Kung fu panda 3

La saga di Po, panda sovrappeso e dal comprendonio limitato, giunge alla sua terza puntata. E il problema degli sceneggiatori è sempre lo stesso, che fargli fare adesso? Succede così che l'avversario di turno, Kai, uno yak di pessimo carattere, sia addirittura un essere sovrumano. Kai era in quello che occhio e croce sembrerebbe una specie di regno dell'oltretomba (scarsamente) abitato da chi è stato un personaggio ragguardevole sulla Terra. Ma lui non si trova bene lì, anche perché ci è stato spedito contro la sua volontà da Oogway, la tartaruga che in KFP 1 ha scelto Po come Guerriero Dragone (*). Sia come sia, sconfigge tutti i maestri che incontra nel Regno degli Spiriti, ne ruba l'energia vitale (**) e in questo modo riesce a tornare nel nostro mondo.

Il suo obiettivo è vendicarsi di Oogway, distruggendo tutto quello che ha fatto, ivi inclusi Po e i suoi compagni di combattimento, i cinque cicloni.

La via che dovrà seguire Po per opporsi a questo folle piano è piuttosto tortuosa, e passerà per la scoperta del suo vero padre, un recondito villaggio montano in cui si sono ritirati tutti i panda, la scoperta del suo vero essere, inclusa l'accettazione della sua bizzarra situazione familiare, e dettagli associati.

A mio gusto, la parte migliore del film è quella in cui Po deve organizzare una resistenza contro Kai, ma può contare solo su Tigre e una popolazione di pacioccosi panda che sembrano del tutto inadatti a qualunque forma di combattimento. Che poi mi ha ricordato molto I tre amigos! di John Landis, di cui ho il DVD da qualche parte, dovrò rivedermelo.

Doppiaggio italiano dimenticabile, in originale il supercattivo Kai era interpretato da J.K. Simmons.

(*) In originale inglese Dragon Warrior. Io preferirei chiamarlo Guerriero Drago.
(**) Il "chi", da pronunciarsi con la c dolce, "ci".

Into darkness - Star Trek

Dodicesimo film della serie, secondo a partire dal reboot del 2009, di cui è il seguito naturale, essendo situato un annetto dopo i fatti narrati, prima di quanto è stato raccontato dalla serie televisiva e poi dai dieci capitoli della saga cinematografica.

Dopo una simpatica introduzione che ci mostra quanto il capitano James T. Kirk (Chris Pine) sia inventivo e sprezzante delle regole, in opposizione al suo primo ufficiale vulcaniano Spock (Zachary Quinto), dal sangue freddo e logica impressionante, entriamo nel vivo del racconto. Che si rivela essere un quasi-remake di Star Trek II: L'ira di Khan, dove il ruolo di Khan è coperto da niente meno che Benedict Cumberbatch. Ora, i trekker sanno che Khan ha un pesante fardello nel suo passato, e può dunque essere tranquillamente qualificato come cattivo senza che nemmeno lui se ne abbia a male, c'è però da dire che chi cerca di manipolarlo è anche peggio di lui, ben sapendo a cosa si va incontro. Non per nulla in quelle che è probabilmente la sua battuta chiave, Khan dice che avrebbero dovuto lasciarlo dormire (*).

Bravo J.J. Abrams a mantenere lo spirito della serie nonostante i molti cambiamenti - in particolare, anche se non si fa vedere praticamente niente per non perdersi il pubblico più giovane, risulta chiaro che il sesso è un hobby molto praticato dall'equipaggio dell'Enterprise. Ci sono molti dettagli tecnologici che mi hanno lasciato perplesso, tra cui la facilità e il raggio di teletrasporto e a anche dei viaggi spaziali in genere, molto cresciuta rispetto allo standard, di per se già molto generoso, della serie originale.

Breve apparizione di Leonard Nimoy (**) nel ruolo dell'impossibile Spock anziano che è tornato indietro del tempo e che viene consultato da Spock giovane per avere qualche informazione aggiuntiva su Khan.

(*) Lo status di Khan è sempre stato controverso. La prima volta che lo hanno beccato, non sapendo che farne lo hanno ibernato, lui e i suoi accoliti, passando la patata bollente a chi segue.
(**) La sua ultima, un commosso ricordo.

Star wars: Episodio VII - Il risveglio della Forza

Bravo J.J. Abrams. In questo film c'è tutto quello che potevo aspettarmi da un nuovo episodio di Guerre stellari che riprendesse il filo dal Ritorno dello Jedi, c'è (*). E manca anche tutto quello che potevo temere dopo lo sconquasso operato dalla trilogia prequel (**). Sorprendente il look and feel fine anni settanta che la produzione (***) ha realizzato. Se non fosse che i protagonisti originali sono presenti, hanno una trentina di anni in più, e tutto questo è giustificato dallo sviluppo della storia, verrebbe da pensare che non sia passato che poco tempo dall'episodio VI. Anche se la qualità degli effetti speciali è lì per ricordarci che il tempo non è passato invano.

Fondamentalmente si tratta di un remake dei primi tre episodi originali (°), con particolare enfasi sulla prima parte, trattando della scoperta che la Forza si è annidata in un nuovo personaggio. Il bello della sceneggiatura è che riesce a combinare la presenza di Han Solo (Harrison Ford), la principessa (°°) Leia Organa (Carrie Fisher) e Luke Skywalker (Mark Hamill) con i nuovi, senza che i primi, pur sollevando mormorii di approvazione nel pubblico al loro apparire (°°°), non tolgano troppo spazio ai secondi, che si capisce soppianteranno rapidamente i beniamini del passato. Altro punto notevole della scrittura, è che gli elementi originali sono modificati e rimescolati in modo da non eccedere nel déjà vu, lasciandoci qualche possibilità di sorpresa ad ogni passo.

