Michael Collins

Film di Neil Jordan, di cui ho apprezzato più la regia (*) che la sceneggiatura. Capisco quanto fosse difficile per un irlandese sfuggire alla tentazione di fare di Michael Collins (Liam Neeson) un santino, capisco meno quella di fare di Eamon de Valera (Alan Rickman) il cattivo della storia, e meno ancora quella di insistere inutilmente sulla storia d'amore del protagonista con Kitty Kiernan (Julia Roberts). Il personaggio è storico, anche se forse il triangolo che vede l'amico caro di Mick, Harry Boland (Aidan Quinn), come vertice soccombente, è un po' troppo forzato. Ho come il sospetto che lo scopo principale di questa parte sia stato quello di inserire tra i protagonisti un nome appetibile per il mercato americano.

Seguiamo l'ascesa del Collins da figura di secondo piano a quella di elemento fondamentale nella lotta irlandese per l'indipendenza dall'impero britannico. Jordan sembra puntare molto sulla sua amicizia con Boland, sottolineando come questa sia rovinata dal de Valera, Dev per gli amici, che li vuole contrapposti per i suoi giochi politici, e da Kitty che crea tra i due una rivalità romantica.

Buona la prova attoriale un po' di tutti quanti, in particolare ovviamente Neeson, che è sullo schermo per quasi tutto il tempo. Notevole anche la verve che mette Rickman nel fare il cattivo, ruolo che evidentemente copriva con gusto. Incolpevole la Roberts, che recita come sa fare, anche se mi sembra difficile inquadrarla come una giovine donna irlandese, la sua impostazione da benestante cittadina del New England traspare da ogni suo poro.

(*) Bella la ricostruzione d'epoca, ben fatto il passaggio da filmati estratti da cinegiornali del tempo al suo girato, capace la gestione del cast.

Osterman weekend

Ho il sospetto che Robert Ludlum non avesse una grandissima opinione del suo secondo romanzo (1972). La struttura è quella classica che gli darà in seguito grosse soddisfazioni (*) con un impianto complottardo dove oscuri poteri tramano nell'ombra e alcuni singoli, per un motivo o per l'altro, cercano di opporvisi. Lo svolgimento però, non sembra ancora completamente messo bene a punto.

I diritti cinematografici finirono chissà come nelle mani di Peter S. Davis e William N. Panzer, che già avevano un torbido passato fatto di filmacci. Per intenderci, i due mi hanno fatto ricordare il personaggio interpretato da John Goodman nel film su Dalton Trumbo. La loro idea forse era quella di usare il nome di Ludlum per fare il salto nella produzione che conta. In realtà la Davis-Panzer productions avrà al suo attivo, dopo questo film, praticamente un solo franchise, Highlander.

Nel pacchetto, Davis & Panzer si trovarono pure una sceneggiatura, così brutta che non piaceva nemmeno ad Alan Sharp che pure l'aveva scritta. Decisero comunque di tenersela così com'era anche perché Ludlum espresse schiettamente il desiderio di non aver nulla a che fare con tutto ciò. Più avanti, forse rendendosi conto che il film avrebbe potuto dare un immagine distorta in negativo della sua capacità di scrittore, cambiò idea e si offrì per una riscrittura gratuita. Troppo tardi, ormai il progetto si era avvitato in una spirale autodistruttiva e i produttori, che a questo punto temevano un esplosione dei costi, ringraziarono ma declinarono.

Nel frattempo, infatti, avevano trovato un regista. E che regista, Sam Peckinpah. Il quale, grazie all'aiuto di alcolici e altre cose, era riuscito a rendere il suo già di per sé brutto carattere insostenibile, con il risultato che nessuno gli affidava più una regia dai tempi di Convoy (1978). Questo film avrebbe dovuto marcare il rientro di Bloody Sam nel giro, fu invece il suo ultimo, che il suo fisico non resse agli strapazzi. E, detto fra noi, non è certo all'altezza de Il mucchio selvaggio (1969). Anche perché a Peckinpah non piaceva il romanzo originale e tantomeno la sceneggiatura. Si propose di riscriverla da capo, consegnò le prime pagine del suo lavoro ai produttori i quali, inorriditi, gli vietarono di scrivere altro. Anche se pare che poi quelle prime pagine vennero utilizzate lo stesso. In positivo, il ritorno alla regia di Peckinpah attirò alcuni grossi nomi che accettarono di partecipare senza curarsi troppo né dei personaggi che dovevano interpretare e nemmeno del compenso. Abbiamo così il piacere (**) di vedere assieme Rutger Hauer, John Hurt, Dennis Hopper e Burt Lancaster.

