Priscilla - La regina del deserto

I costumi hanno fatto strage di premi (Oscar e BAFTA, tra gli altri), il resto del film meno. In effetti sceneggiatura e regia (entrambi di Stephan Elliott) hanno una serie di alti e bassi da fare invidia alle montagne russe. Ho riso parecchio, e certe scene (come quella dove Guy Pearce drag queen esegue in playback un'aria dalla Traviata di Giuseppe Verdi in piedi sul tetto dell'autobus nel deserto australiano) sono a dir poco memorabili. Peccato che la discontinuità dell'azione, e anche un certo non saper dove andar a parare, rovinino il risultato finale.

La storia è quella di un travestito (Hugo Weaving, ben prima di diventare l'agente Smith in Matrix o Elrond ne Il signore degli anelli) che viene contattato dalla moglie, che aveva mollato anni prima per abbracciare appieno la sua carriera (e le sue confuse attrazioni sessuali) ma da cui non ha divorziato, affinché faccia uno spettacolo nel suo locale ad Alice Springs, nel mezzo dell'Australia. Visto che le cose a Sydney non gli vanno bene, non sottilizza sull'improbabilità che un suo spettacolo abbia una qualche possibilità di successo in tale ambiente, e si dà invece da fare per mettere su una compagnia, che include un anziano transessuale (Terence Stamp, meritatamente BAFTA come miglior attore) e una checca autodistruttiva (Pearce ad inizio carriera, L.A. confidential è di tre anni dopo).

Il terzetto si mette in viaggio su di un fatiscente scuolabus, battezzato Priscilla, verso l'interno, affrontando situazioni che fanno pensare ad un assurdo remake di Easy rider, anche se il lato tragico viene molto ridotto (e sarebbe stato meglio eliminarlo del tutto, che non sembra nelle corde di Elliott) e quello paradossale amplificato.

La colonna sonora è centrata su un repertorio trash pop che include roba come Go west dei Village people e I will survive di Gloria Gaynor. Gli Abba, esclusi tassativamente per tutto il viaggo, in quanto amati alla follia da Felicia (Pearce) ma odiati da Bernadette (Stamp), finiscono per riemergere trionfalmente nel finale con una (esplosiva) versione di Mamma mia.

Tutti i santi giorni

Rielaborazione di un romanzo di Simone Lenzi a cura di Paolo Virzì, in combutta con lo stesso autore e il solito Francesco Bruni, trasportato a Roma e modificato soprattutto per dare spazio a Thony (all'anagrafe Federica Victoria Caiozzo), cantautrice palermitana che canta (in inglese) gran parte della colonna sonora ed interpreta il ruolo della protagonista (mantenendo il suo nome). La sua freschezza, immediatezza e spontaneità le sono valse la meritata candidatura per il David di Donatello. Vincerlo magari sarebbe troppo, però ha mostrato di saperci fare. La qualità complessiva del film si riflette nel fatto che anche il protagonista maschile, Luca Marinelli, è stato candidato al David, come pure la canzone sui titoli di coda, dallo stesso titolo del film. Niente nomination a regia, sceneggiatura, film, dove questo lavoro, bello ma piccolino, si è scontrato con corazzate come La migliore offerta di Giuseppe Tornatore, Educazione siberiana di Gabriele Salvatores, Reality di Matteo Garrone, tanto per fare qualche nome.

La storia è quella di una coppia molto diversa che ha trovato un suo difficile equilibrio. Lei (Thony) è la scapestrata che ha messo la testa a posto. Sarebbe una brava musicista ma di un genere che non incontra (un po' alla Cat Power o Ani DiFranco), e dunque lavora alla reception di un autonoleggio. Lui (Marinelli) ha una gran passione per la cultura classica, e perciò ha trovato lavoro come portiere di notte. Non si preoccupano troppo della differenza tra le loro potenzialità e il poco a cui nei fatti possono ambire, il loro problema è che vorrebbero un figlio, che non viene. Non sono più giovanissimi, chiesa e stato non sono molto d'aiuto, e, dopo un lungo percorso, si arriva a tirare le fila del discorso.

A ben vedere, il figlio non è il vero problema (lui ammette che lo "vorrebbe", lei che non sa nemmeno bene perché lo cerca così affannosamente) ma l'equilibrio della coppia. Figlio o non figlio, pur volendosi davvero molto bene, non è facile mantenere una relazione. Bisognerà vedere se ci riusciranno. (Suggerimento: nonostante si rasenti il dramma e anche quasi la tragedia, siamo solidamente nel campo della commedia.)

