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Blackadder's Christmas carol

Stralunata versione del cantico di Natale di Charles Dickens generata dal notevole trio creativo composto da Richard Boden (regia), Richard Curtis e Ben Elton (sceneggiatura). Trattasi di uno speciale natalizio che prende i personaggi della serie dedicata al fittizio Edmund, duca di Edimburgo, figlio di un finto Riccardo IV che sarebbe vissuto nel tardo millequattro, quasi millecinque. Edmund si era dato il soprannome di The black adder, da cui è nata (*) una dinastia di personaggi spregevoli che hanno preso Blackadder come cognome. Tutti i Blackadder sono interpretati da Rowan Atkinson, ognuno dei quali ha come fido (?) aiutante un tal Baldrick, sempre interpretato da Tony Robinson, che diventa sempre più laido e imbecille col passare delle generazioni.

Ebbene, in tutta la lunga teoria di Blackadder, ai tempi della regina Vittoria c'era un'eccezione. Ebenezer Blackadder, proprietario di un rinomato negozio di baffi, è munifico e ben disposto con tutti, i quali se ne approfittano, così che a fine anno a lui e al suo fido assistente Baldrick non resta mai niente. Se questo Blackadder è una pecora bianca in una famiglia di pecore nere, il Baldrick in esame mantiene i tratti familiari, per cui riesce a produrre un biglietto di auguri natalizi in cui la parola "Christmas" è scritta con tutte le lettere sbagliate.

A raddrizzare la situazione ci pensa lo Spirito di Natale (Robbie Coltrane) che gli mostra quanto carogne erano un paio di suoi avi. A dire il vero l'intenzione dello Spirito era quella di mostrare quanto meglio fosse la miserevole ma benigna esistenza di Ebenezer rispetto a quella fastosa ma maligna dei suoi antenati, l'effetto ottenuto è però quello opposto. Si aggiunga poi che, malvolentieri, lo Spirito mostra a Ebenezer cosa succederà ad un suo lontano discendente in funzione della sua scelta di restare dalla parte del bene o di passare a quella del male. Nel secondo caso, un futuro Blackadder annichilerà i discendenti dei nemici storici della famiglia (Stephen Fry e Hugh Laurie) e sposerà la bella imperatrice galattica Asphyxia XIX (Miranda Richardson). Altrimenti succederà un inversione di ruoli, e sarà un futuro Baldrick, sempre più inetto, ad avere quel Blackadder come assistente.

Questa rivelazione spingerà Ebenezer Blackadder a dare una svolta decisa alla sua vita, abbracciando la cattiveria che sembra proprio essere un tratto caratteristico della famiglia. Si toglierà così alcune soddisfazioni, ma avrà anche una crudele sorpresa.

(*) Come i Blackadder si riproducano è un mistero, visto che ogni elemento della famiglia sembra essere disperatamente single, e con ben poco interesse al processo.

Mississippi burning - Le radici dell'odio

Fa un po' spavento pensare che solo cinquant'anni fa ci fossero Stati negli USA in cui vigesse ancora l'apartheid. La scena iniziale, sui titoli di testa, ci mostra silenziosamente l'assurdità di due fontanelle per l'acqua, una per i bianchi, l'altra per i "colored". Più avanti nel film vediamo anche un ristorante diviso in due, e quando un bianco viola il tabù e entra nell'area riservata ai neri, nel locale cala un silenzio tra l'imbarazzato e l'orripilato.

A sottolineare quanto l'argomento fosse ancora un nervo scoperto per i locali, il film, uscito più di vent'anni dopo i fatti, non incassò molto in patria, e la produzione venne salvata solo dal mercato internazionale. La critica trattò questo lavoro di Alan Parker con molta prudenza, con alcune stroncature che si aggrapparono ad una eccessiva rielaborazione della storia originale. Anche la notte degli Oscar premio il film con una sola statuetta, per il montaggio (*). Anche se bisogna ammettere che si trattava di un anno ricco, con Rain man che spadroneggiò (**) e l'agguerrita concorrenza di titoli come Turista per caso, Le relazione pericolose, Un pesce di nome Wanda, eccetera.