Abbiamo dunque il miglior pilota della resistenza, Poe Dameron (Oscar Isaac), che viene mandato alla ricerca di una traccia che potrebbe portare a Luke Skywalker, partito anni prima in esilio volontario, in seguito a un suo catastrofico fallimento nel progetto di formare nuovi Jedi. Poe giunge dunque in un pianeta desolato, dove incontra Lor San Tekka (Max von Sydow), che sembrerebbe avere cose interessanti da dire ma che non ha modo di far nulla, perché arrivano i cattivi, che ora si fanno chiamare Primo Ordine, e spaccano tutto. Facciamo subito conoscenza con un paio di individui notevoli nello schieramento delle forze del male, un assalitore (#) che assumerà il nome di Finn (John Boyega) e Kylo Ren (Adam Driver) che sembra ossessionato dalla figura di Darth Vater (##) al punto da indossare un fastidioso elmetto che complica la vita a lui e a chi gli sta attorno senza averne alcuna necessità.

Scopriremo più avanti due altre figure eminenti nel lato oscuro, il generale Hux (Domhnall Gleeson), solito militare ottuso che pensa di sconfiggere la resistenza con l'uso della tecnologia, e il mostruoso Leader Supremo Snoke (###) che sembra saperla lunga sulla Forza ma che, come sempre accade, non la riesce a dominare come gli piacerebbe.

Sull'altro lato della barricata facciamo la conoscienza di BB-8, robottino destinato a rimpiazzare nei nostri cuori R2-D2 (§), che viaggiava con Poe, ma che finisce nelle mani di Rey (Daisy Ridley §§), che campa raccattando rottami e aspettando l'altamente improbabile ritorno dei suoi genitori.

Quello che succede poi è abbastanza ovvio. Tutti cercano il non più giovane Luke, ci si incontra, si spiegano cose (§§§), si introduce una miriade di personaggi secondari, si infittisce l'intreccio.

Tra le cose peggiori, una nuova Morte Nera. La base Starkiller, ovviamente ancora più grossa e potente, al punto da occupare un intero pianeta. Il cui scopo principale è quello di permettere di replicare quello che successe ai suoi antenati.

(*) Esclusi gli Ewok. E per questo sia resa lode alla Forza.
(**) Compreso Jar Jar Binks. Lodi ancora più elevate alla Forza.
(***) Walt Disney. Per fortuna i tempi sono passati, e hanno imparato che non possono martellare tutto a loro immagine e somiglianza.
(°) Da IV a VI, secondo la nuova numerazione.
(°°) Ups! Volevo dire generale.
(°°°) Stessa reazione a tutte le feature classiche della serie, lo spiegone volante introduttivo, l'attacco della colonna sonora di John Williams, l'apparizione del Millennium Falcon, eccetera eccetera.
(#) Stormtrooper in originale. Quelli costretti in una armatura che li rende incapaci di muoversi a dovere e, forse per questo, hanno una pessima mira. La mise non è cambiata, la mira sembra leggermente migliorata.
(##) Noto anche come Dart Fener. Insomma, Anakin Skywalker vestito tutto di nero.
(###) Generato al computer partendo da Andy Serkis, che ancora una volta si dimostra maestro in questo particolare modo di interpretare un personaggio.
(§) A noi noto anche come C1-P8.
(§§) Che mi è sembrata molto Keira Knightley-esca.
(§§§) L'abbondanza di spiegoni, in particolare nella seconda parte del film, avrebbe dovuto essere arginata con più decisione.

Hunger games: Il canto della rivolta - Parte 2

E si è arrivati finalmente alla resa dei conti. Quattro film da due ore sono veramente eccessivi, non per un problema di scrittura iniziale (*) quanto delle decisioni della produzione, che hanno appiattito oltremodo la narrazione, lasciando gran parte dei dettagli come esercizio al quale lo spettatore interessato potrà trovare soluzione nell'opera originale. Secondo me, si sarebbe potuto veicolare lo stesso messaggio in colpo solo, due ore di film, la prima dedicata ai due Hunger games (il capitolo iniziale e La ragazza di fuoco), la seconda alla rivolta (questo film e il capitolo precedente). Magari due film, ma non di più.

La guerra tra la Capitol City del presidente Snow (Donald Sutherland) e il tredicesimo distretto della presidente Coin (Julianne Moore) è al culmine. Katniss Everdeen (Jennifer Lawrence) è diventata un simbolo, il Mockingjay (**) del titolo originale, un uccello geneticamente ingegnerizzato che ripete le canzonette che sente, che entrambe le parti usano a loro gusto.

Le cose vanno anche peggio per Katniss sul lato sentimentale. Peeta (Josh Hutcherson) è stato condizionato da Snow per ammazzarla, Gale (Liam Hemsworth) sembra trovare eccessivo piacere nel lato oscuro della forza, utile nella guerra, poco attraente in una relazione romantica.

Per non farci mancare niente, Katniss forza la mano a Coin e decide di partire verso Capitol City per uccidere Snow, viene affiancata da una compagnia in stile Signore degli Anelli che si troverà in situazioni più o meno raccapriccianti fino a giungere all'horror tipo Resident evil, il tutto in uno scenario da Hunger games, visto che la follia di Snow è giunta al punto da trasformare anche la guerra in un gioco.

Finale sottotono, anche per l'improvvisa dipartita di Philip Seymour Hoffman. Il suo personaggio, Plutarch Heavensbee, ha un peso notevole nel decidere il nuovo assetto di Panem, e gli sceneggiatori si sono arrampicati sugli specchi per gestire la situazione. Abbiamo così quella che sarebbe dovuta essere una scena a due chiave nella storia, in cui lui chiariva a Katniss il senso di quello che era accaduto, viene resa con Woody Harrelson, nei panni dell'alcolizzato Haymitch, che legge svogliatamente un biglietto.

