park. Chi si aspettasse di vedere i simpatici bestioni, magari anche solo le loro ossa, ci resterebbe molto male.

Si tratta infatti di un dramma molto inglese che ha al suo centro il personaggio di Joseph (Peter Mullan) e le sue incontrollabili crisi di violenza che lo hanno ridotto alla solitudine. Pur rendendosi conto di quanto male faccia agli altri e a sé stesso, non riesce a evitare di colpire, fisicamente o verbalmente, chi gli stia attorno, spesso anche chi si comporta con gentilezza con lui.

E' il caso anche di Hannah (Olivia Colman) che viene da lui insultata per averlo aiutato a superare una crisi d'ansia. Hannah ci starebbe pure male, se non avesse problemi ben più grossi di cui preoccuparsi, ovvero un marito (Eddie Marsan) che in pubblico sembra gentile e cortese ma che in privato la sottopone ad una sconcertante serie di maltrattamenti e abusi.

Svariati avvenimenti, in genere poco edificanti, avranno l'effetto di portare i protagonisti ad un nuovo equilibrio, che sembra tutto sommato essere migliore. Almeno per la gran parte di loro.

Interessante notare come il protagonista non riesca a liberarsi della sua pulsione alla violenza se non quando riesca a vederne gli effetti su persone a lui vicine, non essendone direttamente coinvolto. E' come se prima gli fosse mancata la capacità di capire i danni, forse perché non riusciva a valutarla in modo oggettivo. Vedasi il punto in cui ricorda quanto male si fosse comportato con la moglie (morta ormai cinque anni prima) ma continua a sostenere che c'era un senso nel suo agire così.

Lavoro rivolto a pubblico adulto che non abbia paura di affrontare situazioni anche spiacevoli. Svariati i premi che sono giustamente piovuti su Considine, Mullan e la Colman. In particolare dai festival specializzati in film indipendenti, il Sundance e il Bifa sopra tutti.

Effetti collaterali

Si sa che Steven Soderbergh alterna con gran naturalezza film destinati al vasto pubblico (e la serie di Ocean ne è l'esempio più plateale), altri che sembrano fatti apposta per non trovare distribuzione (The girlfriend experience), ad altri ancora che trovano nel mezzo tra questi due estremi. Questo sembra essere stato progettato per stare nella terza categoria, anche se penso che la distribuzione avrebbe potuto puntarci sopra qualcosina di più, invece di mandarlo allo sbaraglio nella stagione peggiore per i film d'autore nel mercato americano (inizio anno).

Il film inizia con la macchina da presa che osserva indolente una città americana dall'alto per avvicinarsi ad un palazzotto, mirare ad una finestra, entrarci e far partire l'azione. Avendo recentemente visto Psycho (nella versione di Gus Van Sant, che però è un remake copia carbone dell'originale) il riferimento ad Alfred Hitchcock non è andato sprecato. E' come se Soderbergh stesse dicendo "Hey, stai attento a quello che stai vedendo, magari non sembra un thriller all'inizio, ma vedrai che si va a parare in quella direzione".

E in effetti, senza quel suggerimento, lo spettatore potrebbe inizialmente pensare che si tratti di un film di denuncia, alla Erin Brockovich, per intedersi. C'è infatti Emily (Rooney Mara), quella che sembra essere la protagonista, che tende alla depressione. Il marito (Channing Tatum) s'è fatto qualche anno di galera per insider trading (ovvero, ha giocato sporco nella finanza, ed è stato beccato) e sta uscendo proprio all'inizio dell'azione. La condizione di Emily peggiora, ed entra in campo quello che sembra un personaggio secondario, il dottor Banks (Jude Law), uno psichiatra inglese trasferitosi in America che vive e lavora a New York. Incontra Emily in ospedale, lei diventa sua paziente e inizia la sua cura che, nonostante Banks sia una brava persona, consulta anche la dottoressa Siebert (Catherine Zeta-Jones) che aveva avuto precedentemente in cura Emily per capire meglio il quadro di insieme, finisce per puntare più sulla chimica che sui reali problemi della paziente.