Da notare la differenza con una storia simile ma narrata per il pubblico americano. La scintilla delle tensioni sarebbe probabilmente scaturita dal successo di uno dei due, lei avrebbe fatto un disco, lui avrebbe ricevuto una pressante offerta da una prestigiosa università. Ma da noi - ed è questo il tragico della vicenda - uno sviluppo di questo genere suonerebbe falso.

La migliore offerta

Il protagonista di una storia di Achille Campanile si portava dietro una borsa in cui accumulava una quantità di cose che, pensava, una volta o l'altra gli sarebbero tornate utili. Col passare del tempo la borsa diventava sempre più pesante, e il proprietario si rendeva conto di non usarne mai il contenuto. Eppure non riusciva a distaccarsi da quel fardello. Finché un giorno ebbe, come spesso capita ai personaggi di questo Autore, un lampo di imbecillità che lo salvò. Lasciò cadere la borsa e chiese a un tizio che gli stava a fianco "scusi, le è caduta questa borsa?". Il tale, pensando di essere molto astuto, disse di sì e se ne impossessò. Il nostro se ne andò via leggero e felice, lasciando al furbastro l'onere di trascinare in giro per la città la sua collezione di inutilità.

Ne La migliore offerta di Giuseppe Tornatore succede qualcosa del genere, anche se la storia non viene narrata col gusto umoristico e paradossale di Campanile, ma piuttosto come un thriller a cui viene lasciato allo spettatore, come semplice esercizio, l'incombenza di rimontare dettagli e indizi per ottenere la versione completa.

Impossibile dunque entrare nei dettagli del film, senza rovinare al possibile futuro spettatore il piacere dell'inesistente terzo tempo, quando sarà lui a costruirsi da sé lo spiegone. Restando molto sul vago, si parla di un antiquario (Geoffrey Rush) eccellente nel suo lavoro ma incapace di relazioni umane, al punto di non sapere se il suo fedele factotum, che lo segue da una vita, sia sposato o meno. Ha un solo "amico", un pittore fallito (Donald Sutherland) che gli fa da complice quando vuole ottenere, sottopagandolo, un pezzo eccellente per la sua collezione privata di ritratti femminili che, col passare degli anni, ha assunto dimensioni spaventose e valore incalcolabile. In modo bizzarro entra in contatto con una giovane donna (Sylvia Hoeks, olandese sinora ignota fuori dal suo Paese, direi) che pare avere un problema mentale simile al suo, oltre ad avere bisogno del suo aiuto per liberarsi dell'ingombrante raccolta di famiglia. Tra quelle anticaglie, ad attirare l'attenzione dell'antiquario ci sono ingranaggi di un qualche antico macchinario. Questo lo porta a consultare il terzo polo maschile del film, un esperto di meccanica (Jim Sturgess) e donnaiolo, che userà entrambi i suoi doni per rispondere alla domande che gli saranno poste.

Occorre ricordarsi che la storia è raccontata seguendo la struttura del thriller, e dunque conviene non sbilanciarsi nel trarre conclusioni prima del finale, altrimenti si corre il rischio di mal interpretare alcuni passaggi che possono sembrare debolezze di sceneggiatura o di regia. Al contrario, la sceneggiatura è molto interessante, ed è messa su schermo con gran mestiere da Tornatore.

Ottimo cast, gran cura posta in tutti i dettagli, bella colonna sonora di Ennio Morricone (anche se non la metterei tra le sue più riuscite). Tra le cose migliori dell'anno.

Potiche - La bella statuina

Potiche nasce come commedia teatrale molto anni settanta di Pierre Barillet e Jean-Pierre Grédy (che poi sono gli stessi che hanno scritto Fiore di cactus, diventata film con Walter Matthau, Ingrid Bergman e Goldie Hawn nei ruoli principali) ed è stata trasformata in film da François Ozon (sceneggiatura e regia), che ha mantenuto l'impostazione fine anni settanta operando in modo quasi maniacale su personaggi, scenari, oggetti (orribile il telefono con copertura morbidosa, ad esempio), situazioni, luci, colori, tecniche.

Ottima la scelta del cast, che vede nei ruoli principali Catherine Deneuve (oui!), Gérard Depardieu e Fabrice Luchini. Ruolo più piccolo per Judith Godrèche.