(*) Non ho letto i romanzi di Suzanne Collins, ma persona degna di fede (Sgrunt aka Marco il bibliofilo) testimonia a suo vantaggio.
(**) In italiano ghiandaia imitatrice.

Hunger games: Il canto della rivolta - Parte 1

Le lungaggini di questo episodio mi fanno pensare che il terzo libro della serie scritta da Suzanne Collins sia stato diviso in due parti per motivi meramente economici. La conversione per il cinema è affidata ora a Peter Craig e Danny Strong, come a dire che non è poi così importante chi scrive la sceneggiatura, basta che si seguano le linee generali indicate dai romanzi. La regia resta a Francis Lawrence, che continua nel suo lavoro, non molto personale ma nemmeno disprezzabile.

Se le differenze tra il primo Hunger games e il suo seguito mi sono sembrate più nell'ambito del volume che di sostanza, qui si opera una netta cesura. I giochi sono finiti, ora si passa alla guerra.

Scopriamo così che il presidente Snow (Donald Sutherland) deve fare i conti con la presidente Alma Coin (Julianne Moore), che finora era rimasta nascosta con i suoi ribelli in attesa del momento propizio per attaccare Capitol City. Scopriamo anche che Plutarch Heavensbee (Philip Seymour Hoffman) era un raffinato doppiogiochista, e che praticamente tutti erano al corrente che stava per scoppiare la guerra, esclusa Katniss Everdeen (Jennifer Lawrence) e Peeta Mellark (Josh Hutcherson). Anche se Snow sembra essere in una posizione di forza, intuiamo che la Coin ha dalla sua una spinta che le potrebbe permettere di fare il colpaccio. Ma l'azione si interrompe a metà ed è dunque giocoforza attendere la parte II prima di tirare le conseguenze.

La base di Alma Coin mi ha fatto pensare a Metropolis. Il paragone è ovvio, Snow a capo dei privilegiati, Coin con gli oppressi, costretti anche ad evitare la luce del giorno. Anche se mi pare che la contrapposizione tra Snow e Coin mi pare più apparente che di sostanza. La freddezza della Coin è glaciale, quanto quella del suo avversario, l'uso della propaganda tra le due parti è speculare.

I problemi di Katniss diventano sempre più complicati. Le viene il dubbio che Gale Hawthorne (Liam Hemsworth) abbia qualche lato oscuro non proprio in linea con la sua visione del mondo. Si ricordi infatti che a Katniss non piace per niente la piega bellica che ha preso la sua esistenza, mentre Gale sembra divertirsi alquanto con i gadget militari che gli vengono messi a disposizione. A proposito, Beetee (Jeffrey Wright) si è trasformato in una specie di Q della saga di 007, e ha fornito a Katniss arco e frecce che farebbero la felicità di John Rambo.

Hunger games: La ragazza di fuoco

Rispetto al primo episodio raddoppia il budget e cambia completamente la cabina di comando, con la regia che viene affidata a Francis Lawrence, e Suzanne Collins che lascia la cura sceneggiatura a Simon Beaufoy e Michael Arndt. Il cambio di regia si vede, spariscono d'incanto le pretese artistiche e l'abuso di camera a mano, quello di scrittura no. I due titolatissimi responsabili si saranno presi la paccata di soldi stabilita e avranno generato il testo che la produzione si aspettava.

Il risultato è curioso, sembra di assistere al sequel di un qualunque blockbuster dalla sceneggiatura irrilevante. In pratica nelle due ore e mezza di questa volta succede quasi lo stesso della volta precedente, solo di più. Katniss Everdeen (Jennifer Lawrence) ha gli stessi problemi di cuore, dovendo gestire un amoretto che non può essere rivelato, Gale (Liam Hemsworth), e fingere per le masse di amare Peeta (Josh Hutcherson), adesso però si mira addirittura all'immagine della famigliola felice. Katniss e Peter dovranno partecipare ad una nuova edizione del truculento reality, ma per avversari avranno truculenti sopravvissuti dalle precedenti annate. Il campo di battaglia sarà molto più letale, eccetera.

Le figure al contorno restano le stesse e fanno le stesse cose. Mi hanno divertito come prima Stanley Tucci e Elizabeth Banks, e come prima m'è sembrato irrilevante Woody Harrelson. Continua ad essere sprecato Donald Sutherland nel ruolo del crudele presidente. A gestire i giochi arriva Plutarch Heavensbee, ed è un piacere vedere Philip Seymour Hoffman, sprecato anche lui, ma almeno Sutherland per qualche minuto non deve recitare da solo.

Utili alla storia sono solo pochi minuti nel corso dell'azione, che spiegano come l'equilibrio della presunta repubblica di Panem, gestita in realtà come un impero, un frullato tra la classicità romana, ancien régime alla Re Sole, e quello dei Sith di Guerre Stellari (*), sia molto instabile, e ci si aspetti un suo crollo da un momento all'altro. Da una parte il presidente Snow fa di tutto per evitare una nuova crisi, dall'altra i ribelli sono in cerca di un simbolo per scatenare lo scontro. E dunque entrambe le parti vogliono usare Katniss per i loro scopi.

(*) Vedasi i pacificatori, che qui risultano molto simili agli stormtrooper imperiali immaginati da George Lucas, anche se sembrano avere una miglior mira.

Hunger games

Mescolando accuratamente Battle royale (2000), The Truman show (1998) e Rollerball (1975 *), si ottiene il film che ha contribuito (**) a far diventare Jennifer Lawrence l'attrice più pagata al mondo.