La cura non va come atteso e iniziano una serie di eventi che è meglio il futuro spettatore non sappia. Accenno solo al fatto che entra in gioco anche il tema caro al cinema del Maestro dell'innocente che finisce in un gioco più grosso di lui, che rischia di esserne stritolato e si salva (se si salva) solo se riuscirà ad attingere ad energie che in lui altri non si aspettavano.

Bella la sceneggiatura di Scott Z. Burns (per la terza volta in accoppiata col regista), un solido thiller come si usavano anni fa ma aggiornato con tematiche correnti (la finanza d'assalto, la banalizzazione dell'uso dei farmaci). A mio parere Steven Soderbergh meriterebbe una nomination agli Oscar per la regia, fotografia o il montaggio. Tutta roba che ha fatto lui, e tutta con gran classe. Ma, appunto, temo che l'uscita a febbraio rende la cosa molto difficile. Tutti bravi nel cast, in particolare Law e Mara, pur essendo costretta dal ruolo ad una certa mancanza di espressione. Bella la colonna sonora Thomas Newman (anche se non paragonabile ai lavori di Bernard Herrman per l'Hitch).

2022: i sopravvissuti

Molto noto in patria, il titolo originale è Soylent green, meno da noi. E' basato sul romanzo Largo! Largo! (Make room! Make room!) di Harry Harrison, autore fantascientifico normalmente più interessato ad una impostazione più fumettistica (dopotutto è stato anche tra gli sceneggiatori delle strisce di Flash Gordon) e giocosa del genere, colto qui in uno dei più rari casi di visione di un futuro deprimente e apocalittico.

Non che si possano attribuire ad Harrison particolari responsabilità all'inconsequenzialità della sceneggiatura (scritta da Stanley R. Greenberg, nel suo curriculum c'è molta televisione e, a parte questo titolo, c'è poco altro, e persino più pasticciato, relativo al grande schermo) visto che i diritti del romanzo gli sono stati comprati dalla MGM facendogli firmare una clausola capestro che, al fine di non riconoscergli nessuna percentuale sugli incassi, lo ha costretto a non impicciarsi nella realizzazione della pellicola.

Le molte lagnanze di Harrison sul risultato della versione cinematografica (vedasi il suo contributo al libro Omni's screen flights) c'è anche la scelta del titolo originale - di quello italiano fortunatamente non dice niente. Fra l'altro riporta anche la reazione del protagonista (Charlton Heston) quando l'autore gli consegnò una copia del libro originale sul set. L'attore si rivolse al regista (Richard Fleischer) dicendogli qualcosa come "Hey, Dick, perché non usi questo titolo invece di quel merdoso Soylent green?"

C'è da dire che il romanzo, così com'è, non è che si presti facilmente ad una versione su schermo, essendo pensato per avere in primo piano una collezione di eventi tutto sommato poco significativi, mentre quello che interessa davvero dire all'autore viene fatto filtrare sullo sfondo, creando un mondo sovrappopolato all'inverosimile (da cui il titolo) e piagato da una profonda crisi socio-economica.

Non è quindi tanto contestabile la scelta della produzione e dello sceneggiatore di identificare un personaggio principale e farlo diventare il centro dell'azione quanto il massacro della coerenza del racconto, che finisce per diventare un curioso crossover tra generi quali il poliziesco, il catastrofico, il sexploitation, il cospirazionista.

