Il momento storico narrato dal film è interessante. Siamo nel 1988 e la sanguinaria dittatura cilena instaurata quattordici anni prima e che ha nel suo líder máximo il generale Augusto José Ramón Pinochet Ugarte sembra imbattibile. Ha il controllo assoluto dei media, esercita con un controllo asfissiante sulla società civile, e può anche vantare un miglioramento complessivo dello stato dell'economia, ottenuto anche grazie ad un misto di consenso e rassegnazione tra la popolazione.
Il guaio (per lui) è che nel frattempo la guerra fredda è finita. L'Unione Sovietica ha finito i soldi per combatterla e, di conseguenza, per gli Stati Uniti non ha più senso foraggiare un governo imbarazzante come quello cileno. Viene dunque chiesto di verificare con un plebiscito se davvero, come sostiene Pinochet, il Cile sia con lui.
L'idea di Pablo Larraín (basata su una pièce teatrale di Antonio Skármeta, trasformata piuttosto radicalmente in sceneggiatura da Pedro Peirano) è quella di focalizzarsi su un singolo aspetto di quello che accadde in quei giorni, la realizzazione e gestione del quarto d'ora televisivo concesso all'opposizione, per un paio di settimane prima delle votazioni, per illustrare le ragioni del no a Pinochet. E di narrarla come se fosse un documentario girato in quei giorni.
Ho alcune perplessità sia sull'impostazione sia sulla riuscita del film. Il fatto che venga mescolato materiale di repertorio a finzione cinematografica, e che il tutto venga amalgamato così bene, utilizzando macchine da presa d'epoca, e probabilmente degradando il risultato per simulare l'invecchiamento della pellicola, finisce per smussare i confini tra il documento storico e la pura fantasia della coppia Peirano-Larraín. In particolare il protagonista, il giovane pubblicitario che sembra così reale grazie all'interpretazione di Gael García Bernal, non è mai esistito.
Inoltre ho trovato molto noiosa tutta la prima parte del film, anche per la scelta di simulare una ripresa quasi amatoriale. I brutti colori, la sgranatura dell'immagine, la cattiva bilanciatura della luminosità, spesso esasperata dalla presenza nell'inquadratura del sole o di altre fonti luminose, come se chi girasse non avesse il tempo di badare a questi dettagli, mi hanno reso molto faticosa la visione.
Non mi è chiaro poi cosa si voglia dire. Mi pare che si voglia sostenere che la vittoria del no sia stata principalmente figlia di quel quarto d'ora televisivo, il che mi sembra anti-storico, oltre che piuttosto offensivo nei confronti dei cileni.
il NO ha vinto per molti altri motivi
RispondiEliminama ANCHE per quella campagna "pubblicitaria" deideologizzata, in cui si parlava poco di economia ma molto di GIOIA (che è la traduzione esatta di ALEGRIA)
la compagna di mio figlio è cilena e mi ha confermato quanto fosse noiosa la vita prima del 1988: in tv comparivano facce tetre che parlavano continuamente dei guai del comunismo e dei vantaggi del liberismo... e poi quotidiane parate militari e vecchi film di guerra
E se il film avesse mostrato la contrapposizione tra quanto è tetra una dittatura e quanto più divertente (o almeno meno monotona) è una democrazia forse il risultato mi sarebbe stato meno indigesto. Anche perché una impostazione di questo genere avrebbe richiesto una regia più sbarazzina.
EliminaVedendo il film risulta (o almeno questo è il messaggio che mi è arrivato ) che la vittoria del sì sia stata dovuta (quasi) esclusivamente al quarto d'ora televisivo, presentato come figlio (quasi) esclusivo del pubblicitario. Sapere che García Bernal interpreta un personaggio che in realtà non esiste aiuta a capire che l'impostazione data non è corretta. Ma credo che questo fatto sia sfuggito alla gran maggioranza degli spettatori.
A naso, mi vien da pensare che la trasmissione dell'opposizione abbia puntato su un messaggio apolitico perché sarebbe stato impossibile sintetizzare in così poco tempo le posizioni di uno schieramento così ampio ed eterogeneo.