Qui interpreta Katniss Everdeen, una ragazzetta che, in un futuro distopico, si vede costretta a partecipare ad una gara al massacro organizzata da un folle governo autoritario guidato dal presidente Snow (Donald Sutherland). Questi giochi non sono poi molto dissimili da un normale reality, se non fosse che i partecipanti devono eliminare gli avversari in senso letterale.

Contrariamente a The Truman show, il gestore dei giochi (Wes Bentley) ha di interessante solo l'elaborata barba, merita più attenzione il conduttore dello spettacolo Caesar Flickerman (Stanley Tucci), a volte affiancato da Claudius Templesmith (Toby Jones). I molti personaggi dai nomi romani potrebbe essere indice della follia del presidente o dell'intero sistema politico che, per nascondere la propria pochezza culturale, scimmiotta un ripescaggio della classicità. O forse il problema è in Suzanne Collins (***).

La giovane Katniss ha anche problemi familiari e di cuore, avendo lasciato a casa il moroso (Liam Hemsworth) e trovandosi in una situazione ambigua con Peeta (Josh Hutcherson) che finisce con lei a giocare a chi sopravvive più a lungo.

Ben poco memorabile Woody Harrelson, nel ruolo del preparatore dei due giovani disgraziati alla carneficina, molto meglio Elizabeth Banks, che interpreta la pazza che li accompagna durante lo sviluppo del programma. Scarsa la regia di Gary Ross, che spreca un soggetto che dopotutto non è male, ci sono almeno un paio di momenti emozionanti, e un budget che avrebbe fatto la felicità di qualcuno più capace.

(*) Per chi volesse farsi del male, c'è il remake del 2002.
(**) Un gelido inverno (2010), che pure le è valso una nomination all'Oscar, non ha ottenuto una gran diffusione. Poi c'è stato prequel/reboot di X-Men (2011), e quindi Silver lining playbook (2012) che le è portato l'Oscar. Nel 2013, con American hustle, ha un'altra nomination (prima come non protagonista), e quella per Joy è cosa recente.
(***) Che ha scritto la serie di romanzi young-adult e ha partecipato alla stesura della sceneggiatura.

Brooklyn

Anni cinquanta. Eilis (Saoirse Ronan), una ragazzina sveglia e sensibile, è un pesce fuor d'acqua nel paesino irlandese in cui vive. Per sua fortuna sua sorella riesce a trovargli un appoggio americano, che si traduce in un visto di ingresso negli USA, un alloggio e un lavoro a Brooklyn.

Il risultato è che ora Eilis è un pesce fuor d'acqua a New York. Non conosce nessuno, ha una fortissima nostaglia di casa e della sua famiglia, non riesce a vedere un senso nella sua vita. Poi però incontra Tony (Emory Cohen) un ragazzetto italo-americano (*) affascinato dalle donne irlandesi in generale e da Eilis in particolare, e le cose cambiano. Tutto sembra filare per il meglio, simpatico Tony, simpatica la famiglia, che ha il suo improbabile quanto divertente punto di riferimento nel più piccolo della tribù, Frankie (James DiGiacomo), quando arriva una brutta notizia dall'Irlanda che spinge Eilis a tornare a frettolosamente casa.

Eilis ha tutte le intenzioni di restare in Irlanda il meno possibile, ma una cosa tira l'altra, i tempi si allungano, conosce un bravo ragazzotto (Domhnall Gleeson), trova un lavoro che le piace, e finisce che si trova tirata da due forze opposte. Vincerà il richiamo delle sue radici, o l'attrazione del nuovo mondo?

Gran parte del peso dell'azione è sulle spalle di Saoirse Ronan, che ha fatto un bel po' di strada da Espiazione, già bravissima allora, ma era una bambina, qui è una giovane donna capace di veicolare sentimenti con un semplice sguardo.

La sceneggiatura, basata sul romanzo di Colm Tóibín, è firmata da Nick Hornby, bravo come al solito a dare spessore anche a personaggi secondari, grazie anche alla regia di John Crowley. La adeguata colonna sonora è scritta da Michael Brook.

(*) L'impegno di Cohen nel ruolo è ammirevole, il risultato mi ha lasciato qualche dubbio. Possibile che non siano riusciti a trovare qualcuno di origine italiana adeguato al ruolo?

Regali da uno sconosciuto - The gift

Robyn (Rebecca Hall) e Simon (Jason Bateman) si trasferiscono in California, seguendo una offerta di lavoro per lui. Si intuisce una tensione sotterranea, ma i due sembrano affiatati. Scopriamo poi che lei ha avuto una gravidanza finita male che l'ha scombussolata niente male, e che lo spostamento serve anche per allontanarla dai ricordi di Chicago. Inoltre, per lui è un riavvicinamento ai luoghi dell'infanzia.

A far da detonatore appare Gordon (Joel Edgerton) detto Gordo (*), compagno di scuola di Simon ai tempi delle superiori. Nonostante che la coppia sia freddamente gentile con lui, Gordon non se ne dà per inteso e li tampina ripetutamente, sommergendoli di attenzioni e piccoli regali. A Robyn non dispiace, Simon aumenta la sua freddezza, dice di ricordarsi poco o niente di lui, gli viene in mente un altro soprannome che gli avevano affibbiato ai tempi, Weirdo (**), e sostiene che Gordon li ha presi di mira perché avrebbe il folle sogno di portargli via Robyn, la casa, la sua vita.

Gran parte dell'azione è vista seguendo il punto di vista di Robyn, che si trova nella situazione di dover capire quale sia il vero legame tra Simon e Gordon, nascosto da entrambi.

