Intrigo internazionale

Più intrigante il titolo originale, North by Northwest, che non si capisce bene cosa voglia dire, ma segue l'andamento geografico del film, che inizia a New York, continua a Chicago, e finisce sul monte Rushmore, e si aggancia pure al mezzo di trasporto usato per la seconda tratta, un aereo della Northwest, mentre la prima viene compiuta su un treno di lusso.

La sceneggiatura è improbabile, e narra le avventure di un pubblicitario newyorkese (Cary Grant) che viene scambiato per un inesistente agente segreto sulle tracce di un trafficante di segreti militari (James Mason). Quest'ultimo cerca di eliminarlo ma senza successo, causando al pover uomo una notevole serie di traversie. Vengono abilmente mescolati tensione, umorismo, romanticismo, e anche una notevole carica sessuale, anche se spesso abilmente dissimulata. Gli altri ruoli importanti sono per Martin Landau, braccio destro di Mason; Eva Marie Saint, contesa tra i due protagonisti; Jessie Royce Landis, madre di Grant (dopo esserne stata suocera in Caccia al ladro).

Da notare i titoli, animati e di sbieco, come se apparissero sul palazzo dell'ONU, un po' come in Caccia al ladro apparivano in una vetrina di una agenzia viaggi, ma (per l'epoca) molto più sorprendenti. Appena finiti i quali c'è l'apparizione speciale di Alfred Hitchcock che cerca di prendere un autobus ma la porta gli si chiude in faccia. Colonna sonora indimenticabile di Bernard Herrmann.

La parte girata alla Nazioni Unite è notevole per il fatto che sia tutta finta. Il primo film che ha avuto l'autorizzazione ad essere girato nel Palazzo di Vetro è stato L'interprete di Pollack, mezzo secolo dopo. Non sarebbe stato possibile nemmeno girare le scene di raccordo all'esterno.

Numerose le scene memorabili, Grant che scappa ubriaco su una Mercedes cabriolet, che viene inseguito e mitragliato da un aereoplano, che si cala tra le facce dei presidenti eccetera.

Contraband

Fa venire voglia di vedersi l'originale, Reykjavík-Rotterdam, per capire come mai abbiano deciso di rifarlo in inglese. Sembra che l'originale islandese avesse un tocco umoristico, qui totalmente mancante, che lo potrebbe aver reso più digeribile.

Baltasar Kormákur, già protagonista e produttore dell'originale, dirige e partecipa alla produzione della versione americana, con scarsi risultati (se non economici). Oltre a spostare l'ambientazione a New Orleans-Panama, credo che abbia intenzionalmente omogeneizzato lo stile al classico prodotto americano, togliendo però quello che era lo specifico interesse della storia. O magari era già scarsa per conto suo, ma visto la carenza di idee, si sono trovati i fondi per girarla come film americano.

Il cast non è male, Mark Wahlberg protagonista (e anche tra i produttori), Kate Beckinsale nella parte della moglie, Ben Foster l'amico di famiglia, Giovanni Ribisi il cattivo. Particina per Diego Luna, delinquente panamense completamente fuori di testa.

John (Wahlberg) era un contrabbandiere ma ha cambiato vita, installa antifurti, ha una bella moglie (Beckinsale, parte insipida ma non che le capiti molto di meglio di recente, a parte Stanno tutti bene), un paio di figli. Il problema è il fratello della moglie (Caleb Landry Jones) che combina un guaio dietro l'altro, ogni volta che appare sullo schermo c'è da temere per l'ennesimo disastro in arrivo. Un perfido delinquente (Ribisi) lo vuole fare fuori, e sarebbe la soluzione migliore, ma John decide di fare un viaggetto a Panama, contrabbandare qualche milione di dollari falsi, in modo da ripagare il debito del parente acquisito. Per far ciò si appoggia all'amico di famiglia (Foster), che non è uno stinco di santo. Il lavoretto panamense si trasforma in un impiccio colossale, sbrigativamente raccontato, che finisce per includere anche una tela di Pollock, mentre anche a casa le cose diventano complicate.