Due agenti dell'FBI, Ward (Willem Dafoe) e Anderson (Gene Hackman), vengono mandati nel Mississipi per indagare sulla scomparsa di tre attivisti antisegregazionisti. Noi sappiamo già che i tre sono stati uccisi, e quindi l'enfasi della storia non è sulla scoperta di quello che è successo, ma su come i due investigatori, che hanno caratteri diametralmente opposti, riusciranno a usare le loro differenze come un vantaggio, e non un ostacolo.

Ward, infatti, è più istruito, più politicizzato, più razionale. Anderson, che nonostante la maggior anzianità sia di servizio sia anagrafica ha dovuto accettare di essere in posizione subalterna nella squadra, è più sanguigno e informale.

Il caso è di una chiarezza lapalissiana. Evidentemente i tre sono stati uccisi dal Ku Klux Klan, che deve necessariamente avere i suoi uomini nelle istituzioni, ma altrettanto evidentemente nessuno ha intenzione di aiutare le indagini. Ci sono quelli a cui sta bene così, e si rifiutano di credere che i tre siano stati uccisi o che, in subordine, ammettono che potrebbero essere morti, ma che comunque è colpa loro, che si sono immischiati di problemi che non li riguardavano. E ci sono quelli che tacciono perché pensano che sia l'unico modo per evitare problemi peggiori.

L'approccio di Ward, che si basa su uno scontro diretto di poteri, ottiene alcuni risultati, che però non sono risolutivi, e finiscono per essere pagati pesantemente. Anderson, dal canto suo, svolge una sua indagine parallela usando metodi poco ortodossi, al punto che il centro della sua strategia si risolve nel cercare di circuire la moglie (Frances McDormand) di un indiziato.

Alla fine, coalizzandosi, riusciranno a venire a capo del problema, anche se, a ben vedere, nessuno potrà dirsi completamente soddisfatto del risultato.

(*) Che non mi è sembrato tra gli aspetti più interessanti della pellicola.
(**) Quattro Oscar, tutti tra i principali. Forse un po' troppo.

Il mastino dei Baskerville

Credo si tratti della più famosa avventura di Sherlock Holmes. Tra gli svariati adattamenti cito quello del '39 che ha iniziato la serie dove Basil Rathbone è protagonista, la curiosa versione horror del '59 di casa Hammer, con Peter Cushing, e la trasposizione contemporanea con Benedict Cumberbatch.

Come è nello stile della serie, qui si rispetta il testo originale di Conan Doyle, quasi filologicamente. Holmes (Jeremy Brett) appare poco, preferendo seguire i fatti a distanza. Ne approfitta il dottor Watson (Edward Hardwicke), suo malgrado, per stare al centro dell'attenzione e indagare, per quanto sia nelle sue possibilità. Il fatto che sia stato prodotto come episodio speciale "doppio", durando un centinaio di minuti invece dei soliti cinquanta, permette di sviluppare la materia con ordine.

Come vuole la lettera, il precedente Sir Baskerville muore per infarto, che sembra ricollegarsi alla antica maledizione della casata, perseguitata da un malefico cagnaccio. Il dottor Mortimer (Alastair Duncan) teme che anche il nuovo Baskerville subisca la stessa sorte e invoca l'aiuto di Holmes. Il quale accetta ma, adducendo la necessità di seguire un'altra indagine, lascia che sia il solo Watson a seguire Baskerville nel suo insediamento in campagna, nel Devon.

Watson resta in contatto con Holmes via lettera, spedendogli il resoconto delle sue giornate. Il maggiordomo, Barrymore (Ronald Pickup), sembra sospetto; un entomologo a caccia di farfalle, Stapleton (James Faulkner) suscita dubbi, anche perché quella che lui presenta come sua sorella (Fiona Gillies) ha un comportamento che lascia perplesso anche il buon dottore, e pure il dottor Mortimer, con la sua passione per reperti preistorici, potrebbe riservare sorprese.

I piani Bruce-Partington

Come sempre molto fedele al racconto originale di sir Arthur Conan Doyle (*), anche se qui viene lasciato scappare uno dei colpevoli, che invece avrebbe dovuto essere arrestato e lì morire poco dopo, non si dice dell'onoreficenza che la regina consegna a Sherlock Holmes (Jeremy Brett) come ringraziamento per la soluzione del caso, e si elimina il limitato coinvolgimento dell'ispettore Lestrade. Inoltre, subito all'inizio del racconto, invece di dire che Holmes è (o si reputa) un esperto dell'opera di Orlando di Lasso, gli si fa cantare, con risultati poco felici musicalmente ma abbastanza comici, parte di una sua composizione. Nel frattempo il dottor Watson (Edward Hardwicke) legge il giornale e non commenta.