Una cinquantina d'anni nel futuro di quando il film è stato girato, l'umanità è messa molto male. Noi vediamo solo New York ma ci dobbiamo aspettare che tutto il mondo sia nella stessa situazione. Estrema sovrappopolazione e miseria, disoccupazione a tassi altissimi, lo sviluppo sembra essersi fermato agli anni settanta, e quasi tutte le risorse sembrano esaurite, cibo compreso. Il detective Thorn (Heston) si barcamena col suo lavoro, abusando allegramente del suo potere per sbarcare il lunario, in compagnia del suo collega Sol Roth (Edward G. Robinson) che si occupa delle ricerche. Si trova ad indagare sull'omicidio di un riccone (Joseph Cotten) che presenta molti aspetti sospetti, e per questo entra in contatto con la guardia del corpo del morto e, soprattutto, la sua concubina. Il suo capo (Brock Peters) prima gli fa pressioni per risolvere il caso poi (in seguito a pressioni dall'alto) gli dice di chiudere il fascicolo senza fare tante storie. Naturalmente lui si rifiuta e continua il suo sporco lavoro, che lo porterà a scoprire che l'umanità è spacciata (ma, tardo com'è, non lo capisce).

Le parti d'azione sono quasi assopenti, anche a causa alla recitazione di Heston che, come spesso accade, non è che sia particolarmente espressiva. Molto meglio le parti che dovrebbero fare da alleggerimento, e che invece diventano le più coinvolgenti, grazie a Robinson, che era al suo ultimo film, quasi ottantenne, la salute minata da un tumore che se lo sarebbe portato via pochi giorni dopo, ma che era ancora un attore capace di dare molto.

Il lato exploitation del film, oltre alla presenza di leggiadre fanciulle poco vestite (per quanto un film di questo genere potesse permettere), è sottolineato dall'uso di un vocabolario decisamente offensivo. Le concubine sono chiamate "mobilio", Roth viene chiamato "libro", in quanto la sua funzione è quella di leggere documenti per aiutare l'indagine. Uno svilimento delle persone che sono chiamate, e trattate, come oggetti.

Hysteria

Ecco un caso di un film di cui sarebbe stato opportuno cambiare il titolo nella sua versione tradotta in italiano e invece, facendo uno strappo alla regola, ha mantenuto quello originale.

Già, perché, fino ad una cinquantina di anni fa, hysteria e isteria avevano lo stesso significato, ma da quando è diventata conoscenza comune ed accettata che l'isteria era un mito e non una malattia, il destino delle due parole ha subito una diversa evoluzione. Da noi è decaduta, mantenendo un raro uso per definire un comportamento bizzoso (altrui) di cui non ci spieghiamo bene il motivo. Nei paesi anglofoni, invece, ha finito per assumere un significato colloquiale completamente diverso. Dicendo che una persona (o un film, una festa, ...) è hysterical si intende che è estremamente divertente.

In inglese questo titolo ha senso perché veicola bene il fatto che si parli dell'isteria, come veniva intesa sul finire dell'ottocento, e mostri quanto umorismo involontario ci fosse in tutto ciò. Non che sia una commedia hysterical, ma si gioca sul doppio significato che la parola ha assunto. Gioco che nella nostra lingua non esiste.

Nella storia narrata c'è una componente reale e una completamente immaginaria. E' vero che, persino nella civilissima Londra, le condizioni igieniche era deplorevoli, persino negli ospedali. Vero il classismo che divideva la società in caste, vera la discriminazione sessuale, vero che si riteneva che quasi la metà della popolazione femminile (delle classi elevate) fosse affetta da isteria, vero che, per i casi più benigni, la cura consistesse nella somministrazione alle "malate" di lunghi massaggi esterni nella zona pelvica da parte di affermati medici, seguendo una teoria priva di fondamento che si risolveva in realtà nel masturbare la paziente fino ad ottenerne un orgasmo (o più d'uno, a seconda dell'abilità dello stimato professionista e la ricettività del soggetto).

L'inventiva degli sceneggiatori (i coniugi Dyer) ha avuto invece briglia sciolta nel costruire il personaggio di Mortimer Granville (Hugh Dancy), che realmente era un medico, e davvero finì per inventare l'attrezzo che ai giorni nostri è noto come vibratore, e tutti i personaggi al contorno.