Meglio non dire troppo della storia, sia perché, come vuole il genere, ci sono alcuni colpi di scena che è preferibile scoprire nella visione, sia perché ci sono svariati passaggi che è difficile spiegare, in quanto, come dire, inspiegabili. Posso però rivelare che al centro della storia c'è Lawrence Fassett (Hurt), una spia americana che si è molto arrabbiato in seguito alla morte della moglie. Costui, in cerca di vendetta nei confronti di chi reputa colpevole del suo lutto, scopre che l'organizzazione Omega è sulla sua strada, chiede al suo capo (Lancaster) di poter agire a suo modo, e questi glielo concede. Convince così di John Tanner (Hauer) che i suoi amici, Bernard Osterman (Craig T. Nelson), Richard Tremayne (Dennis Hopper) e Joseph Cardone (Chris Sarandon) appartengono a Omega e che lui deve trovare il modo di farne passare almeno uno dalla loro parte. Segue carneficina.

Il tutto ha l'aria di un B-movie, tendenza sexploitation, eppure di tanto in tanto emerge il polso autoriale di Peckinpah. Fatto strano, ci sono virate comiche che non sembrano avere niente a che fare con l'atmosfera della pellicola, nonostante ciò sembrano volute, e alcune certamente lo sono. Poi ho scoperto che Peckinpah, sempre meno soddisfatto del film che stava girando, ha intenzionalmente introdotto elementi comici, con lo scopo presunto di farsi beffe della produzione.

(*) Vedasi in particolare la trilogia di Jason Bourne.
(**) Mitigato dalla situazione bislacca.

Una spia e mezzo

Venti anni fa Bob Stone (Dwayne "the rock" Johnson) era un patetico grassone che rispondeva al nome di Robbie Weirdicht (*). Per motivi poco chiari, mentre tutti festeggiano l'ultimo giorno delle superiori, Weirdicht fa la doccia nello spogliatoio. Lì viene preso da un gruppo di bulli, capitanati dal perfido Trevor (**), che lo buttano nudo e ciccioso nell'antistante palestra proprio mentre il ragazzo più ganzo del suo anno, tal Calvin Joyner (Kevin Hart), viene celebrato per le sue innumerevoli qualità. Sembra che tutti deridano il panzone senza qualità, persino il preside che non pensa nemmeno di fare una ramanzina pro forma a Trevor & Co., tranne il giovane Joyner, che gli offre un modo di uscire di scena in maniera non troppo disdicevole.

Rapido salto ai giorni nostri, Calvin è diventato un ragioniere frustrato, che invidia la carriera che ha fatto la moglie e non riesce ad apprezzare il suo lavoro. Non ha più visto da allora Bob, e quando se lo ritrova davanti resta basito dalla trasformazione. Infatti, oltre ad essere dimagrito e trasformato in una montagna di muscoli, il suo antico compagno di scuola è diventato una specie di arma letale per conto della CIA, ma questo Calvin lo scoprirà un po' più avanti, quando l'agente Pamela Harris (Amy Ryan) gli spiegherà che Bob si è ficcato in un pasticcio senza capo né coda, al punto di essere pesantemente sospettato di essere passato al lato oscuro.

Non che la prima parte brilli per linearità e attendibilità, però quello che segue è ancora più contorto e poco difendibile. Certo, non che la trama sia particolarmente importante qui, dove tutto viene giocato nel rapporto tra i due protagonisti, il grosso con la testa fra le nuvole e il piccoletto che viene trascinato in un mondo che non gli appartiene.

Per conto mio, il film ha un grosso problema. Trattasi di commedia, in un senso molto largo del termine, e a me non ha fatto ridere, al limite increspare le labbra in un sorrisetto un paio di volte. Meglio potrebbe andare a chi apprezza i due protagonisti, anche se mi permetto di notare che Johnson non mi pare proprio a suo agio in un ruolo comico. Come espressività mi ha ricordato Arnold Schwarzenegger, e dunque I gemelli (1988) dove Arnie faceva il paio con Danny DeVito.

I fan di Melissa McCarthy apprezzeranno forse un suo piccolo cameo nel finale.

(*) Cognome (spero) inesistente che agli anglofoni suona come a noi suonerebbe Cadzobuffo.
(**) Che da grande assumerà le fattezze di Jason Bateman.