La vicenda principale è già vista, un ex-qualcosa che torna a fare quello che sa fare bene un'ultima volta, e non è raccontata in modo attraente. Ci sarebbe dell'interesse nelle molte vicende secondarie, che però sono solo appena accennate.

Caccia al ladro

Su IMDB c'è un'abbozzo di pagina dedicata al remake che è previsto per il 2014. Stolti. Come spesso accade nei film di Alfred Hitchcock la storia originale conta poco, l'importante è tutto quello che ci gira attorno. Dunque la sceneggiatura originale, per quanto rimaneggiata, affidata ad un regista che non abbia il tocco felpato del Maestro, rischia di generare un inutile mostriciattolo. Meglio piuttosto fare come Blake Edwards con La pantera rosa colpisce ancora, che cambia completamente registro, e ne fa una parodia adattata ai personaggi della saga dell'ispettore Closeau. Fra l'altro, mi sono accorto della forte somiglianza tra le due sceneggiature solo durante questa visione. Meglio sarebbe vedersi l'originale prima della copia, per apprezzarla meglio.

La storia originale è un po' bislacca. Un americano si è trasferito in Francia prima della guerra e lì si è messo ad esercitare come ladro di lusso con il soprannome di Le chat. Messo in galera, fugge, si unisce alla resistenza, e ottiene il perdono dalla repubblica restaurata per le malefatte pregresse. Passa qualche anno, lui si è stabilito sulla Costa Azzurra, e qualcuno riprende a rubare gioiellame seguendo il suo stile. La polizia sospetta di lui, lui decide che l'unico modo di uscirne è cogliere sul fatto il copycat (mai il termine risultò più appropriato) è di arrivare prima di lui al prossimo furto. Per questo frequenta una ricca americana e relativa figlia, con quanto ne consegue.

I ruoli principali sono affidati a Cary Grant, Grace Kelly e Jessie Royce Landis, madre della seconda, che sarà poi improbabile madre del primo in Intrigo internazionale. Improbabile per la minima differenza di età, ma i due sono così affiatati che la si lascia passare volentieri. Personalmente non sono convintissimo dalla Kelly in questo film, molto meglio in La finestra sul cortile, anche se qui ha alcune scene (il bacio a sorpresa sopra a tutte) veramente memorabili.

Film che tecnicamente risulta datato, ad esempio la lunga ripresa dall'elicottero, che ai tempi doveva risultare mozzafiato, al giorno d'oggi sembra normale amministrazione. Colonna sonora in linea con le aspettative, curata da Lyn Murray.

Wall Street: il denaro non dorme mai

Due i punti che mi sono sembrati deboli, il finale inaspettatamente positivo, che suppone un ribaltamento caratteriale dei personaggi principali in contrasto con lo sviluppo delle due ore precedenti, e la bassa espressività del protagonista (Shia LaBeouf). Immagino che entrambi siano lo scotto che Oliver Stone deve pagare alla produzione in cambio della possibilità di dirigere un film. Una storia che si può dimostrare abbia un seguito, un happy ending, un attore che possa attirare anche una platea giovanile. I produttori così pensano di ridurre il rischio, e l'impresa può partire.

Rispetto al primo episodio mi è sembrato più disilluso, come se Stone si sia arreso al fatto che l'ingordigia finanziaria abbia coinvolto (quasi) tutti e ci sia ormai poco o nulla da fare. Vedi anche Margin call che giunge praticamente alle stesse conclusioni.

L'attacco della storia è presto detta, Gordon Gekko (Michael Douglas) esce di galera (scena che mi pare una citazione dai Blues Brothers, con Gekko che ritira i suoi effetti personali, il tocco umoristico qui è che gli consegnano il cellulare con cui era entrato) e non trova nessuno ad accoglierlo. L'unica persona con cui ha un qualche legame è la figlia (Carey Mulligan) la quale però ha deciso che preferisce fare a meno di un padre il cui unico pensiero siano i soldi. Però si è trovato un bietolone di fidanzato (LaBeouf) che, guarda caso, è anche lui un trader, lavora per un tale (Frank Langella) vecchio stampo che non capisce più che diamine stia succedendo nei mercati finanziari, un suo nemico (Josh Brolin) ne approfitta per farlo fuori (economicamente), più avanti scopriremo che costui è anche colui che ha causato gran parte della detenzione di Gekko, visto che Charlie Sheen (cameo per lui, stesso ruolo, e vediamo che anche lui è diventato uno squaletto) con la sua denuncia gli ha causato solo un annetto di detenzione.