L'isteria ha in realtà un ruolo abbastanza secondario nella narrazione, e seguendo un taglio molto leggero. Chi fosse interessato all'argomento, visto da una angolazione più drammatica, potrebbe vedere A dangerous method di David Cronenberg, ambientato un paio di decenni dopo, prevalentemente in Mitteleuropa, seguendo la nascita della psicoanalisi.

Nel film, il dottor Granville è, o vorrebbe essere, un modernizzatore della pratica medica. Purtroppo il resto del mondo non la pensa come lui e, se non fosse per il suo buon amico e mentore Edmund St.John-Smythe (un Rupert Everett molto a suo agio in questi panni), sarebbe veramente messo male. Scacciato da svariati ospedali in cui i suoi metodi troppo moderni risultano inaccettabili, finisce per trovare lavoro dal dottor Dalrymple (Jonathan Pryce), che ha dedicato il suo studio alla cura dall'isteria. Attività faticosa ma redditizia. Dalrymple ha due figlie, Emily (Felicity Jones) che segue la retta via tracciata dal padre, dedicandosi allo studio della musica e della frenologia, e Charlotte (Maggie Gyllenhaal) che al contrario ha uno spirito rivoluzionario (per i tempi), è una suffragette, e cerca di alleviare le disastrose condizioni di vita dei meno abbienti. Lo schema della rom-com lavora con l'autopilota da qui in poi, ovviamente Granville si innamora di Emily, ma scoprirà che ha Charlotte nel suo destino.

Direi che Hugh Dancy ha cercato di recitare alla Hugh Grant, e mi è sembrato che Maggie Gyllenhaal mettesse nella sua recitazione quanta più Emma Thompson fosse possibile. Ed è bizzarro, considerando che il vero dottor Granville, all'epoca dei fatti narrati, era più vicino all'età di Grant che di Dancy (e quindi più realisticamente associabile ad una donna dell'età della Thompson che della Gyllenhaal). Comunque brava la Gyllenhaal, un po' meno Dancy.

Lo spettatore che si facesse quattro risate sui tempi passati, potrebbe meditare su alcuni fatti interessanti. Ad esempio che il film, pensato negli USA, ha avuto una gestazione lunga un decennio. Sono dovuti venire in Europa per riuscire a trovare i soldi. Oppure che in alcuni Stati degli USA il vibratore è (ad oggi) un attrezzo che non può essere legalmente comprato o detenuto.

La bussola d'oro

Notevole l'universo fantastico che viene narrato, basato sul romanzo per ragazzi omonimo di Philip Pullman, primo episodio della trilogia Queste oscure materie. Belli i costumi, le scenografie, gli effetti speciali usati per descrivere un mondo alternativo al nostro, simile al nostro ottocento ma con varianti non trascurabili, a partire dagli orsi bianchi corazzati e parlanti che popolano il Nord della loro Europa. Piacevole la colonna sonora, affidata a Alexandre Desplat, che può contare anche su una canzone appositamente scritta e interpretata da Kate Bush, che apre i titoli di coda.

Si narrano le avventure di Lyra (Dakota Blue Richards), una nobile orfanella (ma forse no) affidata alle cure di una specie di università inglese di gran prestigio mentre quello che lei chiama zio, Lord Asriel (Daniel Craig), gira per il mondo alla ricerca di prove dell'esistenza di una curiosa polvere che sembra minare il dettato di una Chiesa molto dogmatica, il Magisterium, che domina sulla società.

Lyra sembrerebbe essere al centro di una misteriosa profezia, motivo per cui le viene assegnata la bussola del titolo, che permette a pochi eletti (tra cui si scopre essere la protagonista) di avere risposte corrette ad apparentemente ogni tipo di domanda. O almeno quelle che si riescono a porre al macchinario che è dotato di una interfaccia ben poco amichevole.