The elephant man

Per ragioni che mi sfuggono, gli sceneggiatori hanno preso una storia vera estremamente tragica e hanno aggiunto dettagli inventati che la spingono verso il reame dell'eccesso privo di senso. Forse la maggior responsabilità di questa deriva è da imputare a David Lynch, entrato nel progetto solo in un secondo tempo, che potrebbe aver spinto la sceneggiatura in una direzione a lui congeniale. Si tratta del suo secondo lungometraggio dopo Eraserhead (1977), ma mi è difficile pensare che la produzione non sapesse a cosa andasse incontro, vista l'impostazione completamente folle che ha la sua opera prima. C'è anche da dire che si sente una certa aria di famiglia tra i due film, fosse anche solo che i rumori di fondo che emergono di tanto in tanto anche in questa pellicola.

Il dottor Frederick Treves (Anthony Hopkins) cerca con insistenza di studiare il caso di un freak, noto nella Londra vittoriana come L'uomo elefante (John Hurt). Costui è un povero diavolo trasformato da una terribile e fortunatamente molto rara malattia, la sindrome di Proteo, in un essere di cui si fatica a distinguere la natura umana. Con qualche soldo lo strappa momentaneamente al suo impresario (Freddie Jones), tale Bytes (*), conduce qualche analisi su di lui, espone i risultati agli esimi colleghi, e lo rimanda nell'inferno nel quale viveva. La poca empatia del dottore viene giustificata dall'apparente mancanza di una qualunque scintilla di ragione di quel fenomeno da baraccone, il cui precario stato di salute però infine muove il nostro a trattarlo con più umanità, assegnandogli una stanzetta nell'ospedale in cui opera, nonostante le rimostranze di Bytes, che si vede privato della sua fonte di sostentamento.

In breve si scopre che L'uomo elefante ha una mente, un cuore, e anche un nome, John Merrick (**). Treves decide di aiutarlo, scoprendo in Merrick un animo molto upper class (***) il che gli permette di fare successo nella buona società del tempo. A fare da volano a Merrick è la simpatia che prova per lui Mrs. Kendal (Anne Bancroft), nota attrice teatrale di tendenza.

Sembra dunque che tutto vada per il meglio possibile, se non che (a) Treves ha una crisi morale, che lo porta a chiedersi se non sia altro che una versione ripulita di Bytes; (b) un losco collaboratore dell'ospedale organizza visite notturne organizzate (°) che non sono per niente piacevoli per Merrick; (c) Bytes decide di riprendersi con la forza il suo campione. Bytes e Merrick scappano oltremanica, ma la relazione tra i due, e la salute del secondo, risultano ormai gravemente minati. Merrick, in una serie di scene che ricordano molto il Freaks (1932) di Tod Browning, ma anche qualche film dei Monty Python, viene aiutato dagli altri freak ad evadere e a ritornare a Londra.

Curiosamente, mentre guardavo il film, m'è venuto spontaneo accostarlo a Frankenstein Junior (1974), nonostante l'evidente differenza di toni. Forse, mi dicevo, sarà che entrambi condividono una fonte comune, che sfruttano in direzioni diverse. Poi mi sono accorto che è prodotto dalla Brooksfilms di Mel Brooks.

In ogni caso, bravi un po' tutti gli attori, tra cui ovviamente Hurt che recita sotto una protesi impossibile, ma nonostante questo riesce a veicolare bene il suo carattere. Un po' come Michael Fassbender in Frank (2014).

(*) Personaggio fittizio, creato con l'evidente scopo di contrapporlo al dottore.
(**) O meglio Joseph. Tra le sbadataggini che compiono gli sceneggiatori c'è anche quella di usare un nome erroneo attribuitogli da alcune biografie poco precise.
(***) Decisamente poco giustificabile, visto che il vero Merrick era poverissimo di famiglia poverissima.
(°) Dettaglio che mi ha fatto pensare a Frances (1982), dove la protagonista (Jessica Lange), internata in manicomio, riceve un trattamento simile, ma a sfondo sessuale. Mi sono poi accorto che la sceneggiatura è degli stessi Eric Bergren e Christopher De Vore.

L'infernale avventura

Versione diabolica de L'inafferrabile signor Jordan (1941 *), che io ho conosciuto grazie al remake Il paradiso può attendere (1978) con Warren Beatty nel ruolo principale. Ultima regia dell'ecclettico Archie Mayo, che pare si fosse stufato di dover avere a che fare con i capricci delle star del tempo.