Abbiamo dunque Gekko che si vuole vendicare, e magari rientrare in contatto con la figlia, il genero che si vuole vendicare pure lui, i due sono perciò magneticamente attratti l'uno dall'altro, ma da incomodo fa la figlia, che non ne vuol saper nulla di finanza creativa. Lo svolgimento implica un gran giro di soldi e una apparizione speciale di un paio di altre capitali finanziarie, Zurigo e Londra.

Cast notevole (tranne LeBeouf) a cui vanno aggiunti almeno anche Austin Pendleton, l'avvocato balbuziente del cugino Vinnie che qui è uno scienziato al lavoro su una fonte di energia alternativa su cui LeBeouf punta molto (non è chiaro se perché abbia nonostante tutto un interesse per la realtà o se lo veda come un investimento nella prossima bolla speculativa); Eli Wallach, capo di Brolin (da notare che la suoneria di LeBeouf è il famoso refrain di Morricone da Il buono, il brutto e il cattivo); Oliver Stone che, come spesso accade, si tiene un particina per sé, e Susan Sarandon, madre del protagonista, infermiera che si è riconvertita ad agente immobiliare per sfruttare quella bolla, perde una montagna di soldi e tornerà a fare l'infermiera - in un certo senso si può pensare che sia forse sia l'unico personaggio che (forse) si salva.

Colonna sonora piacevole, dove la parte del leone la fanno David Byrne e Brian Eno. Fra l'altro si sente anche This must be the place, che genera un rimando obbligatorio al film di Sorrentino.

Nei panni di una bionda

Finale di carriera sottotono per Blake Edwards, che scrive e dirige una commedia che parte forte, ha ottime potenzialità, ma poi si perde per strada. Produzione che a tratti sembra televisiva, colonna sonora terribile, cast non di primo piano.

Un pubblicitario newyorkese tratta le donne così male che nessuna lo sopporta, e alla fine, che poi è l'inizio del film, tre sue ex si coalizzano per farlo fuori (Le streghe di Eastwick aleggiano sulla scena). Ma tutto sommato non è una cattiva persona, e così da lassù decidono di dargli una seconda possibilità, se riuscirà a trovare sulla Terra almeno una donna che lo ami, la sua anima sarà salva, altrimenti gli toccherà passare un'eternità all'inferno. Inoltre, il diavolo ci mette la coda e fa sì che ci sia una complicazione. Gli viene restituita la vita, ma in sembianze femminili (Ellen Barkin).

Ricorda Il paradiso può attendere di Warren Beatty, ma qui il cambiamento di sesso del protagonista apre una serie di possibilità comiche notevoli, che sfortunatamente non sono percorse fino in fondo. Penso che il problema possa essere che la produzione abbia premuto per un prodotto per tutti, spingendo Edwards a mettere il silenziatore alla storia.

Anche rispetto a Victor Victoria, che a suo modo è molto simile, si nota come molte situazioni sessualmente spinose siano evitate con scuse poco convincenti. Possibile, ad esempio, che un seduttore incallito non riesca a far sesso con una donna solo per il piccolo particolare di avere cambiato sembiante?

Particina per Catherine Keener, segretaria del protagonista, che quando scopre che lui se ne è andato per sempre scoppia a piangere, ma poi spiega che sono lacrime di gioia.

A single man

Visione sollecitata dalla lettura di La Tosca non è per tutti. Regia un po' troppo stilosa di Tom Ford, che è al suo primo film, e che ho poi scoperto essere effettivamente uno stilista, prima per Gucci e ore per conto proprio. Strapieno di soldi, ha trovato la voglia e il modo di dedicarsi alla sua vera passione, che sarebbe poi il cinema.