La signora Pujol (Deneuve), che a dire il vero non è una cima, ha deciso molto tempo prima dell'inizio del film di abdicare dalla vita. La passione per il marito (Luchini) è durata poco, lui ha preso le redini dell'ombrellificio di famiglia (di lei) e lei si è adattata ad una vita da nobildonna di campagna.

Succede però che le tensioni sindacali, portino il signor Pujol al tracollo fisico, e la sua signora si trova a doverlo sostituire.

Per risolvere i problemi con i dipendenti chiede la mediazione del sindaco e deputato comunista locale (Depardieu) che (sorpresa!) era stato suo amante per un breve periodo in passato. La situazione diventa sempre più intricata, con la signora Pujol, che si mantiene con la sua gentile svagatezza il motore dell'azione, contraddicendo tutti coloro che la pensavano, per l'appunto, solo una bella statuina.

Buono il ritmo del racconto, giusto un paio di momenti di stanca, colonna sonora basata principalmente su materiale d'epoca, cose come le Baccara che cantano Parlez-vous français? e i Bee Gees con More than a woman. Le musiche originali sono del fido Philippe Rombi.

Frankenweenie

Bella animazione a passo uno di Tim Burton, che riprende ed espande il suo omonimo corto di trenta anni prima. In pratica è una riscrittura del Frankenstein di Mary Shelley spostato ai nostri giorni e trasformato in giovanilistico racconto di formazione alla Disney (ma in linea con la cupezza burtoniana).

La vicenda principale ha l'attrattiva principale di avere un evidente aggancio autobiografico, e non è difficile vedere in trasparenza quella che deve essere stata l'infanzia del regista nella storia del protagonista, Victor Frankenstein, che ha una gran passione per il cinema è una gran difficoltà ad interagire con i suoi coetanei. L'incontro con la scienza, rappresentata da un insegnante bravo ma dai modi bizzarri (in originale ha la voce di Martin Landau), e la morte del suo amatissimo cane scatenano una serie di avvenimenti, che porteranno il giovane Victor a capire qualcosa di più di se stesso, del mondo dei grandi, e forse pure ad avere una miglior relazione con i suoi coetaeni, ed in particolare la ragazzina della porta accanto (che si chiama Elsa Van Helsing e ha la voce di Winona Ryder).

I due mattatori del film sono Martin Short e Catherine O'Hara. Il primo dà la voce al padre di Victor (un agente di viaggi con una opinione del suo lavoro buffamente molto elevata), al tronfio vicino (uno sciocco con ambizioni nella politica locale), e ad un compagno di scuola (Nassor, quello di famiglia ricca, che aveva il feroce Colossus come animale domestico). La seconda interpreta la madre (casalinga anni cinquanta, con la testa tendenzialmente tra le nuvole), la compagna di classe amante del paranormale dall'inquietante gatto (che un po' rassomiglia a Luna Lovegood di Harry Potter), e l'insegnante di ginnastica (dal quoziente intellettivo tendente a zero).

Il punto che mi è sembrato più interessante, è la meditazione sul rapporto tra scienza e sentire comune negli Stati Uniti, rappresentato dal buffo professore di scienze. Senza la scienza gli USA sarebbero nel terzo mondo, eppure lo scienziato americano tipico è straniero, e la popolazione ha un atteggiamento ambivalente nei confronti della scienza. Va benissimo finché produce ricchezza, ma la si guarda con sospetto quando produce dubbi. D'altro canto c'è da dire che la gente che si occupa di scienza ha spesso una incapacità di interagire con il resto del mondo che fa rizzare i capelli.

Nella cinquina degli oscar 2013 per la miglior animazione, assieme a ParaNorman, Pirati! Briganti da strapazzo, Ralph Spaccatutto, e Ribelle - The Brave. A vincere è stata la ragazzina scozzese. Piuttosto immeritatamente, a mio avviso.

I muppet nell'isola del tesoro

Sarà assuefazione, ma per me la formula vincente dei Muppet è quella del loro show televisivo. Largo spazio a Kermit e soci, e una sola star in carne ed ossa, che ha uno spazio limitato. Chissà perché le versioni cinematografiche puntano invece di più sul cast umano, con il risultato di portar via spazio e tempo ai veri protagonisti, pupazzetti di tutte le dimensioni, forme e colori.