Trattasi del debutto alla regia di Joel Edgerton, dopo essersi fatto un nome al reparto scrittura (***) e soprattutto come attore. Si resta all'interno dei canoni del thriller, anche se vengono inserite idee che trascendono il film di genere, quale uno studio psicologico, seppur non troppo approfondito, del fenomeno del bullismo. Parlare del dilemma di come possa una persona ottenere giustizia per un torto subito quando non ha la forza di far valere i propri diritti, vuol dire tirare in ballo Michael Haneke, e mi sembra proprio che Edgerton faccia riferimento a Niente da nascondere.

A mio gusto, storia perde qualche punto per aver costruito il personaggio di Gordon più pensando alle necessità del genere che a quelle della verosimiglianza. A tratti mi pare addirittura che sia tratteggiato come un genio del male alla Keyser Söze (°). Avrei preferito un suo sviluppo più lineare, lasciando la complessità al rapporto tra Simon e Robyn.

Il film rivaleggia con Un pesce di nome Wanda (1988) per la richiesta peggio riuscita di scuse. Crichton la metteva sul versante comico, qui siamo sul drammatico.

Bella la colonna sonora di Danny Bensi e Saunder Jurriaans.

(*) Che in spagnolo significa grasso.
(**) Che era il primo titolo della sceneggiatura, da weird, molto strano.
(***) Suo il racconto originale da cui è stato sviluppato The rover.
(°) I soliti sospetti.

Spectre

Dopo gli accadimenti che nel precedente episodio ci hanno portato fino a Skyfall, era lecito immaginarsi che James Bond (Daniel Craig) fosse di cattivo umore. E infatti si prende una vacanza per andare a Città del Messico proprio nel Giorno dei Morti (*), e approfitta dell'occasione per sedurre una procace nativa, ammazzare alcuni italiani, e distruggere un paio di isolati.

Tornato a Londra, si becca la ramanzina del nuovo M (Ralph Fiennes) che rimprovera a 007 di aver creato una crisi diplomatica e, soprattutto, di aver fornito materiale ad un suo avversario interno ai servizi britannici. Trattasi di una nuova figura, creata per ristrutturare l'intelligence di sua maestà, tale C, che sembra voler fare a pezzi il programma 00 a vantaggio di un sistema informatizzato che mira a controllare tutte le comunicazioni, in stile orwelliano. Basterebbe questo a farci venire dubbi su C, quando poi scopriamo che è interpretato da Andrew Scott immaginiamo subito come andrà a finire (**).

In teoria Bond sarebbe costretto a starsene a casa per un bel pezzo, ma lui ha un incarico da svolgere per conto di M, non questo, ma quella di prima (Judi Dench). Per cui va a Roma, seduce la meno giovane Bond girl di sempre, Monica Bellucci (***), distrugge il prototipo di una favolosa Aston Martin (°) per la disperazione di Q (Ben Whishaw) e raccoglie indizi su Spectre, una potente organizzazione criminale capitanata dal losco Ernst Stavro Blofeld (Christoph Waltz).

Seguendo una traccia che sviluppa grazie al supporto di Moneypenny (Naomie Harris), si va in Austria, alla ricerca del suo vecchio amico Mr. White (Jesper Christensen), che baratta una informazione elusiva ma essenziale in cambio della promessa di proteggere sua figlia Madeleine (Léa Seydoux), che ovviamente si innamorerà di James ma, colpo di scena, resiste un bel po' prima di cedere, e inoltre sembra che la passione sia reciproca.

Più o meno tutto gira come atteso, eccessi di tutti i tipi compresi. Questa volta a Bond trapanano pure il cervello, e sembra che nemmeno questo gli causi gran problemi. La mano di Sam Mendes alla regia si vede, in particolare nella bella scena iniziale a Messico, con la macchina da presa che letteralmente danza attorno a Bond seguendolo nel suo peregrinare alla ricerca del suo bersaglio.

(*) Vedasi la simpatica animazione messicana Il libro della vita per approfondimenti.
(**) Difficile scinderlo dall'immagine che si è creata accettando il ruolo di Moriarty in Sherlock.
(***) A cui è stato dato molto spazio nei titoli ma ben poco sulla pellicola.
(°) Che pare destinata a rimanere una concept car, col nome di Aston Martin DB10.

Ave, Cesare!

Non mi aspettavo la sala piena, ma neanche la vuotezza che ho sperimentato, e sì che era la prima serata del sabato. Non mi aspettavo una tale freddezza del pubblico e tantomeno che una tipa, sui titoli di coda, dicesse ad alta voce che voleva indietro i suoi soldi. Anche un paio di membri del mio gruppetto di visione sono rimasti scontenti del film, adducendo una eccessiva complicazione della trama come motivo fondamentale per il loro giudizio negativo.

A me, al contrario, è piaciuto molto. Commedia in puro stile fratelli Coen (*), curatissima in tutti gli aspetti, compresa la colonna sonora del solito Carter Burwell, che include anche un paio di brani interpretati dal coro dell'armata rossa e uno da Channing Tatum, che ha sullo sfondo il loro solito cruccio: come è possibile che l'umanità sia così mal messa? Questa volta il finale è positivo, un invito a non sottilizzare troppo sulle parti negative e godersi di più quel che c'è di buono.

Si narra una giornata di lavoro di Eddie Mannix (Josh Brolin), che viene pagato perché gli innumerevoli problemi che afffliggono gli studi della Capitol Pictures non rallentino la produzione di film destinati ad inondare le sale americane e di tutto il mondo. Siamo nei primi anni cinquanta, la guerra è cosa del passato, e il pubblico scalpita per sempre nuove storie. Il buon Mannix non ha orari, anche nel cuore della notte c'è bisogno del suo intervento, magari per evitare che una stellina si faccia coinvolgere in un giro di foto scandalistiche (**), un po' come Philip Marlowe ne Il grande sonno di Howard Hawks (1946).