Primi anni sessanta, si segue l'ultimo giorno di vita di un inglese (Colin Firth) trapiantato in California ad insegnare in una locale università. Depresso per la morte del suo compagno, convinto che non vi sia per lui più motivo di vivere, pianifica meticolosamente il suo suicidio - la scena in cui fa le prove generali è un buon esempio di black humor - anche se poi il caso, come spesso accade, finisce per metterci il becco e il finale risulterà in un certo modo differente dalle sue aspettative.

Evento principale della giornata, prima del botto finale, avrebbe dovuto essere l'ultimo incontro con una vecchia amica (Julianne Moore), lontana amante, che si è rifugiata nell'alcolismo. Intervengono invece alcuni incontri che renderanno l'azione più vivace.

Simpatica l'idea di modulare i colori della pellicola in base allo stato d'animo del protagonista, bella la colonna sonora (Abel Korzeniowski e Shigeru Umebayashi) che coniuga atmosfere d'epoca ad una struttura di fondo minimalista. Mi sembrava di aver colto come una specie di aria di famiglia rispetto ai film di Alfred Hitchcock, e dunque non sono rimasto sorpreso quando ho sbirciato sui titoli dei brani di trovarci anche un pezzo di Bernard Herrmann.

Sex & Drugs & Rock & Roll

Punto forte del film è Andy Serkis che interpreta e canta con gran gusto nella parte dell'eccessivo e molto espressivo Ian Dury. La sceneggiatura (di Paul Viragh) non mi ha completamente convinto, avendo bellamente riscritto parti della vita del protagonista, facendo scomparire la madre e cancellando tutto il periodo di formazione scolastica del giovane Ian, cosa che rende inspiegabile la ricchezza linguistica dei testi delle sue canzoni. Pure la regia (Mat Whitecross) mi pare altalenante, scarsa quando vuole proporre una impostazione stilistica, ottima quando si limita a seguire quello che succede in scena. Dopotutto, a quanto vedo, le cose migliori di Whitecross sono nel documentaristico. Così finiscono per spiccare le scene con Serkis/Dury al lavoro, sul palco, o durante le prove.

Mi è dunque parso meno riuscito di Control, anche se alcune scene (la nascita della canzone omonima, Spasticus Autisticus cantata sul palco) sono memorabili. Da notare la presenza nel cast di Olivia Williams, prima moglie, e Toby Jones, terribile assistente dell'istituto per poliomielitici che ha segnato l'infanzia di Dury.

In teoria sarebbe potuto venir fuori un film molto interessante, ma così come è stato sviluppato direi che dovrebbe risultare appetibile in primo luogo a chi interessi vedere una rievocazione fantasiosa della vita e delle opere del protagonista.

I magnifici sette

L'idea era quella di passare la serata a giocare a carte, ma il televisore lasciato acceso durante la cena "per il telegiornale", ma senza che in realtà nessuno se lo filasse, a un certo punto ha iniziato a sparare sul video i titoli di testa di un film ... Yul Brynner, Steve McQueen ... e poi si è accennato al brano chiave della colonna sonora (che detto per inciso, levato quel pezzo che ormai è diventato mitologico, è davvero scarsotta). A monte la partita, ci siamo guardati il western.

Dopo mezzo secolo i punti deboli si vedono eccome. John Sturges è stato scelto per la regia a ragion veduta (anche la Sfida all'O.K. corral è cosa sua, tanto per fare un altro titolo) ma questo a suo stare a proprio agio nel genere finisce per far sì che spesso si navighi per luoghi comuni. È l'altra faccia della medaglia, e lo notiamo in prospettiva. Oggi i contadini messicani rappresentati come li vediamo nel film fanno pensare più ad uno spoof che a un film serio. A me la scena iniziale, ad esempio, ha fatto pensare a I tre amigos! di John Landis.

Nonostante tutto il film regge molto bene, grazie sia alla sceneggiatura originale di Akira Kurosawa (I sette samurai) sia al cast strepitoso. In particolare il duo Brynner-McQueen fa faville, e reggerebbero la baracca da soli. Figuriamoci il risultato se a far da comprimari ci mettiamo Charles Bronson, Eli Wallach, Robert Vaughn e James Coburn.