Questo film è la riscrittura del classico di Robert Louis Stevenson, trasformato per dare spazio alla folle inventiva del team del Muppet Show. Purtroppo la parte di Jim è stata data ad un umano, a rappresentare la nostra specie sarebbe bastato invece il solo Tim Curry che interpreta egregiamente Long John Silver.

Tra le principali varianti della storia, accenno al fatto che il capitano Smollet (Kermit) ritrova sull'isola la sua amata (Miss Piggy), diventata regina di una locale tribù di cinghiali. La aveva abbandonata sull'altare, un po' alla Blues Brothers, e scopre che la porcellina è stata l'amante sia del capitano Flint (il terribile pirata che ha seppellito il tesoro) sia di Long John Silver.

Da notare anche che la nave di Smollet è infestata da topi, che hanno però regolarmente pagato il biglietto per una crociera caraibica (incluso l'intrattenimento offerto dalla band del Muppet Show - incluso Animal alla batteria).

Ribelle - The brave

Animazione Disney - Pixar tecnicamente in linea con il resto della produzione, dunque con molte luci, ma questa volta c'è pure qualche ombra di troppo. Premiarlo con l'oscar mi è parso eccessivo.

Solitamente i film Pixar risultano più sbarazzini, Ribelle sembra più una sceneggiatura Disney, anche se l'ambientazione scozzese (divertente - e a tratti poco comprensibile, a volte intenzionalmente - la parlata in originale degli attori, bellissimi i panorami) è un jolly non indifferente.

La protagonista è una ragazzina destinata a diventare regina di quattro tribù scozzesi federate. Lei però non ne ha voglia, ha una specie di sindrome di Peter Pan al femminile. Ne nasce un conflitto con la madre che lei, molto immaturamente, pensa di risolvere cambiando la genitrice, con l'aiuto di una strega. L'inghippo è che la strega è piuttosto pasticciona e con una passionaccia per gli orsi, il che porta ad un sostanziale contrattempo.

Il team di disegnatori ha fatto, come ci si può aspettare, un lavoro eccellente. Gli orsi sono disegnati con gran realismo. Nonostante questo, o forse proprio per questo, non mi hanno convinto. Sarà anche una specie di maledizione disneyana ma, dopo il mitico Baloo, non ricordo altri loro importanti orsi. E stendo un pietoso velo su Koda.

Mi è sembrato di notare una influenza di Hayao Miyazaki e dello Studio Ghibli sul come è stato gestito l'aspetto sovrannaturale della vicenda. Hanno una parte importante alcuni spiritelli dei boschi che certamente hanno le loro radici nelle favole scozzesi, ma mi sono sembrati più ispirati dal maestro giapponese, come pure la natura ambivalente del "cattivo".

Il tema principale della storia direi che è quello del libero arbitrio contrapposto al destino imposto esternamente. C'è anche un interessante aspetto di maturazione del carattere principale. La sua maturazione viene mostrata in diversi modi, il principale dei quali è il passaggio dalla soluzione infantile ai problemi (non è colpa mia!), ad una presa di coscienza più adulta (è colpa mia).

Resta però il noto della non completa stabilizzazione del personaggio. Alla ragazza, infatti, non viene presentata alcuna maniera di passare dalla condizione di figlia ad una relazione adulta svincolata dai genitori. I suoi pretendenti sono improponibili e non hanno che un minimo ruolo di contorno nella storia. Non ha amici, non ha nessuno sviluppo romantico, sembra quasi che che la soluzione proposta per la sua emancipazione di quella di passare dalla condizione di ragazza a quella di non-donna.

Un mostro a Parigi

Una delusione. La prima mezz'ora, intendo. Poi finalmente entra in scena Lucille (in originale e in inglese Vanessa Paradis, per noi Arisa) e l'atmosfera cambia radicalmente. Strano però che Bibo Bergeron (co-sceneggiatore e regista), con un decennio di esperienza nelle animazioni, abbia fatto l'errore di dare una partenza così fiacca a questo film.

Qui la versione italiana di La Seine:

È una produzione francese (il nome di Luc Besson è in cima alla lista dei produttori), che narra una storia molto parigina dell'inizio del secolo scorso.