Torna in azione Mycroft Holmes (Charles Gray), di cui era stato accennato all'apporto nell'affare delle cascate del Reichenbach ma che non vedevamo dai tempi del caso dell'interprete greco.

Un impiegato del ministero della marina militare viene trovato morto lungo i binari della metropolitana londinese, in tasca ha alcune pagine relative al progetto di un nuovo tipo di sottomarino che farebbe gola a qualunque potenza straniera. Ne mancano altre, e non si capisce come costui abbia potuto impossessarsi delle segretissime carte. La soluzione arriverà anche grazie allo studio della cartina del Tube.

(*) L'avventura dei progetti Bruce-Partington dalla raccolta L'ultimo saluto.

Villa dei glicini

Altro episodio extra londinese. Questa volta Sherlock Holmes (Jeremy Brett) e il dottor Watson (Edward Hardwicke) indagano nel Surrey, su richiesta di un cartografo, John Scott Eccles (Donald Churchill), che si è trovato invischiato in un caso di cui, da buon scienziato con la testa fra le nuvole, non ha capito niente.

Appena giunto nel villino di campagna di un suo nuovo amico, Luigi Garcia, che condivideva il suo amore per le mappe, si era accorto che qualcosa non quadrava. Nessuno sembrava più interessato a lui, anche la servitù lo trattava con una scostanza che lo lasciava perplesso. Ma il peggio doveva accadere il mattino successivo, quando si accorge che nella notte se ne sono andati tutti via. Tornato a Londra, scopre che nessuno conosce Garcia, che gli aveva dato un cumulo di referenze fittizie. Sottopone il caso a Holmes, e poco dopo scoprono che la polizia, e in particolare l'ispettore Baynes (Freddie Jones), lo stava pedinando da qualche ora, ritenendolo in qualche modo collegato all'efferato omicidio di Garcia.

E' subito chiaro che il cartografo è del tutto estraneo ai fatti, però Baynes non sembra avere idea di chi sia il vero colpevole, e finisce per arrestare un figuro che, per quanto losco, non pare essere un buon sospetto. Un colpo di scena ribalterà la prospettiva e scopriremo che Baynes è molto più astuto di quel che sembra.

Il racconto originale di Conan Doyle è piuttosto lungo, al punto di essere diviso in due parti, seguendo uno stile tipico dell'autore, basti pensare a Uno studio in rosso, dove da una parte c'è l'indagine poliziesca che identifica il colpevole, dall'altra un lungo spiegone che si avventura in un ambiente completamente diverso per fornire il retroscena dei fatti. Per esigenze di tempo e di ritmo, qui è tutto più sincopato, alcuni personaggi minori scompaiono e il loro contributo viene assorbito dalle figure principali. Resta anche qualche perplessità sullo svolgimento dei fatti.

Silver Blaze

Sherlock Holmes (Jeremy Brett) e John Watson (Edward Hardwicke) questa volta si recano nel Dartmoor, bella regione selvaggia, ora parco nazionale, nel Devon. A chiamarli sono l'ispettore Gregory (Malcolm Storry), che secondo Holmes è anche bravino ma manca di immaginazione, e il colonnello Ross (Peter Barkworth), proprietario del cavallo da corsa di gran pregio che dà il nome all'episodio e che è misteriosamente scomparso.

Il racconto è tra i più noti della serie, sia per il suo sviluppo anticonvenzionale, sia per una battuta di Holmes che è diventata mitica. Fra l'altro, pur mal tradotta in italiano, è il titolo del romanzo best seller di Mark Haddon, Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte. In originale è The curious incident of the dog in the night-time.

Dicevo che Holmes viene chiamato per il cavallo, anche se l'indagine principale, dal punto di vista della polizia, riguarda la morte di John Straker, che curava la forma di Silver Blaze in vista dell'incombente Wessex Cup. Gregory si sente tranquillo, hanno beccato un bookmaker che voleva truccare la gara, e molti indizi lo fanno ritenere colpevole. Sherlock dubita, e usando induzioni (e anche abduzioni, come lui stesso ammette) scopre chi ha davvero ucciso lo Straker e perché. Che però sembra scampare ogni forma di giudizio e relativa pena.