Credo che la storia la conoscano anche i sassi, un paesino è angariato da una terribile banda di predoni, capitanata da Wallach, alcuni paesani trovano il coraggio di ribellarsi, e scendono in città (relativamente parlando) per cercare armi. Invece delle armi trovano un pistolero (Brynner) che, non sa nemmeno bene lui perché, si prende a cuore la loro causa, mette assieme una mezza dozzina di persone dal grilletto facile, ognuno con una propria storia, e partono per questa avventura. Nessuno è propriamente convinto di quello che sta facendo, Vaughn si aggiunge alla comitiva per scappare da una non meglio precisata vendetta, Brad Dexter pensa che ci sia sotto un qualche affare succoso che il suo amico Brynner gli nasconde, troveranno con il tempo il senso delle loro azioni. Curioso notare che con un cast simile, il ruolo principale sia stato assegnato al quasi sconosciuto Horst Buchholz, che si è beccato la parte che nell'originale era di Toshiro Mifune, mentre l'altro ruolo principale (qui Brynner) era di Takashi Shimura. Incomprensione della produzione americana rispetto all'idea di fondo di Kurosawa? O intenzionale spostamento dell'attenzione su una tematica più in linea con il western mainstream?

In ogni caso, volenti o nolenti, viene mantenuta la stessa struttura, e i pistoleri, apparentemente dei vincenti, si rivelano essere dei poveri disgraziati senza futuro.

The way back

Sono piene le cineteche di film che non riescono a sviluppare appieno l'idea originale. Partono da uno spunto interessante, ma poi si perdono per strada. Questo mi pare il caso opposto.

Alla base della sceneggiatura c'è un romanzo che narra l'avventura di un militare polacco catturato dai sovietici, spedito in un gulag siberiano, da cui fugge a capo di una eterogenea compagnia di disperati che, dopo una incredibile marcia da seimila chilometri e più, porterà i sopravvissuti in India.

Il problema della storia originale è che è falsa. Il romanzo ha avuto un buon successo, almeno nel mondo anglofono, ma anni dopo la sua pubblicazione sono emerse documentazioni che sostanzialmente smentiscono i fatti.

Processata e trasformata dalla sceneggiatura e regia di Peter Weir, la vicenda narrata assume un interesse completamente diverso da quello originale, di cui però mantiene inalterata la struttura. Insomma, avendo visto il film senza sapere cosa c'era dietro, sono rimasto perplesso. Non è credibile che una mezza dozzina di uomini, stremati da terribili condizioni di vita, riescano a mettere in atto un tale piano di fuga. Non si spiega come abbiano potuto sopravvivere al freddo estremo, poi al deserto, e infine all'Himalaya.

Dopo la visione, scoperta la falsità della storia raccontata, la prospettiva di lettura mi si è rivoluzionata in un batter d'occhio. La purezza del protagonista (Jim Sturgess), che mi suonava molto falsa, trova una sua spiegazione, e un personaggio apparentemente secondario, la giovane polacca che il gruppo incontra lungo il percorso (Saoirse Ronan), diventa fondamentale. Infatti inizialmente lei dice un sacco di menzogne, con lo scopo di risultare più "simpatica" al gruppo. E in effetti il suo stratagemma funziona, solo che non supera la diffidenza dei più accorti. Solo quando cederà e racconterà la sua vera storia diventerà davvero parte della comitiva. Allo stesso modo, ho apprezzato al meglio il film solo quando sono riuscito a scoprire quale sia la verità che voleva raccontare.

Prima di ribaltare il punto di vista, avevo apprezzato la pellicola solo dal punto di vista tecnico, grazie anche alla bella fotografia, che a tratti verrebbe da definire da National Geographic (che curiosamente è tra i produttori), e alla colonna sonora di Burkhard Dallwitz, in bilico tra minimalismo e accenni etnici.

Impressionante il cast, dove quasi ogni personaggio ha una storia da raccontare, e che varrebbe la pena di ascoltare. Oltre ai succitati Sturgess e Ronan, spiccano Mark Strong, un attore condannato per aver interpretato troppo bene un nobile, che trova la forza emotiva che gli permette di sopravvivere al gulag assorbendola dagli altri prigionieri; Colin Farrell, delinquente comune, ignorante, animalesco, incapace di fidarsi, ma con una eccezionale scintilla vitale e capacità di leggere nell'animo degli altri; Ed Harris, chiuso nel suo dolore, incapace di perdonare un suo grande errore di valutazione, ma ha la capacità di prendere la giusta decisione nei momenti decisivi, e riuscirà alla fine a sconfiggere i suoi demoni.