Un paio di pasticcioni, nonostante l'opposizione dell'assistente di uno scienziato sperimentale che un po' ricorda il dottor Jekyll di Stevenson, mescolano un paio di miracolose pozioni, trasformando una pulce in un omaccione con una gran capacità musicale (a cui dà la voce in originale Mathieu Chedid, noto anche come M, in inglese Sean Lennon, in italiano Raf). Dimenticavo di notare che l'assistente è una scimma sapiente di nome Charles, che ricorda il suo parente in Pirati - Briganti da strapazzo, in entrambi i casi evidente e scherzoso omaggio a Charles Robert Darwin.

Difficile biasimare chi resta innorridito alla vista della pulce umanoide, visto che non hanno la possibilità, che a se noi viene concessa, di vedere la storia anche dal suo punto di vista. Per sua fortuna incontra Lucille, che gli dà un nome (Francœur), lo traveste da Fantasma del palcoscenico e lo nasconde nel teatro in cui è la stella incontrastata. Invisibilità che è di breve durata, che la passione musicale spinge la pulce sul palco, ravvivando notevolmente l'esibizione di Lucille, qui in versione originale:

Il cattivo della storia è il prefetto parigino (François Cluzet, Danny Huston, o Maurizio Mattioli, a seconda dei punti di vista), che vorrebbe usare la paura del "mostro" per le sue mire politiche. Una girandola di eventi farà sì che tutto finisca bene.

I più grandi di tutti

Pluto, rock band di successo nei circuiti alternativi anni novanta, si è sciolta nel nulla. Ai nostri giorni, il frontman Mao (Marco Cocci) fa il barista part time, e si arrangia in qualche modo; la bassista Sabrina (Claudia Pandolfi) è una ex-tossica che cerca di avere una relazione "normale" (con Franz, del duo Ale & Franz); Rino (Dario Cappanera - Kappa), chitarra, lavora in fabbrica; Loris (Alessandro Roja), batteria, si è sposato, ha un figlio, fa qualche lavoretto saltuario.

Quest'ultimo, un giorno, viene contattato da un ex-fan, diventato giornalista musicale grazie al patrimonio di famiglia (la madre è interpretata da Catherine Spaak, il collaboratore è Francesco Di Gesù, ovvero Frankie HI-NRG MC - particine minime per entrambi), che vuole organizzare una intervista sponsorizzata dal suo giornale, a cui dovrebbe seguire pure una serie di concerti.

Da questa premessa parte una specie di mockumentary alla This is Spinal tap di Rob Reiner, che però si mantiene più nei canoni della narrativa cinematografica canonica, seguendo prevalentemente il punto di vista del batterista e dalla sua vicenda familiare.

Il risultato è divertente, soprattutto sul lato musicale, vedasi il falso videoclip creato per l'occasione:

Regia e sceneggiatura sono di Carlo Virzì (fratello di Paolo), con l'aiuto alla scrittura di Andrea Agnello e Francesco Lagi, e proseguono sul doppio binario della narrazione quasi-documentaristica della reunion, e sul versante classico del percorso personale del batterista, che alla fine risulta essere il personaggio di cui sappiamo di più.

Direi che è proprio questa duplicità la maggior debolezza della narrazione, non arrivando a chiudere narrativamente praticamente nessuno dei filoni aperti.

Avrebbe giovato al progetto anche un diverso casting, in particolare quel maschiaccio di Sabrina mi pare troppo ingentilito nell'interpretazione della Pandolfi (che pur non è una gentil pulzella). Il batterista stesso, perno della storia, non mi convince nell'interpretazione di Roja. È un ruolo che richiede uno strano miscuglio di carisma, lentezza mentale, tendenza alla depressione, e potenzialità creativa, che non è facile da rendere. Ci avrei visto bene Valerio Mastandrea, per intendersi.

Ben scelti invece Marco Cocci, che interpreta ottimamente un cantante alla Piero Pelù, e Dario Cappanera, aiutato anche dal fatto che il personaggio è molto vicino al suo mondo. Gli screzi fra i due fanno ancora pensare ai Litfiba e alle tensioni tra Ghigo e Pelù.

Divertenti gli accenni ai veri protagonisti del mondo musicale italiano nel corso del film, con micropartecipazioni sui titoli di coda di Baustelle, Litfiba, Irene Grandi, Vasco Rossi, e Tre allegri ragazzi morti.

Rumori fuori scena

Direi che il periodo d'oro alla regia di Peter Bogdanovich è stato nei primi anni settanta, con L'ultimo spettacolo, Ma papà ti manda sola? e Paper moon. Però, sia pure con alterne vicende, la sua carriera è continuata imperterrita fino ad oggi. Nel bel mezzo della sua produzione, si trova questo titolo, una versione cinematografica del testo omonimo (in originale Noises off) di Michael Frayn. Teatro nel teatro adattato per il cinema, e portato oltreoceano dall'Inghilterra, dunque.