Il piede del diavolo

Sherlock Holmes (Jeremy Brett) è proprio messo male in questo episodio (*). Depresso e malridotto viene praticamente costretto dal dottor Watson (Edward Hardwicke) a prendersi un periodo di assoluto riposo. Per questo scopo viene scelta la placida, per quanto aspra, Cornovaglia.

Ma figuriamoci se non si presenta un caso pure lì. I due londinesi sono immediatamente agganciati da un curato di campagna che funge da contraltare irrazionalista all'approccio sherlockiano. Succede infatti che una donna muore e due suoi fratelli sono ridotti alla demenza da quello che sembra un attacco di panico causato da un immane spavento. Il giorno dopo toccherà al quarto fratello, che era scampato al primo attacco abbandonando la congrega giusto in tempo, morire nello stesso modo.

Il pastore ritene che tutto ciò sia opera del diavolo. L'investigazione privata porterà a scoprire che si è trattato solo del suo piede, nel senso della radice di un erba africana praticamente ignota in Europa che, bruciata, causa terribili allucinazioni. Holmes eviterà di dare il suo parere alle autorità locali, anche se ha lasciato loro un paio di dritte che avrebbero potuto guidarli sulla giusta strada, sia perché esplicitamente invitato a stare fuori dall'indagine ufficiale, sia perché ha uno dei suoi rari, ma poi non così infrequenti, momenti di simpatia nei confronti di alcuni perpetratori.

Da notare che evidentemente Holmes mente quando dice di non essersi mai innamorato e di essere semplicemente nel campo delle ipotesi quando cerca di immedesimarsi in chi agisca scorrettamente in seguito alla passione. Bisognerebbe accennare al nome di Irene Adler e valutare la sua reazione. Ma sarebbe una inutile crudeltà.

L'uso di una misteriosa erba africana permette a Patrick Gowers di variare il tema musicale introducendo una vena tribale. Le percussioni sono un tocco decisamente troppo esplicito, e forse sarebbe stato meglio evitarle.

Brett è evidentemente sciupato in questa puntata e, purtroppo, non è solo caratterizzazione.

(*) Primo del secondo blocco, denominato "Il ritorno" e diviso in due annate con in mezzo uno speciale di lunghezza doppia. Nel canone ufficiale di Sir Arthur Conan Doyle, fa parte della più tarda collezione "L'ultimo saluto". Tra le poche le differenze nelle due versioni, spicca che per Granada qui Holmes dice addio (o almeno ci prova) alla sua dipendenza da cocaina, che assume per endovenosa in soluzione (sette per cento), esemplificata dal suo sotterrare una siringa.

Senza indizio

Le scuse a Conan Doyle che chiudono i titoli di coda credo non siano porte per lo stravolgimento che gli sceneggiatori hanno apportato ai personaggi, l'opera di sir Arthur ha sopportato ben altro, quanto al fatto che l'intera trama investigativa, che pure mi sembra un degno apocrifo, sia lasciata scorrere senza riservarle troppa attenzione. L'enfasi è infatti tutta sullo studio dei due personaggi principali che vengono seguiti nel loro sviluppo.

Peccato che la regia (Thom Eberhardt), forse intimorita dal calibro dei protagonisti, sia praticamente assente, limitandosi a lasciare che l'azione si svolga. E peccato che la sceneggiatura proponga una lunga parte centrale in cui non si fa altro che rimarcare il conflitto tra i due caratteri, reiterando inutilmente quanto ci è stato illustrato nella parte iniziale.

Il film inizia con Sherlock Holmes (Michael Caine) che, con l'assistenza del dottor John Watson (Ben Kingsley), risolve un caso mortificando l'ispettore Lestrade (Jeffrey Jones) che avrebbe molto volentieri fatto a meno del loro aiuto. Scopriamo però che Holmes non è il genio deduttivo che credevamo di conoscere, trattasi invece di uno scarsissimo attore teatrale, tale Reginald Kincaid, che Watson ha assunto perché, in quanto medico, non voleva far sapere di avere l'hobby dell'investigazione.

C'è una forte tensione tra i due. Watson non sopporta più che la gente non si ricordi nemmeno del suo nome, mentre tutti pendono dalle labbra di Holmes, anche quando questi, che nulla capisce di indagini poliziesche, dice delle sciocchezze senza capo né coda. D'altro canto, nemmeno Holmes è felice della situazione. Vive costantemente recitando una parte che richiede continua improvvisazione, e lo fa brancolando nel buio (questo il senso del titolo originale, Without a clue, che è stato tradotto letteralmente in italiano, perdendone il significato).