Stranamente, considerando anche che il penultimo film di Mayo è stato Una notte a Casablanca dei fratelli Marx, la parte meno convincente della storia è quella comica, anche a causa di un impacciatissimo Paul Muni che si riprende solo quando i toni virano al melodrammatico. Brava Anne Baxter, nonostante sia costretta nel ruolo di quella che non capisce cosa stia capitando. Così così Claude Rains (**), comprimario di lusso.

Qui abbiamo che Eddie (Muni) è un gangster di Saint Louis che viene freddato dal suo secondo. Finisce dritto ad un inferno che sembra preso da Hellzapoppin' (1941) incrociato con un film di Totò. Lì il diavolo in persona (Rains) si accorge della sua straordinaria somiglianza con un suo nemico, un giudice americano di una grande città dell'est (New York? Boston? credo sia lasciata intenzionalmente indeterminata) che sta facendo del suo meglio per mitigare le disparità che generano delinquenza (***) e che ora vuole diventare governatore.

Con l'inganno, il demonio convince Eddie a sostituirsi al giudice per screditarlo, e in cambio gli promette di aiutarlo a vendicarlo del tradimento del suo ex socio. Ma, come spesso accade, la pentola del diavolo manca del coperchio. Lo scambio di persone avviene fortunosamente al momento giusto per evitare che il giudice subisca un attacco dal quale forse non sarebbe riuscito ad uscire decentemente, ed Eddie scopre in sé qualità che non aveva idea di possedere.

Ambivalente il finale. Eddie capisce di non essere poi così cattivo, e di avere un metaforico angelo sulla sua spalla (°) che gli permette di tenere a bada Mefistofele (°°) e di operare per il bene. Ma questo non basta ad ottenergli un cambio di destinazione finale.

(*) In entrambi i casi la piéce originale è di Harry Segall.
(**) Una faccia molto nota. Nello stesso anno era il nazista in Notorious - L'amante perduta, nel 1942 è stato il capitano Renault in Casablanca, e ha avuto pure il ruolo di Mr. Jordan nel succitato Inafferrabile.
(***) Sembra quasi un dettaglio alla Frank Capra.
(°) Angel on my shoulder è il titolo originale.
(°°) Nick per gli amici.

Cattivi vicini 2

A tratti più che un sequel sembra un remake, tante e tali sono le battute fotocopia e gli sketch ripresi con variazioni nemmeno troppo sostanziose. A giustificare questo nuovo episodio, oltre alla speranza di incassare qualche milione facile (*) c'è un illusorio cambiamento di punto di vista. Se prima al centro dell'azione c'era una fratellanza, capitanata da Teddy (Zac Efron), ora sarà una sorellanza (**) a prendere in affitto la casa della scombinata coppia Mac (Seth Rogen) e Kelly (Rose Byrne).

Succede infatti che Shelby (Chloë Grace Moretz) va all'università, scopre che le sorellanze non possono fare feste, e che le ragazzine in vena festaiola devono accettare l'impostazione che le fratellanze danno alla cosa. Non le va bene, e quindi fonda una sua sorellanza pirata. Nel frattempo Teddy, che è rimasto quello che da noi si chiamerebbe un bamboccione (***), ha scoperto che il suo compare Pete (Dave Franco) è gay. E siccome viveva con lui, ma Pete sta per sposarsi, gli tocca dare una svolta alla sua vita, che sarà una svolta all'indietro, in quanto deciderà di supportare la nuova sorellanza.

Il tipo di umorismo è lo stesso della prima parte, ovvero roba da far rimpiangere il Pierino di Alvaro Vitali. La scena di apertura ci mostra Mac e Kelly intenti a far sesso (°), lei è sopra, improvvisamente accusa una nausea derivante da una nuova gravidanza e quindi vomita in faccia a lui. Un tormentone che ci segue per tutto il film è quello della figlia dei due disgraziati che si è impossessata del dildo materno e che gioca con esso generando una debole perplessità negli sconosciuti che la vedono. Spaccio di droga, furti, poliziotti violenti con i deboli e deboli con i violenti, gente che si schianta in modi assurdi, roba da rompersi le ossa se non lasciarci la pelle (°°), sono al centro di gag che dovrebbero far ridere.

Anche se piace il genere, meglio non vederli entrambi.

(*) Che purtroppo oltreoceano è stata realizzata. E temo che questo possa spingere la produzione a pensare ad un terza, ampiamente ingiustificabile, parte.
(**) Da cui il sottotitolo originale, Sorority rising.
(***) Copyright Tommaso Padoa-Schioppa.
(°) Un déjà vu che avrei volentieri evitato.
(°°) Però sono tutti fatti di gomma, e non si fanno niente.