La storia viene narrata seguendo il punto di vista di un regista teatrale (Michael Caine) angosciato da come andrà a finire la prima a Broadway di un suo spettacolo (Titolato Nothing on - Niente addosso), una farsa piuttosto greve (quasi una pochade) ambientata nella casa di uno scrittore inglese (interpretato da un attore americano, interpretato a sua volta Christopher Reeve) che, per ragioni fiscali, si è trasferito in Spagna.

Prima che inizi l'azione sul palco, lui abbandona il teatro, e ci racconta da dove nasce la sua sicurezza che la rappresentazione sia una catastrofe, con un lungo flash back che rievoca il tour in provincia che avrebbe dovuto rodare lo spettacolo, ma che in realtà lo ha usurato.

Vediamo quindi più volte il primo atto di Nothing on, seguendo il deterioramento della piece, che si trasforma autonomamente da farsa in commedia slapstick, con gli interpreti che si fanno feroci scherzi, o che cercano di aggiustare alla meno peggio lo svolgimento dell'azione. Sul finale arriviamo quasi al teatro dell'assurdo, con un personaggio che inesplicabilmente (almeno per gli spettatori teatrali) si triplica nel corso dell'azione.

Colpo di scena finale, speculare a Per favore, non toccate le vecchiette, con lieto fine d'ordinanza.

Paper moon - Luna di carta

Lo si può vedere come un tipico buddy movie. Siamo negli anni trenta nel mid-west americano, Moses (Ryan O'Neal) è un imbroglioncello che campa primariamente vendendo bibbie a prezzi assurdi a fresche vedove. Si trova costretto ad accompagnarsi a Addie (Tatum O'Neal) che inizialmente sembra solo un peso, ma poi diventa parte fondamentale della combriccola.

Però è anche un film sulla paternità, visto che Moses è forse padre di Addie - dubbio che viene rinfancato dal fatto che nella realtà Ryan è effettivamente il padre di Tatum, o comunque su una relazione di quel tipo.

È anche un film sulla grande depressione americana (vedi Furore), ma è un tema che viene affrontato lateralmente, più lasciando intendere che parlandone direttamente.

Quel che succede è che Moses passa al funerale di una sua "amica", e gli viene scodellato la recente orfanella, alla anagrafe di nove anni, ma con un vissuto tale da renderla usa alle cose della vita. Al punto che, usata da Moses come pretesto per un ricatto, riesce a ribaltare la posizione a suo vantaggio, costringendo Moses a scarrozzarsela in giro per il Paese.

Eccellente l'interpretazione della giovane O'Neal, che otterrà l'oscar come co-protagonista (anche se, a ben vedere, il suo ruolo sarebbe da protagonista) e pure il David come migliore attrice straniera.

Caso vuole che La stangata, con Paul Newman e Robert Redford in una situazione simile a quella dei due O'Neal, sia dello stesso anno.

L'ultimo spettacolo

Peter Bogdanovich è tornato al lavoro come regista, con ben due film, uno drammatico che dovrebbe uscire quest'anno, e una commedia prevista per il 2014. Il suo periodo d'oro sono stati gli anni settanta, e L'ultimo spettacolo il suo titolo più noto. Ai tempi fece un grande scalpore un po' in tutto il mondo, da noi un cantautore cinefilo come Roberto Vecchioni diede ad una tra le sue più belle canzoni lo stesso titolo di questo film.

La polvere (ne gira molta nel film) posata sulla pellicola nel corso degli anni rende la visione meno affascinante, ma comunque ancora interessante.

Al centro della narrazione c'è un periodo storico, i primi anni cinquanta, visti dal regista come momento di passaggio tra un passato quasi mitologico e un futuro che lascia aspettare poco di buono. La vecchia guardia è rappresentata principalmente da Sam, proprietario dei luoghi di intrattenimento del posto (un decrepito paesino nel nulla texano), una trattoria, una fatiscente sala da biliardo, un cinemino malandato. Interpretazione considerata da oscar per Ben Johnson (veterano del western, basti ricordare Il mucchio selvaggio, di un paio d'anni precedente) di un personaggio che vive nel passato, la cui scomparsa sarà il fattore principale del cambiamento, che si risolverà però in un falso movimento (tanto per citare Wim Wenders che, in Paris, Texas, passerà anni dopo nelle vicinanze).