Questo, e il suo legame con Lord Asriel, la rendono invisa al Magisterium, che cerca, tramite Marisa Coulter (Nicole Kidman), di tenerla sotto controllo. Ma le cose sono molto più complicate di come le sto dipingendo, anche perché la nostra percezione della relazione tra Coulter, Asriel e Lyra cambia nel corso dello svolgimento dell'azione.

Il problema fondamentale è che la produzione ha preso il lavoro di Chris Weitz (sceneggiatura e regia), che effettivamente era lunghetto (sulle tre ore), e ne ha tagliato via un terzo, senza andare molto per il sottile, rimontando il materiale, introducendo (pare) anche nuove sequenze, come quella in cui appare Christopher Lee, che non sembra avere alcun senso se non quello di creare un legame con Il signore degli anelli, e tagliando brutalmente il finale. Tutto questo lavorio non è che abbia giovato alla fluidità del racconto.

Nonostante questo harakiri in post-produzione, il film è andato abbastanza bene a livello planetario, e non si capirebbe dunque come mai non gli sia stato dato un seguito, se non si facesse caso al fatto che negli USA l'incasso sia stato drammaticamente inferiore alle attese.

Sembra che la spiegazione stia nel fatto che la storia non piacesse molto, anzi non piacesse per niente, a certi ambienti cristiano-conservatori che sono molto forti oltre oceano. Il lavoro di rimontaggio avrebbe dunque avuto lo scopo di annacquare la critica verso una religione puramente dogmatica contrapposta ad un pensiero aperto alla critica. L'avvicinamento a Il signore degli anelli era stato forse pensato per spostare maggiormente il racconto nel territorio della fantasy pura. Non è però bastato a tranquillizzare i critici, e le pressioni sono continuate anche in fase di distribuzione della pellicola, contribuendo allo scarso risultato ai botteghini americani.

Spaced - Stagione 2

La prima stagione ha fatto da rodaggio, e direi che ha pure convinto il munifico produttore, la rete televisiva inglese Channel Four, a sganciare qualcosa in più.

Trattandosi di sit-com, poco cambia nel tema generale della serie, anche perché il team creativo è sempre lo stesso, Edgar Wright alla regia, Simon Pegg e Jessica Stevenson (ora Hynes) alla sceneggiatura. Il fuoco è sui due protagonisti, Tim (Pegg) e Daisy (Stevenson), una coppia di amici quasi trentenni che vivono a Londra dove cercano, con scarsi risultati, di crearsi una carriera creativa. Cresce lo spazio dedicato a Mike (Nick Frost), miglior amico di Tim.

L'ambientazione è molto nerd, con fumetti, videogiochi, combattimenti fra robot, riferimenti a romanzi/film/telefim di genere fantasy/horror che la fanno da padrone.

Il cavaliere oscuro - Il ritorno

Il titolo originale non parla del ritorno ma dell'ascesa (The dark knight rises) che Bruce Wayne (Christian Bale) compirà nel corso di questo terzo, e quasi certamente ultimo, episodio delle avventure di Batman secondo Christopher Nolan (col supporto del fratello Jonathan alla sceneggiatura e di David S. Goyer alla scrittura della storia originale).

Cosa si intenda per ascesa è lasciato allo spettatore, sottigliezza che la nostra distribuzione ha trovato eccessiva, e ha dunque semplificato in ritorno, alludendo al fatto che Wayne, per quanto non voglia, sarà costretto a vestire nuovamente i panni di Batman, a causa di una ennesima terribile minaccia pendente su Gotham e sui suoi cittadini.