Un ennesimo litigio fa sì che Watson butti fuori dal 221B di Baker Street Holmes, con gran gioia di Mrs Hudson, e decida di rivelare al mondo come stanno le cose. Il problema è che il mondo non è pronto per questa rivelazione. In più, il perfido professor Moriarty (Paul Freeman), che fra l'altro sa bene che il suo avversario è Watson e non Holmes, minaccia di far crollare l'intero sistema monetario britannico, ed è dunque gioco forza far sì che i due affrontino assieme questo ultimo caso.

La troppo lunga parte centrale ci spiega con dovizia di dettagli come Watson sia geniale ma nessuno gli faccia caso e Holmes un alcolizzato donnaiolo senza la minima capacità investigativa, e pure con una certa tendenza a causare danni.

Moriarty è però un avversario ostico, e Kincaid dovrà mostrare quali sono i suoi talenti.

Mystic Pizza

Film che volevo vedere da tempo immemorabile, pur non aspettandomi niente di buono. Noto per essere il primo ruolo importante di Julia Roberts (Pretty woman è di due anni dopo) e prima apparizione sullo schermo di Matt Damon (che ha un paio di battute) e, naturalmente, per essere ambientato a Mystic, amena località turistica nel Connecticut, poco lontana da New York (per gli standard americani).

La prima ora è una noia unica. Tenderei a dare la colpa al regista (Donald Petrie) ma anche la sceneggiatura (Amy Holden Jones) non mi pare particolarmente ispirata. Fortuna che c'è un risveglio nella seconda parte, più della storia che della direzione, che rende il risultato tutto sommato accettabile.

Si racconta di due sorelle, Kat e Daisy, (Annabeth Gish e Julia Roberts) e la loro amica Jojo (Lili Taylor - che l'anno successivo avrà un piccolo ruolo in Non per soldi... ma per amore), che dovrebbero essere tutte tre attorno ai 18 anni o poco più, e che non fanno parte della comunità turistica e benestante di Mystic, ma di quella squattrinata che campa vendendo pizza o pescando aragoste. Sono tutte (almeno teoricamente) di etnia portoghese, che pare sia una fiorente comunità locale. A dire il vero nessuna delle tre ha le caratteristiche somatiche adatte, e nel resto del cast si notano facilmente attori italo-americani che devono essere stati considerati sufficientemente sud-europei per lo spettatore americano. Ma è un dettaglio minore.

Kat è la secchiona, sta per andare all'università, niente meno che a Yale, anche se il costo della retta spaventa. Daisy è la ragazzaccia sfrontata, anche se nella seconda parte scopriremo che è tutta immagine. Jojo è la confusionaria, unica delle tre ad avere un ragazzo (Vincent D'Onofrio) di cui è innamorata, però non sa. Kat si innamora di un architetto di passaggio, un trentenne sposato con figlia, e Daisy di un coetaneo di famiglia ricca (molto ricca, gira in Porsche). Il formato è quello della commedia romantica, e dunque le cose vanno un po' bene, un po' male, fino al lieto fine che premia (quasi) tutti.

Le avventure del barone di Munchausen

Il barone di cui si narrano alcune vicende in questo film è realmente esistito, e la sceneggiatura e regia di Terry Gilliam ha solo adattato alla sua sensibilità e intenzioni quelli che sono i fatti come furono narrati dal barone stesso - e successivamente ripresi e abbelliti da altri narratori. Sulla veridicità dei quali, checché ne dica il Munchausen, io non mi sbilancerei troppo.

Tecnicamente il film è di una bellezza estasiante, merito di nomi come Giuseppe Rotunno, Dante Ferretti, Francesca Lo Schiavo, Gabriella Pescucci, che hanno dato un cuore italiano alla bizzarra visionarietà di Gilliam. Purtroppo la sceneggiatura non regge per tutte le due ore del film, in particolare ho trovato la parte centrale (viaggio sulla Luna) un po' noiosetta.