Una delle grosse produzioni in corso è proprio Ave, Cesare! (un racconto della vita di Cristo), polpettone del genere peplum che ricorda Quo vadis (1951), Ben Hur (1959), La tunica (1953), eccetera (***). Il protagonista Baird Whitlock (George Clooney) è un imbecille che ha anche dei lampi di notevole espressività attoriale, non sembra che ci siano guai in vista da parte sua, anche se ha una tendenza all'ubriachezza molesta e al tradimento della moglie, succede però che una cellula comunista hollywoodiana (°) lo rapisca per motivi ideologici e per denaro. Inoltre, due giornaliste scandaliste, le gemelle Thora e Thessaly Thacker (Tilda Swinton) indagano su di lui, con una delle due che pensa di riesumare un vecchio pettegolezzo secondo cui il Whitlock si sarebbe concesso a Laurence Laurentz (Ralph Fiennes) per avere la parte del film che lo ha lanciato.

Da qui in poi le cose diventano ancor più complicate, con Mannix che deve tenere sotto controllo svariati film, il che ci dà modo di vedere numeri da un film dove il nuoto sincronizzato la fa da padrone, una cosettina alla Esther Williams con Scarlett Johansson nel ruolo della protagonista; un film di marinai ballerini che invece di Gene Kelly ha al centro Channing Tatum; un film di cowboy da cui il poco loquace Alden Ehrenreich viene dirottato verso una commedia sofistica causando il panico nel regista (°°) che si vede costretto a gestire un bifolco nel ruolo di un damerino di città.

Inoltre, Mannix è richiesto dalla Lockheed per fare lo stesso lavoro ma in un contesto molto più tranquillo. Che fare? Deve abbandonare quella gabbia di matti per un lavoro "serio"? Ma è davvero più importante costruire aeroplani che raccontare storie? Per tutto il film sembra che la produzione di film sia un lavoro insensato, con sceneggiature scritte a caso, modificate per non dispiacere a nessuno (°°°) o per rimediare ad accidenti che succedono sul set, dirette alla meno peggio con attori che non hanno idea di quello che stanno facendo. Eppure, ogni tanto, misteriosamente, ci sono dei momenti che riescono da soli a giustificare tutto quanto.

(*) Regia di Ethan e Joel, sceneggiatura di Joel ed Ethan.
(**) Per quei tempi, si intende. A noi sembrano solo buffe.
(***) Alcuni dettagli fanno pensare anche al Brian di Nazareth dei Monty Python (1979).
(°) Vedasi il recente Dalton Trumbo per dettagli.
(°°) Che poi è il Laurence Laurentz che avrebbe approfittato in passato di Baird Whitlock.
(°°°) Vedasi la scena in cui Mannix incontra rappresentanti delle principali confessioni attive in America al tempo per chiedere un commento su Ave, Cesare! Mi ha ricordato una scena simile che c'è in Vita di Pi, ma solo nel libro, non nel film.

Legend

Non so come reagirebbe Brian Helgeland (*), temo male, ma a me questo suo film ha fatto venire in mente Fight club, con la differenza sostanziale che là il conflitto di personalità era tutto interiore, qui invece viene esteriorizzato nel rapporto tra due gemelli. L'altra differenza è che qui ci si appoggia su una storia reale, quella dei fratelli Kray (Tom Hardy) che hanno spadroneggiato nel mondo della malavita londinese per un decennio, fino al loro arresto sul finire degli anni sessanta.

Reggie Kray (Hardy) è quello bello e relativamente più sano di mente. Ron (sempre Hardy) ha complesse patologie psichiatriche che il medico curante sintetizza ad uso di Reggie descrivendolo come un pericoloso pazzo criminale. In teoria Ron dovrebbe starsene rinchiuso in un manicomio criminale per sue attività precedenti all'inizio del film, un amorevole intervento del fratello fa sì che torni in libertà così da contribuire al lavoro di famiglia. E c'è da dire che i Kray non sono dipinti come il peggio che c'era sulla piazza, ci viene rapidamente mostrata la gang dei Richardson (**) i cui metodi fanno sembrare quelli dei Kray roba da mammolette. Fortuna dei nostri vuole che una operazione di polizia spazzi via gli avversari e lasci loro il campo libero per una tumultuosa crescita delinquenziale. I Kray dominano Londra, e arrivano pure a legarsi alla cosa nostra americana, grazie all'intermediazione di Angelo Bruno (Chazz Palminteri), nonostante le perplessità dei mafiosi di oltreoceano su Ron, troppo visibile e troppo gay per il loro stile che predilige il basso profilo.

Nonostante l'evidente affetto tra fratelli la situazione non può reggere a lungo. E non tanto per la polizia, visto che il povero investigatore (Christopher Eccleston) assegnato al caso viene impossibilitato a fare il suo lavoro, causa i legami inconfessabili tra i Kray e la politica. Un problema è la tensione di Reggie tra l'attività di gangster, che gli piace un mucchio, e le perplessità di Frances (Emily Browning) che vorrebbe che suo marito non rischiasse tutti i giorni la galera. L'altro problema è la instabilità mentale di Ron, che lo porta a commettere azioni assurde, truculente e, in fin dei conti, autodistruttive.

(*) Sua la regia e la sceneggiatura, basata sulla biografia scritta da John Pearson.
(**) Il cui capo è impersonato da Paul Bettany.

Carol

New York, primi anni cinquanta. Therese Belivet (Rooney Mara) è una giovane donna newyorkese piuttosto confusa. Fa la commessa in un grande magazzino del centro e ha una specie di fidanzato, senza essere convinta né del primo né del secondo.