Scrivendo il post mi è venuto da pensare ad un altro film di Weir, The Truman show, che penso abbia molto in comune con questo. Lì era tutto dichiaratamente finto, ma il protagonista riusciva lo stesso a imporre la sua verità. Qui è teoricamente tutto vero, e solo con informazioni extra-contestuali possiamo riuscire a scoprire la falsità della narrazione, ma se riusciamo a fare questo salto scopriamo quante verità ci possono dire i vari personaggi.

Delitto sotto il sole

È un giallo classico, basato su un racconto di Agatha Christie, non saprei quale, visto che non sono un lettore della giallista inglese, che segue la convenzione dell'astuto investigatore (qui Hercule Poirot intepretato da Peter Ustinov) a cui capita un complicato caso che riesce immancabilmente a risolvere, come si risolvono i giochi di società.

Nei gialli più moderni le cose diventano più complesse, e si può arrivare al paradosso del detective Smullo di Davide La Rosa che rimane serialmente implicato in casi che gli si ritorcono contro, ma qui possiamo cullarci nella certezza che nel lotto dei presenti ci sia il colpevole (o i colpevoli), e che Poirot finirà per scoprire la verità e uscire vincitore (e innocente).

Una leggera variazione consiste nel fatto che di morti ce ne sono due, e che per un lungo tratto sembrano fatti indipendenti ma (mi si perdoni il piccolo spoiler) è abbastanza naturale per lo spettatore intuire che la prima morte non sia altro che un indizio per arrivare a trovare il colpevole del caso principale.

La parte centrale è in pratica l'illustrazione del caso, con la presentazione di indizi e indiziati, fino ad arrivare allo spiegone finale in cui ci viene resa chiara la vicenda. Un piccolo brivido viene generato dalla mancanza di prove che sembra sminuire il risultato di Poirot, ma anche a questa impasse verrà brillantemente superata.

Un appassionato del genere potrà apprezzare meglio il film, da parte mia ho finito per interessarmi meno alla vicenda e seguire di più la recitazione del bel cast che, oltre a Ustinov, raccoglie una serie di bravi attori tra cui spiccano James Mason, Maggie Smith e Jane Birkin.

Regia non particolarmente incisiva di Guy Hamilton, più noto per i suoi 007.

Alien vs. Predator

Mi sono recentemente sparato la quadrilogia canonica di Alien, in una specie di (fallito) rito propiziatorio all'arrivo di Prometheus. Su quest'ultimo, e sui motivi che mi hanno spinto a rimandare la visione a data da destinarsi, vedasi la recensione su La Tosca non è per tutti.

Il coraggio di affrontare questo quinto episodio, che collega (a mio avviso malamente) l'universo di Alien con quello di Predator, mi era mancato. Ma caso ha voluto farmici incappare l'altro giorno. Si tratta di una seconda visione incompleta, essendomi perso (senza alcun dispiacere) l'inizio per piombare direttamente in media res, con aliens di tutte le dimensioni che si fanno fare a fette da un predator, con contorno di umani che hanno lo scopo di renderci comprensibile l'azione, fornendoci improbabili spiegoni.

Il livello di insensatezza è pericolosamente alto, la regia di Paul W.S. Anderson è assolutamente dimenticabile. Protagonista Sanaa Lathan, che già aveva fornito la voce al personaggio del videogame di una decina di anni prima su cui è molto lontanamente basata la storia. Le fa da spalla Raoul Bova, che fa la fine che merita.

Quell'idiota di nostro fratello

Una parte del mio interesse in questo film è data da Jesse Peretz, regista sceneggiatore, ex bassista dei Lemonheads. Curioso riscoprirlo in questo ruolo. Cambiamento di campo riuscito? Abbastanza. Niente di spettacolare, ma si fa guardare, e ha anche qualcosa interessante da dire.