La storia è quella di una compagnia teatrale che recita le avventure del barone in una città sotto assedio dei turchi. Ma recitano così male che il barone stesso decide di intervenire per ristabilire la realtà, e raccontare come sono andate davvero le cose. Spiega dunque che la guerra è tutta colpa sua, perché ha tirato un tiro birbone al sultano, che l'ha fatto uscire dai gangheri. Però si dice disposto a rimediare, con l'aiuto delle damigelle presenti, costruisce una mongolfiera per scappare dall'assedio, e recupera i suoi servitori dai poteri favolosi, andandoseli a cercare sulla Luna, in fondo a un vulcano (l'Etna, credo), e persino nella pancia di un mostruoso pesce. Ricreata la combriccola, si deve superare l'ultimo piccolo problema: sono tutti quanti vecchi e sfiduciati, e non hanno più voglia di avventure incredibili. Ma il barone troverà il modo di superare anche questo ostacolo, sconfiggendo nuovamente il sultano.

In realtà ci sono svariati sottotesti, che rendendo la visione anche più interessante. Il barone è vecchissimo, e spesso si fa prendere dal desiderio di darla vinta alla sua vera grande nemica (la morte che, con tanto di falce, tenta più volte di chiudere la partita con questo cocciuto avversario), ma c'è sempre qualcosa, le belle donne, in genere, ma anche il senso di responsabilità dovuto dal suo ruolo, o anche solo la cocciutaggine del bastian contrario, che gli fanno cambiare idea. Eccetera.

Notevole il cast, a partire dallo strepitoso barone, interpretato da un ottimo John Neville, che nonostante l'età direi che era al suo primo ruolo importante. È morto giusto un anno fa, o forse se ne è volato sulla Luna, a cercare nuove avventure.

Nel film, la Luna è governata da due giganti con problemi di personalità, interpretati da Robin Williams e Valentina Cortese. Jonathan Pryce, invece, è un ufficiale francese molto razionale, molto mediocre, che naturalmente ha in grande antipatia la generosa irrazionalità del barone. Ma non è che ce l'abbia solo con lui, neanche con Sting, un suo valoroso commilitone, ha un rapporto molto felice. Nella sezione mitologica incontriamo Vulcano (Oliver Reed) e Venere (Uma Thurman), che ovviamente si invaghirà del barone.

Eric Idle, tra i servitori del barone, è l'unico (altro) pitoniano nel film.

Una tomba per le lucciole

Basato su un romanzo semiautobiografico, racconta una tragica storia di guerra, dal punto di vista di due bambini giapponesi. Tutta la storia è narrata in flashback, a partire dalla morte del ragazzino per stenti, poco dopo la fine della seconda guerra mondiale. A raccontarcela è il suo spirito, che rievoca l'ultimo periodo della sua vita, a partire da pochi mesi prima, quando un bombardamento americano con bombe incendiare distrugge il quartiere dove viveva. La madre viene uccisa, e lui resta con la sorellina.

Una zia li accoglie per qualche tempo, ma li tratta sempre peggio, finché i due orfani decidono che è meglio vivere in una cava abbandonata. Il cibo diventa sempre più scarso, fino al finale che ci è già stato raccontato all'inizio.

È un cartone animato dello studio Ghibli, diretto da Isao Takahata, che è originariamente uscito in abbinata con Totoro. Stavo per scrivere che in questo caso l'uso dell'animazione invece che di attori umani fosse puramente incedentale, ma a pensandoci meglio direi che l'animazione aggiunge valore alla narrazione, togliendo spazio all'aspetto documentaristico, ed enfatizzando l'aspetto emozionale.

Il mio vicino Totoro

Come ha fatto notare Babol, c'è un gran fermento per lo Studio Ghibli di questi tempi, vedi Prevalentemente anime e A Gegio film, e magari fai pure un salto nel passato per leggere cosa ne diceva Componente instabile. E direi che i film di Hayao Miyazaki, e Totoro nel caso specifico, se la meritano tutta questa attenzione.

Se qualcosa vi spaventa, dice il padre alle sue piccole figlie, fatevi una bella risata. Ma c'è ben poco che spaventi le due monelle, se non la paura di perdere la madre. Riusciranno a superare anche quella, grazie alle affilate armi della fantasia, che le dota di un inesplicabile vicino, terribile spirito del bosco dall'aspetto orsacchiottesco e dal cuore d'oro, dotato di microbici (almeno a suo confronto) sodali affascinati dalle ghiande, e che in caso di necessità si muove con un fantastico gattobus.

