L'intraducibile titolo originale, Sweet and lowdown, è un capolavoro di ambiguità, risolvendosi diversamente se pensiamo al film come un documentario su un jazzista (Emmet Ray - Sean Penn) americano della prima metà del secolo scorso - lowdown è infatti uno stile jazzistico legato al blues, o se lo vediamo più come uno studio sul carattere del protagonista, e in questo caso lowdown diventa un termine ambiguo, tra la depressione e la mascalzonaggine.
Sceneggiatura e regia di Woody Allen, che appare come narratore della vicenda, accompagnato da fior di testimonianze di studiosi del personaggio, anche se la tesi prevalente è che poco o nulla si sa di certo sul suo conto, se non il poco che sarebbe giunto fino a noi su pochi dischi d'epoca, e la sua passione per Django Reinhardt. La sua storia è così incerta, che di un certo episodio ci vengono fornite tre diverse varianti, una più incredibile dell'altra, tra l'altro.
Bellissima la colonna sonora, che giustifica appieno la pretesa di Ray di essere il più grande chitarrista vivente al mondo, anzi, il secondo, come non riesce a fare a meno di correggersi tutte le volte.
Bravissimo Sean Penn a rendere il personaggio, un genio che fuori dal suo ambito prediletto si comporta tra l'assurdo e l'insostenibile. Scopriamo che ha avuto una bruttissima infanzia, e che questo lo ha reso incapace di esprimere le proprie emozioni, se non con la chitarra. Ma l'essere un virtuoso dello strumento, uno dei pochi capaci di ottenere comunque e dovunque un contratto, nonostante il periodo di vacche magre, non gli impedisce di essere anche un ubriacone, cleptomane, giocatore di biliardo, piantagrane, gigolò e magnaccia. Definirlo un personaggio sopra le righe è limitante.
Un giorno incontra una donna (Samantha Morton, eccellente). Gli piace, non gli piace, massì, gli piace. Dopo un po' scopre che è muta, e ha anche qualche problema di testa. Come personaggio mi ha fatto pensare a Gelsomina (La strada), e in effetti lui è una specie di Zampanò. Sapendo della passione di Allen per Fellini, il contatto dovrebbe essere voluto. Qui i toni sono più da commedia, e il finale è meno tragico.
In ogni caso, il jazzista e la muta hanno una relazione tempestosa, che li porterà anche ad Hollywood. Finirà con la fuga di Ray, incapace di stabilire una relazione seria. Invece incontrerà e sposerà Blanche (Uma Thurman) una donna di origini altolocate (pare), molto razionale, e che vorrebbe diventare una scrittrice. I due non hanno praticamente niente in comune, se non l'amore per gli abiti, e dopo qualche turbolenza di troppo - lei stabilisce una relazione con un piccolo delinquente (Anthony LaPaglia) - anche questa avventura finisce nel nulla, un po' come tutta la vita di Ray.
Si potrebbe fare un parallelo con un altro film di Allen, Zelig. Lì l'invito era ad essere sé stessi, ed evitare la facile scorciatoia di adattarsi a diventare quello che gli altri si aspettano da noi. Qui direi che ci viene ricordato quanto sia difficile trovare la persona giusta con cui passare la nostra vita, e ci si invita a fare attenzione a non perderla, se la riusciamo a trovare.
Ok, mi fai rivalutare un film di Allen degli anni '00, o giù di lì. Magari lo inserisco nel ciclo Penn, che si becca tutti i difetti pensabili per un ruolo, quindi supera sè stesso.
RispondiEliminaRidendo e scherzando un po' di Penn me lo sono visto anch'io negli ultimi tempi, e direi che è uno dei migliori attori che ci sono in giro. Buona idea farne un ciclo.
EliminaPure da regista non scherza. Ho anche La promessa...
Elimina