Nella parte dell'idiota del titolo c'è un Paul Rudd versione dude (drugo nella versione italiana), che chiaramente non può reggere minimamente il confronto con Jeff Bridges ne Il grande Lebowski dei Coen, ma naviga nel ruolo con una serenità da vero dude. Ha un eccezionale trio di sorelle (Elizabeth Banks, Zooey Deschanel, Emily Mortimer) che sono lasciate ampiamente sullo sfondo, non male anche il cast al contorno, in cui spicca Steve Coogan nel ruolo di un cognato.

La storia è presto detta, Ned è una brava persona, ma non particolarmente intelligente, vedremo che anche la madre non è un genio, e dunque non deve essere solo colpa di quello che fuma se ha una bassa predisposizione a capire quello che sta accadendo. Il grosso problema è che attira anche persone che lo vogliono fregare, già nella scena iniziale un poliziotto (in divisa!) lo convince a dargli un po' di fumo, e dunque lo arresta per spaccio.

Un po' per tutto il film continua così, evidentemente poco interessato a diventare sospettoso (anche se mi viene il dubbio che non sia solo per bontà d'animo, ma anche per evitare la fatica relativa) subisce una serie di incidenti, anche se nel finale avremo una specie di lieto fine, persino con una possibile svolta romantica nella sua vita.

Il pubblico per cui è stato pensato mi pare sia quello americano di area liberal, e lo scopo è quello di fare una (gentile) satira di quell'ambiente culturale. Viene preso in giro il perbenismo newyorkese politically correct, non risparmiando frecciatine anche a quelle pseudo-religioni new age che vanno tanto di moda da quelle parti.

Accordi & disaccordi

L'intraducibile titolo originale, Sweet and lowdown, è un capolavoro di ambiguità, risolvendosi diversamente se pensiamo al film come un documentario su un jazzista (Emmet Ray - Sean Penn) americano della prima metà del secolo scorso - lowdown è infatti uno stile jazzistico legato al blues, o se lo vediamo più come uno studio sul carattere del protagonista, e in questo caso lowdown diventa un termine ambiguo, tra la depressione e la mascalzonaggine.

Sceneggiatura e regia di Woody Allen, che appare come narratore della vicenda, accompagnato da fior di testimonianze di studiosi del personaggio, anche se la tesi prevalente è che poco o nulla si sa di certo sul suo conto, se non il poco che sarebbe giunto fino a noi su pochi dischi d'epoca, e la sua passione per Django Reinhardt. La sua storia è così incerta, che di un certo episodio ci vengono fornite tre diverse varianti, una più incredibile dell'altra, tra l'altro.

Bellissima la colonna sonora, che giustifica appieno la pretesa di Ray di essere il più grande chitarrista vivente al mondo, anzi, il secondo, come non riesce a fare a meno di correggersi tutte le volte.

Bravissimo Sean Penn a rendere il personaggio, un genio che fuori dal suo ambito prediletto si comporta tra l'assurdo e l'insostenibile. Scopriamo che ha avuto una bruttissima infanzia, e che questo lo ha reso incapace di esprimere le proprie emozioni, se non con la chitarra. Ma l'essere un virtuoso dello strumento, uno dei pochi capaci di ottenere comunque e dovunque un contratto, nonostante il periodo di vacche magre, non gli impedisce di essere anche un ubriacone, cleptomane, giocatore di biliardo, piantagrane, gigolò e magnaccia. Definirlo un personaggio sopra le righe è limitante.

Un giorno incontra una donna (Samantha Morton, eccellente). Gli piace, non gli piace, massì, gli piace. Dopo un po' scopre che è muta, e ha anche qualche problema di testa. Come personaggio mi ha fatto pensare a Gelsomina (La strada), e in effetti lui è una specie di Zampanò. Sapendo della passione di Allen per Fellini, il contatto dovrebbe essere voluto. Qui i toni sono più da commedia, e il finale è meno tragico.