Non so come mai, ma torna a venirmi in mente la scena in cui le due bimbe aspettano l'arrivo del bus che porta loro padre. Anche Totoro arriva alla fermata (scopriremo poi che lui aspetta il gattobus), piove, e si è messo una foglia in testa. La gentile ragazzina gli passa l'ombrello paterno e gli spiega come usarlo. Seguono momenti in cui i tre tacciono, mentre la pioggia cade. Non succede nulla, ma solo a pensare a quel gigantesco orsacchiotto, fermo sotto la pioggia, con l'ombrello in mano e con gli occhi sbarrati, non posso trattenermi dal ridere. Per non parlar del fatto che, fraintendendo, Totoro si tiene l'ombrello e se ne va felice.

High spirits - fantasmi da legare

Non ho avuto lo spirito di arrivare fino in fondo, ma penso di essermi perso ben poco. Si tratta di una commedia paranormale piuttosto disneyana nell'ispirazione, ma carente in praticamente ogni aspetto. Con una certa dose di pazienza si potrebbero tagliar fuori alcuni minuti accettabili da quel disastro che è questa pellicola, ma credo che il gioco non valga la candela.

Credo che Neil Jordan (sceneggiatura e regia) abbia dato qui il peggio di sé, con una storia mal congegnata e una direzione svagata di un cast non indifferente. Un castellano irlandese (Peter O'Toole) è sull'orlo della bancarotta, un ricco americano è sul punto di costringerlo al fallimento per papparsi il suo castello, nel senso di smontarlo e ricostruirlo in California (già sentita, vero?). Disturbato dalla madre mentre è col cappio al collo, deciso a farla finita, prende spunto dalla follia materna, che vede fantasmi ad ogni angolo del castello, e pensa di sfruttare l'attrazione per l'occulto per fare affari. Arriva dunque una comitiva di americani, che vengono accolti con trucchi pietosi, generando la loro contrarietà. Solo che i fantasmi ci sono davvero, si infuriano per la pietosa messinscena del loro ultimo erede e decidono di dar una lezione a tutti quanti, finendo per salvare capra e cavoli (questa è una deduzione, non ho visto il gran finale, ma sarei veramente sorpreso se succedesse qualcosa di diverso).

A questa trama se ne sovrappone una rosa. C'è infatti una coppia americana in seconda luna di miele. Lui (Steve Guttenberg) sperava con questo viaggio di risvegliare la passione della moglie, che però non sembra molto interessata all'articolo. Scontento, si ubriaca col padrone di casa, e quindi vede un bel tocco di fantasma (Daryl Hannah) condannata a replicare la sua fine, uccisa dal marito (Liam Neeson) la notte del matrimonio. Forse a causa dei fumi dell'alcool, si intromette nell'azione causando un contatto tra i due mondi. Abbiamo dunque un marito che vorrebbe stare con la moglie, ma se ne sente rifiutato ed è invece attratto da una bella fantasma, sposata a sua volta, ma anche lei con una relazione non molto stabile. Non bisogna essere dei geni per capire come andrà a finire questa storia.

Storia poco nuova e poco interessante, dunque, ma che avrebbe potuto anche essere guardabile se non fosse stata diretta e recitata così malamente. Poco chiaro anche chi sia il pubblico di riferimento. Penserei a famiglie e ragazzetti, dato anche lo stile disneyano degli effetti speciali, e direi che l'interpretazione di O'Toole è in questa direzione. Ma Guttenberg mi sembra replichi (fuori contesto) il suo ruolo da scuola da polizia, più adatto a ragazzetti un po' più cresciutelli.

Da notare il ruolo terribile per il povero Neeson, ai tempi ancora illustre sconosciuto.

Il principe cerca moglie

Non mi era piaciuto ai tempi, ma non mi ricordavo più perché. La seconda visione mi ha rinfrescato le idee. Storia (Eddie Murphy) non particolarmente originale, sceneggiatura un po' tirata via, come pure la regia (John Landis). Recitazione scarsotta, spesso ho avuto l'impressione di guardare una serie televisiva.

Il film punta tutto su Murphy che, a mio parere, dà il suo meglio quando viene contenuto dalla regia in parti limitate (era partito benissimo con 48 ore e Una poltrona per due) ma quando trasborda, come in questo caso, il risultato è quello che è.