Pochi giorni prima di Natale, durante la grande caccia al regalo, incrocia lo sguardo con Carol Aird (Cate Blanchett), una facoltosa signora di gran classe, e paf, è amore a prima vista. O qualcosa del genere che nessuna delle due riesce bene a qualificare. Perché Carol ha già avuto una storia omosessuale con la sua amica Abby (Sarah Paulson), una cosa breve che sembra avere più confuso che chiarito le sue idee sulla propria sessualità, mentre Therese non riesce nemmeno bene a immaginare che senso abbia la cosa.

La situazione è complicata dal fatto che Carol è sposata con Harge (Kyle Chandler) e ha una figlia. I due sono già sul punto di divorziare, anche se Harge proprio non riesce a fare a meno di Carol. Anche Therese ha il suo carico di complicazioni, non riuscendo a decidersi se sposare o mollare Richard (Jake Lacy), una buona persona di cui però non è per niente innamorata. L'incontro tra le due scatena una serie di avvenimenti, tra cui un viaggio alla Thelma e Louise, meno drammatico, ma comunque anch'esso senza via di uscita.

Todd Haynes (*) costruisce tutto il racconto attorno ad un incontro tra Carol e Therese in un ristorante, che ci viene mostrato due volte. La prima subito all'inizio del film, non capiamo bene che succede, percepiamo solo una gran tensione. Tutto quello che segue è un lungo flashback che si chiude riportandoci a quel tavolino, dove possiamo rivedere l'azione, arricchita da alcuni particolari che si erano stati nascosti, capendo finalmente cosa c'è dietro.

Interessante notare come per gran parte del tempo Carol sembra essere quella che conduce il gioco, Ma a tratti, se stiamo attenti, ci accorgiamo di quanto questo sia tutta apparenza.

La bella colonna sonora di Carter Burwell rende molto bene la tempestosità, tutta interiore, della vicenda.

(*) Sua la regia, su sceneggiatura di Phyllis Nagy, basata sul romanzo di Patricia Highsmith.

Suffragette

Il movimento per il diritto al voto femminile non è mai stato preso troppo sul serio. Si pensi anche solo il nome con cui è stato etichettato sin dalla sua origine. Suffragette, ridicolizzando quella che a molti sembrava una richiesta assurda. E anche dopo che il risultato minimo era stato ottenuto, all'immagine delle donne inglesi che si battevano per il riconoscimento di un diritto elementare è stata riservata una visione paternalmente divertita. Vedasi Lady Agatha d'Ascoyne in Sangue blu (1949) e la signora Banks in Mary Poppins (1964).

Con qualche anno di ritardo siamo finalmente giunti a riconsiderare quello che fu una serissima lotta di civiltà. L'episodio speciale della serie Sherlock, L'abominevole sposa, indaga bene sulla faccenda, anche se vedendola molto di sbieco, qui invece siamo vicini alla rievocazione storica, offrendo crudi dettagli che troppo spesso sono stati fatti passare in secondo piano.

Un secolo fa a Londra, se si era maschi e si disponeva di un buon gruzzolo la vita poteva essere piuttosto piacevole. Ma noi seguiamo la vicenda di Maud Watts (Carey Mulligan), che di mestiere fa la lavandaia, ha una ventina di anni ma sa di aver già passato il suo periodo migliore, e che la aspetta un rapido declino fisico, dovuto alle condizioni di lavoro. Non si può dire che questo le piaccia, ma è rassegnata al suo destino, come è rassegnata agli abusi del capo (Geoff Bell). Giò, perché, che alternative ci sono?

Dopotutto può anche considerarsi fortunata, è brava nel suo lavoro, e per questo il capo non è nemmeno troppo scortese nei suoi confronti, ha un buon marito (Ben Whishaw) e un bel bimbetto. Una serie di circostanze, tra cui l'incontro di alcune suffragette estremiste, inizia a fare venire dei dubbi. Forse c'è una alternativa, forse si può cambiare, forse il futuro sarà migliore, almeno per chi arriverà dopo. Succede così che Maud entra in una cellula clandestina capitanata da Edith Ellyn (Helena Bonham Carter), una farmacista che avrebbe ambito alla professione medica, e a fianco di Emily Davison (Natalie Press).

Vediamo di sfuggita Emmeline Pankhurst (Meryl Streep), l'esponente principale del movimento, che però ha una importanza solo simbolica in questa storia, limitando la sua presenza ad un discorso e, soprattutto, allo stimolo che dà alle suffragette.

Dall'altra parte della barricata vediamo l'ispettore Arthur Steed (Brendan Gleeson) che inizialmente tratta il caso con la freddezza che si addice al suo ruolo, ma poco alla volta si convince che c'è qualcosa che non quadra. E bisogna dire che, nonostante alla cabina di comando del film ci siano solo donne (*), gli uomini non fanno una figura eccessivamente brutta. A parte il capo di Maud, nessuno tra i personaggi principali sguazza nel proprio ruolo. Magari usano i vantaggi di essere nati maschi senza farsi troppe domande, ma sembrano anche loro più vittime della situazione che altro.

Durante la visione mi sono venuti in mente alcuni film di Michael Haneke, come Il nastro bianco. Anche qui c'è un problema di difficile soluzione. Usare la violenza per risolvere un torto è una pessima strategia, come ricorda anche l'ispettore Steed. D'altronde, cosa si può fare se chi ha il potere si rifiuta di discutere?

(*) Regia di Sarah Gavron, sceneggiatura di Abi Morgan, che curiosamente fa da connessione tra la Streep, protagonista di The iron lady, e Carey Mulligan, che era la sorella del protagonista in Shame. Entrambi film del 2011.