In ogni caso, il jazzista e la muta hanno una relazione tempestosa, che li porterà anche ad Hollywood. Finirà con la fuga di Ray, incapace di stabilire una relazione seria. Invece incontrerà e sposerà Blanche (Uma Thurman) una donna di origini altolocate (pare), molto razionale, e che vorrebbe diventare una scrittrice. I due non hanno praticamente niente in comune, se non l'amore per gli abiti, e dopo qualche turbolenza di troppo - lei stabilisce una relazione con un piccolo delinquente (Anthony LaPaglia) - anche questa avventura finisce nel nulla, un po' come tutta la vita di Ray.

Si potrebbe fare un parallelo con un altro film di Allen, Zelig. Lì l'invito era ad essere sé stessi, ed evitare la facile scorciatoia di adattarsi a diventare quello che gli altri si aspettano da noi. Qui direi che ci viene ricordato quanto sia difficile trovare la persona giusta con cui passare la nostra vita, e ci si invita a fare attenzione a non perderla, se la riusciamo a trovare.

(500) giorni insieme

Questo l'ho visto in seguito alla segnalazione de La Tosca non è per tutti, e nonostante al commento negativo di Gegio (che del resto ho visto solo adesso).

È il primo lungometraggio di Marc Webb, a cui ora è stato assegnato il reboot di Spider-Man. Si tratta di una commedia romantica tutta vista dal punto di vista di lui (Joseph Gordon-Levitt). Rispetto agli stereotipi del genere ci sono alcune variazioni, tra cui la principale è che la coprotagonista (Zooey Deschanel) finirà per sposarsi con un altro, e senza tanti problemi (da parte sua) visto che sin dall'inizio è ben chiaro che non è innamorata di lui.

Lui ha un paio di amici (Matthew Gray Gubler e Geoffrey Arend), che dovrebbero fargli da consiglieri, ma con dubbi risultati. Fortunatamente ha una sorella minore (Chloë Grace Moretz) che è la persona con più sale in zucca di tutto il lotto.

Il titolo originale è (500) days of Summer è ha più senso perché Summer (nome del personaggio della Deschanel) e Tom (Gordon-Levitt) stanno assieme per meno di un anno, gli altri mesi sono quelli che sono richiesti a Tom per togliersi Summer (o Sole, in italiano) dalla testa.

Lo svolgimento dell'azione è non lineare, e ha senso se lo pensiamo come una lettura in flashback da parte di Tom, frammentario come può essere la memoria successiva ad una delusione romantica.

Dato il punto di vista, si tende a parteggiare per lui, e ritenere lei la "cattiva" della vicenda. Ma a pensarci meglio, come fa anche notare al protagonista una tipa con cui esce una sera, lei è sempre stata sincera con lui. Al massimo le si potrebbe imputare di non essersi innamorata di lui, ma sono cose che succedono. Inoltre, a ben vedere, sembra proprio che Tom avesse proprio bisogno di prendersi una tramvata di dimensioni colossali. Era infatti diretto a rovinarsi la vita facendo un lavoro completamente diverso da quelle che sono le sue capacità, e solo questa catastrofe gli dà la forza di cambiare direzione.

Ninotchka

Recuperato in seguito alla lettura della recensione di Anna Nihil e relativa scoperta di non ricordarmi come andava a finire.

Finisce bene, chiaramente, come tutte le commedie romantiche che si rispettino. E che commedia, co-sceneggiata da Billy Wilder (ancora giovane) e diretta da Ernst Lubitsch (nel suo ultimo decennio), ci fa girare tra Parigi (tutto il primo tempo), Mosca, per finire addirittura a Costantinopoli, senza mai uscire dagli studi MGM.

Protagonista assoluta Greta Garbo, alla sua prima e penultima commedia, nel ruolo di un commissario sovietico in trasferta a Parigi. A farle da spalla Melvyn Douglas, improbabile squattrinato conte francese, ridottosi a fare il gigolò. Cameo per l'inquietante Bela Lugosi, capo della Garbo.

La storia è quella dei due protagonisti, ingabbiati in due diversi mondi, che si innamorano e finiscono per mandare a quel paese le rispettive impostazioni culturali per crearsi una nuova vita.

La Garbo, inizialmente iper-razionalista, finirà per apprezzare anche quello che non si può misurare. Douglas, a sua volta, scoprirà con sua gran sorpresa che è anche capace di fare qualcosa, e che c'è un piacere anche in quello.