Tra i giovani spicca il personaggio di Sonny (Timothy Bottoms non al suo meglio, e spaventosamente simile a George W. Bush), ragazzetto svogliato, non sa bene che fare della sua vita, finirà probabilmente per diventare un Sam in piccolo. Amico di Duane (Jeff Bridges, il dude al suo primo ruolo importante, nominato all'oscar), figaccione locale, di cui invidia la fidanzata, al cui confronto la sua non regge, e dunque la molla, per diventar l'amante della moglie dell'allenatore del college, una povera donna disperata (Cloris Leachman, oscar per questa caratterizzazione drammatica, pochi anni dopo dimostrerà la sua verve comica in Frankestein Junior, come la spaventevole Frau Blücher) che mollerà rudemente quando la (ormai ex) fidanzata (Cybill Shepherd - primo film per lei, e una tra le sue cose migliori) del suo amico diventa disponibile.

Curioso che il film sia girato in tutto e per tutto come se fosse una pellicola anni cinquanta, a partire dal bianco e nero sgranato. Differenza sostanziale, sesso e nudità, la cui rappresentazione esplicita non avrebbe passato i ferrei limiti di quegli anni.

Ma papà ti manda sola?

Il titolo originale (What's up, Doc?) chiarisce immediatamente chi sia uno degli illustri antenati di questo film di Peter Bogdanovich (prodotto, diretto, e suo anche il soggetto): il perfido Bugs Bunny, uno dei conigli più distruttivi nella storia del cartone animato. Considerando che l'idea di Bugs è nata da Accadde una notte di Frank Capra, in un certo senso il cerchio si chiude.

C'è poi Susanna di Howard Hawks, citato esplicitamente e ricalcato in una delle trame fondamentali, e un po' tutto il filone delle screwball comedy.

Aggiungerei quindi un riferimento alle comiche in bianco e nero (torte di panna in faccia; protagonista appesa ad un cornicione; poliziotti, pompieri, giudici incapaci e disastrosi; persino gli operai che cercano di attraversare una strada portando un vetro mentre è in corso un folle inseguimento) e uno spirito distruttivo alla Blake Edwards.

E non si può evitare nemmeno di ricordare il riferimento alle commedie musicali, visto che la protagonista è nientemeno che Barbra Streisand, che canta sia fuori scena (i titoli di testa e coda sono su You're the top di Cole Porter - in coda li canta in duetto con il protagonista maschile, Ryan O'Neal) che in scena (una versione da brivido di As time goes by).

La struttura principale, dicevo, è data da una vicenda simile a quella di Susanna. Lui (O'Neal) è molto nerd (qui nella versione insegnante di musica), fidanzato a Madeline Kahn, nel ruolo che le viene benissimo (vedasi Frankenstein Junior) della donna dispotica che comanda a bacchetta il partner. Lei (la Streisand) si innamora a prima vista di Lui, e si mette a tampinarlo senza requie. Lui non ne vuole sapere, anche perché non passa minuto in sua presenza senza che succeda una qualche, sia pur piccola, sciagura.

In parallelo scorre una complicata storia di valige scambiate, contenenti gioielli rubati, documenti sottratti al governo, pietre sonore, e biancheria, che si va a sovrapporre al concorso cui partecipa il professore di musica, arbitrato da Austin Pendleton (avvocato balbuziente in Mio cugino Vincenzo).

Lunga serie di traversie, con colpi di scena a non finire. Lieto fine assicurato per (quasi) tutti.

Il cecchino

Prima di andarlo a vedere ho letto distrattamente qualche recensione, di cui mi è rimasto in mente ben poco, se non che si tratterebbe di un "polar". Facendo il gioco delle associazioni, a polar io avrei risposto Roald Amundsen (o tenda rossa, se i nomi di persona fossero banditi), ma ero fuori strada.

Dopo la visione, mi sono informato. Per polar si intende il connubio tra genere poliziesco e noir - per cui direi che lo si pronuncia con la a aperta, molto aperta, polaaar, tipo rana dalla bocca larga (qu'est-ce que tu manges?). Ma di noir (nuaaar) ne Il cecchino ce n'è davvero pochino, lo direi piuttosto un poliziottesco confuso. Il pasticcio direi che è dovuto alla tensione tra la regia (Michele Placido) che, giustamente, fa quello che sa fare bene (vedasi Romanzo criminale) e la sceneggiatura (gli esordienti Cédric Melon e Denis Brusseaux) che si fa prendere dall'emozione e stipa in un ora e mezza abbastanza temi da riempire una serie televisiva à la Ventiquattro.