Come ben si addice ad un protagonista dalla doppia personalità, l'intero racconto è ambiguo e difficilmente catalogabile. L'impostazione è di una evidente matrice conservatrice. Per quanto sia brutta la situazione socio-economica di Gotham, sembra che nessuna alternativa sia percorribile. Le uniche possibilità sembrano essere quelle del filantropismo di miliardari illuminati (il Wayne visibile al pubblico) o dell'abuso di metodi polizieschi (da parte di Batman, quando disponibile, o grazie a leggi che riducono i diritti civili). Se qualcuno offre una alternativa, questa dimostra rapidamente la sua inumanità, e nasconde inoltre un desiderio di distruzione e autodistruzione che la rende evidentemente assurda. D'altro canto, nemmeno un supereroe riesce ad accettare questo modo di vivere, e finisce per gettare la spugna.

Abbiamo dunque un nuovo cattivo, tale Bane (Tom Hardy costretto a recitare per quasi tutto il tempo con una specie di museruola), che rispolvera il progetto di Ra's Al Ghul (Liam Neeson, che avrà modo di apparire in un incubo a Wayne) di distruggere Gotham, aggiungendo la crudeltà di costringere Wayne a osservare impotente al suo rapido degradarsi in sua assenza. Il superpoliziotto Gordon (Gary Oldman) verrà messo in condizione di non nuocere per gran parte del tempo, rimpiazzato da un giovane investigatore (Joseph Gordon-Levitt) che potrebbe avere un importante futuro nella saga (se questa continuasse). Lo scienziato Fox (Morgan Freeman) fornirà al suo capo un nuovo mirabolante mezzo di trasporto mentre il maggiordomo Alfred (Michael Caine) si incaricherà di cercare di mettergli in movimento gli ingranaggi del cervello. La partecipazione femminile include CatWoman (Anne Hathaway) e una poco definita imprenditrice (Marion Cotillard) apparentemente molto interessata alla green economy. Simpatico il ritorno del Dottor Crane (Cillian Murphy) che abbandona qui i panni dello psichiatra pazzo (noto come Spaventapasseri) per vestire quelli di un giudice alla Pinocchio che condanna tutti quanti alla pena di morte.

Anche la colonna sonora, ora affidata al solo Hans Zimmer, risulta meno mirata a colpire lo stomaco, anche se mi è parsa un po' troppo invadente.

Il cavaliere oscuro

Evidentemente rinfrancata dai risultati di pubblico del primo episodio, la produzione ha allentato il controllo, lasciando che la sceneggiatura nelle mani dei fratelli Nolan, Jonathan e Christopher, con il secondo che accentua il suo tocco personale alla regia. Il risultato mi è sembrato più solido, ma anche più freddo, colpa anche della maggior complicazione della trama (sembrava impossibile, eh?) che, a volerla ridurre all'osso è:

Bruce Wayne (Christian Bale) si rende conto che l'idea di un Batman che superoministicamente si prenda la responsabilità di distinguere il bene dal male era sciocca, e pensa di mandare il suo alter ego in pensione lasciando il campo ad un cavaliere bianco, il responsabile ufficiale (ed eletto) per la giustizia di Gotham Harvey Dent (Aaron Eckhart) perché faccia il suo lavoro. Non che la cosa gli riesca facile, anche perché Rachel (ruolo che è passato a Maggie Gyllenhaal, guadagnando in luminosità), di cui era mezzo innamorato ma con problemi di ruolo mostra di preferire il chiaro allo scuro.

Succede però che uno svitato che si fa chiamare Joker (Heath Ledger) mette in subbuglio società civile e delinquenza organizzata, ora capitanata da tal Maroni (Eric Roberts), rendendo tutto più complicato. Al punto che Batman dovrà passare, almeno ufficialmente, dalla parte dei cattivi per salvare il risultato finale.

I principali ruoli a supporto restano in mano a Michael Caine (Alfred il maggiordomo), Gary Oldman (Gordon il poliziotto), e Morgan Freeman (l'inventore). Appare brevemente anche Cillian Murphy sempre nel ruolo dello strizza trasformatosi in delinquente (e in Spaventapasseri).