Breve apparizione di Samuel L. Jackson nei panni di un rapinatore e dei fratelli Duke (di Una poltrona per due) che riemergono dalla miseria grazie ad una sconsiderata donazione da parte del principe.

Murphy è il giovin principe di un regno africano di fantasia, molto finto, molto da telenovela. Giunta la maggiore età si dovrebbe sposare che una povera disgraziata che è stata allevata con questo preciso scopo. Riesce a strappare una breve proroga e ne approfitta per andare a New York. E visto che vuole cercarsi una regina, va nel Queens - e qui c'è qualche scenetta divertente per contrasto tra la ricchezza esagerata del principe e la miseria dell'abitazione scelta appositamente per essere tale. Il resto procede come da copione, sia pure con qualche intermezzo che mi ha strappato qualche risata.

Le due ore scarse di durata sono veramente eccessive, ma se ne sarebbe potuto tirar fuori un cortometraggio divertente.

Le relazioni pericolose

La maledizione del primo film americano, secondo cui un regista europeo a Hollywood ottenga un risultato ben al disotto delle sue possibilità, è stata disattesa da Stephen Frears, che con Dangerous Liaisons ha realizzato uno dei suoi film più belli. Sarà forse perché invece di lasciarsi incantare dai meccanismi produttivi di oltreoceano è riuscito a usarli a dovere, in modo da ottenere un cast lussuoso e i mezzi economici non indifferenti che richiede un film in costume, quando lo si voglia fare a modo.

La sceneggiatura è adattata dall'omonimo romanzo epistolare di fine settecento che rappresenta ottimamente una storia di vanità e di scontro di personalità che potrebbe essere traslata in qualunque periodo - ricordo la versione anni cinquanta di Roger Vadim che, pur spostando il baricentro dell'azione sul rapporto tra sesso e amore, manteneva comunque un suo interesse.

La storia narra di due libertini, il visconte di Valmont (John Malkovich) e la marchesa di Merteuil (Glenn Close), già amanti, e che coltivano una relazione disincantata, mirante a soddisfare le reciproche lussurie. In realtà si amano, ma non sanno come dirselo, o forse reputano che ne andrebbe del loro prestigio se lo ammettessero.

La marchesa vorrebbe tirare un brutto tiro ad un altro suo ex amante, e fare in modo che la sua promessa sposa (una giovane Uma Thurman) non giunga propriamente immacolata al matrimonio. Chiede aiuto a Valmont che però nicchia. La ragazzetta è un bersaglio troppo semplice per la sua reputazione. Vuole invece conquistare una borghese (Michelle Pfeiffer) nota per il suo rigore morale. La marchesa storce il naso, e passa al piano B, cercando di fare in modo che un ragazzetto (Keanu Reeves al primo ruolo significativo) la concupisca.

I toni sono da commedia, solo nel finale si rivela che stiamo assistendo ad una tragedia che si porterà via i tre (bravissimi) interpreti principali.

The Bourne Identity

Miniserie televisiva, in due parti da un'ora e mezza l'una. Molto più fedele al romanzo originale di Robert Ludlum di quanto sia il primo episodio della serie cinematografica. Altri pregi non me ne vengono in mente, se non che qui Zurigo ci viene mostrata meglio.

La regia è di uno specialista del genere, Roger Young, reponsabile anche di molti polpettoni religiosi televisivi (quello su San Paolo, ad esempio).

Colonna sonora molto anni ottanta, nel senso peggiore del termine. La scena iniziale in cui Jason Bourne (interpretato da un improbabile Richard Chamberlain) piomba in acqua mi è sembrato un omaggio alla pubblicità dell'"uomo in ammollo" Franco Cerri - ma questo lo può apprezzare solo chi abbia una certa età:

Il ruolo che sarà di Franka Potente qui è intepretato da Jaclyn Smith (una delle Charlie's Angels nel telefilm originale) che, essendo texana con un accento bello marcato, si spaccia per canadese dal nome francofono ma che non spiccica una parola in francese pur essendo a Parigi.

Particina secondaria per Peter Vaughan, visto di recente in Funeral party, qui arruolato tra i cattivi - anche lui non esattamente in parte.

L'azione si svolge tra la Costa Azzurra, Zurigo, Parigi e New York, in un appartamento dell'Upper East Side dove Jason Bourne potrà ritrovare la sua identità - e avere uno sconto fatale con il suo mortale nemico.