Non posso entrare nei dettagli della storia, per non rovinare la sorpresa all'inconsapevole lettore che voglia tramutarsi a breve in spettatore, ma posso dire tranquillamente che inizialmente la partita viene giocata tra il commissario Mattei (Daniel Auteuil) e un misterioso tiratore (Mathieu Kassovitz) coinvolto in una sanguinosa rapina. Mattei tende una trappola alla banda di Nico (Luca Argentero), noto rapinatore di banche, ma viene colto in contropiede dalla copertura militare offerta dall'inatteso tiratore. E questo sarebbe un poliziottesco, con tutte le complicazioni del caso, Nico ferito, malloppo che viene congelato in attesa di tempi migliori, polizia sulle tracce dei malviventi. Anche l'apertura di un secondo fronte resta nei canoni del genere. Qualcuno vuole rapinare i rapinatori, aiutando la polizia. Solo che questo qualcuno è un sadico torturatore di belle fanciulle. Inoltre gli due altri poli della discordia hanno un ulteriore motivo di tensione, che ha radici addirittura nella guerra in Afghanistan. Meglio sarebbe stato snellire la trama, e approfondire i personaggi.

Placido regista (che gioca bene con i colori e la loro assenza) non rinuncia ha ritagliarsi un piccolo spazio come attore (si fa affiancare niente meno che da Fanny Ardant, anche se per solo pochi secondi), e riesce a piazzare anche la figlia Violante. Che se la cava tutto sommato bene.

Nella casa

Stava per sfuggirmi, ma Kermit su Sputailrospo l'ha citato attirando la mia attenzione prima che fosse troppo tardi. Che i film al cinema sono come foglie sugli alberi d'autunno, oggi sono in cartellone, domani chissà.

Difficile raccontare la trama, perché non saprei dire con certezza cosa accada veramente e cosa sia fantasia dei personaggi. La sceneggiatura e regia di François Ozon è basata su una piece teatrale di Juan Mayorga (Il ragazzo dell'ultimo banco) che pare sia ancora più complessa e sfuggente.

Abbiamo un professore di francese di un liceo sperimentale nei dintorni di Parigi (Fabrice Luchini) che sembra averne abbastanza del suo lavoro. La moglie (Kristin Scott Thomas) gestisce una galleria d'arte moderna in bilico tra un sex-shop e la possibilità di trasformarsi in un bazar di prodotti etnici. La crisi aleggia sui due, quando Claude, un alunno di Lui, si mostra inaspettatamente superiore alla media della classe, scrivendo un tema con una minima struttura ma che finisce per violare le minimali regole della privacy, indugiando sulle vicende della famiglia di un suo amico. In particolare Claude racconta con una certa sfrontatezza della madre dell'amico (Emmanuelle Seigner) facendo pensare ad una attrazione sessuale nei suoi confronti. Le cose però si complicano passo dopo passo, e si capisce sempre meno chi sia ad ordire la trama e a che cosa si stia mirando. Se poi una mira c'è.

Mi pare che il punto di Ozon sia il rapporto tra chi crea una storia e chi ne fruisce, il rapporto tra fantasia e realtà, e come sia difficile - e necessario - tener disgiunti questi due mondi. Innumerevoli gli spunti che si possono cogliere dal film, ad esempio l'insegnante si chiama Germain Germain (Humbert Humbert è proprio dietro l'angolo) e lavora al liceo Gustave Flaubert. La coppia va al cinema, a vedere Matching point di Woody Allen (si può notare come Claude, come Chris del film di Allen, sia un elemento estraneo, di casta inferiore, che entra di soppiatto in un mondo non suo). La narrazione pseudo-documentaristica, anche se ottenuta con mezzi diametralmente opposti, mi ha fatto pensare ad Haneke (e in particolare a Niente da nascondere), e forse non è un caso che Ozon usi un tema tipico di Haneke, quale il trasformare la debolezza di un personaggio in un suo punto di forza.

Bella la colonna sonora minimalista di Philippe Rombi, che si integra ottimamente nella narrazione cinematografica di Ozon.