Batman begins

A me i supereroi non mi hanno mai preso, Batman incluso. Con il passare degli anni però, si sa, si finisce per ammorbidirsi e dunque, pur non essendo andato a vedere l'ultimo episodio della trilogia al cinema, ho pensato di regalarmi per Natale il cofanetto con la serie completa. Lo scopo è rinfrescarsi la memoria sulle puntate già viste prima di affrontare il gran finale.

Come da titolo, si narra l'inizio della storia. Il giovane Bruce Wayne, figlio di un miliardario dal cuore d'oro, portato a vedere dai genitori il Mefistofele di Arrigo Boito, e essendosi già spaventato per dei pipistrelli, non riesce a reggere alla diabolica visione sul palco, causa quindi l'uscita anticipata della famigliola dal teatro, e si sente perciò responsabile quando un tossico, a seguito di uno sconclusionato tentativo di rapina, finisce per trasformarlo in un battibaleno in un orfano.

Il trauma lo spinge ad un complicato percorso formativo che lo porta in Oriente, dove un personaggio ambiguo, tale Duncard (Liam Neeson), lo introduce alla corte di Ra's Al Ghul (Ken Watanabe, apparentemente). Lì in giovane Wayne (Christian Bale) impara le tecniche di combattimento che gli torneranno utili nella sua seguente carriera superoministica.

Tornato quindi a Gotham City (una specie di New York), viene aiutato dal fido maggiordomo Alfred (Michael Caine) a mettere in piedi lo spettacolo della sua doppia identità, col supporto del dottor Fox (Morgan Freeman) che gli mette a disposizione i gadget prodotti dall'azienda di famiglia. La quale è sotto il controllo del perfido amministratore delegato (Rutger Hauer) che vorrebbe distruggere l'eredità di Wayne senior facendone una ditta qualunque.

Ci sono un altro paio di trame, quella legale-romantica, che fa riferimento a Rachel (Katie Holmes), amica di infanzia e forse qualcosa di più, che è ora pubblico ministero, uno dei pochi non corrotti dal malaffare locale, e quella poliziottesca, dove spiccano il poliziotto buono (Gary Oldman), il capo della cosa nostra locale, tal Carmine Falcone (Tom Wilkinson), e un ambiguo strizzacervelli (Cillian Murphy).

La trama è decisamente da fumetto, ma la regia (e co-sceneggiatura) di Christopher Nolan riesce a limitare i danni, grazie anche all'altissimo livello del cast, che riesce a non apparire troppo ridicolo nonostante le circostanze, e anche a ritagliarsi lo spazio per porgere con il dovuto modo alcune battute chiave. Poco convincenti Hauer e Wilkinson, non per causa loro, direi, ma per i personaggi che si sono trovati ad interpretare, quello di Hauer ha pochissimo spessore e, almeno per un italiano, Wilkinson nei panni di un italo-americano non è credibile.

La colonna sonora è della strana coppia Hans Zimmer - James Newton Howard (strana nel senso che sono entrambi stimatissimi compositori, perché mai affiancarli?), buona fattura ma appiattita dalle solite (in film di questo tipo) percussioni molto ripetitive che sembrano abbiano il solo scopo si assordare la platea.

Boy meets girl

Tra teatro dell'assurdo, surrealismo, esistenzialismo, sperimentalismo, impressionismo, e semplice desiderio di infastidire lo spettatore, il primo lungometraggio di Leos Carax racconta in un bel bianco e nero e con notevole maestria tecnica la storia d'amore tra Alex (Denis Lavant) e Mirelle (Mireille Perrier) ostacolata da una serie di avvenimenti poco chiari, una valanga di parole, e lo scarso interesse della protagonista per lo stare al mondo.

Colonna sonora quasi assente, che fa risaltare i pochi minuti di musica d'ambiente per piano solo e un paio di brani di David Bowie e dei Dead Kennedy.