Banff MFF World tour 2016

Collezione di alcuni filmati proposti al Banff Mountain Film Festival del 2015. Vedi il sito italiano del Banff MFF WT per dettagli sull'iniziativa.

Eclipse: Racconta di come Reuben Krabbe ha scattato una delle sue foto più famose, in cui si vede uno sciatore che si staglia contro l'eclisse solare del 2015, presa alle Svalbard. Facile a dirsi, un pelino più complicato a farsi. Premiato come miglior film sugli sport invernali.

Chasing Niagara: Rafa Ortiz aveva il sogno di scendere le cascate del Niagara con il suo kayak. Lo seguiamo nel suo percorso di allenamento e crescita personale di due anni che lo porterà al fatidico giorno della discesa. Miglior film sugli sport della montagna.

Degrees North: A Xavier De Le Rue piace molto scendere cime scoscese con il suo snowboard. Gli piace un po' meno doverle risalire a piedi. Decide così di inventarsi un parapendio a motore e una tecnica per volarci in due e lasciare che il pilota sganci il passeggero sulla meta.

Curiosity: Rory Bosio, Timothy Olson e Hal Koerner affrontano l'Ultra-Trail du Mont-Blanc, che sarebbe poi una corsa di 170 chilometri con un dislivello positivo di diecimila metri attorno al Monte Bianco.

Golden Gate: Emily Harrington si arrampica sulla quella nota via nello Yosemite. Ci mette sei giorni e si prende una bella dose di botte, graffi, eccetera.

Living rivers: Kevin Benhardt ha deciso che il surf si può fare anche sui fiumi.

Japan by van: Sciatori americani che scoprono un cantuccio innevato in Giappone.

Darklight: Alcuni pazzi scatenati che scendono in bicicletta da montagne. La particolarità è che lo sponsor tecnico li fa scendere di notte illuminando il paesaggio con colori sorprendenti.

Bike: Cortometraggio comico di Anson Fogel in cui due biker duellano scendendo per la montagna, finché uno dei due gioca il jolly e si butta in un precipizio.

Joy

La nomination all'Oscar come protagonista femminile Jennifer Lawrence se l'è guadagnata tutta, riuscendo a ridurre i danni del film con una prestazione notevole. Non capisco invece come David O. Russell possa aver pensato e realizzato un prodotto così debole.

Nonostante che la Lawrence, Bradley Cooper e Robert De Niro siano in tutti gli ultimi tre film ufficiali di Russell (*), qui non ho avuto la sensazione di guardare un gruppo affiatato all'opera. Che mi è sembrata poco rodata, una bella riscrittura forse le avrebbe giovato, e dove tutto il peso della recitazione è affidato alla Lawrence, trascurando l'approfondimento degli altri personaggi.

Per gran parte del tempo ho avuto la spiacevole impressione di guardare una versione di La ricerca della felicità di Muccino. La differenza è che là Will Smith da ha il sogno di fare i soldi diventando un broker, qui la Lawrence usando la sua voglia di inventare cose di utilità comune.

Joy (Lawrence) è una giovane donna cresciuta in una casa di pazzi. Quand'era ancora una bambina, il papà (De Niro) ha mollato la mamma (Virginia Madsen), che si è rinchiusa in un mondo da soap opera, forse influenzando l'immaginario di tutta la famiglia, sicuramente quello del film. Il relativo punto solido della situazione sembra essere la nonna (Diane Ladd), che però non fa nulla di sostanziale, se non qualche generico discorsetto motivazionale e fornire un collegamento esplicito al Cuore selvaggio di David Lynch, in cui era la madre della protagonista. Purtroppo qui Russell non riesce ad usare la narrativa da telenovela con lo stesso risultato.

Per Joy le cose vanno di male in peggio, la madre è sempre più svagata, il padre viene mollato dalla sua nuova fiamma e torna a vivere con loro, che già ospitano pure l'ex marito di Joy, Tony (Edgar Ramirez). Una botta di ignoranza (**) spinge Joy a dare una nuova partenza alla sua vita, butta fuori di casa Tony e il padre, che affida alle cure della sua nuova donna, interpretata da una Isabella Rossellini completamente sprecata (***), e si dedica ad inventare un mocio che rivoluzionerà il mondo delle pulizie casalinghe.

Seguiamo quindi il percorso creativo e soprattutto quello commerciale del mocio, che porterà Joy a conoscere Neil Walker (Bradley Cooper), responsabile di una rete televisiva specializzata in televendite. Tra i due potrebbe esserci del tenero, ma entrambi sembrano più interessati agli affari che agli affetti, e dunque non se ne fa niente.

Risultato finale, Joy otterrà il successo commerciale, che viene identificato con la felicità, quando capirà che può contare solo su se stessa. Scaricherà le sue tensioni rinnegando le sue perplessità sull'uso delle armi a scopo ricreativo, e abbraccerà lo spirito americano nel senso western del concetto.

(*) Oltre a questo, i precedenti Il lato positivo - Silver linings playbook e American hustle - L'apparenza inganna.
(**) La figlioletta vuole che lei le legga un libro sulle Magicicade. Specie di cicale diffuse in Nord America che si sono evolute seguendo un curioso schema per evadere l'attacco dei loro per predatori. Restano per molti anni sotto terra, e poi riemergono brevemente per avere una stagione di accoppiamenti all'aperto. Necessaria per perpetuare la specie, ma molto pericolosa. La particolarità è che il ciclo dura 13 o 17 anni (nel film si citano solo le seconde), per motivi matematici che lascio come approfondimento personale al lettore interessato.
(***) Tra l'altro raddoppia il riferimento a Cuore selvaggio. Là era una killer fuori di testa, qua una ricca vedova da immaginario televisivo.

Il caso Spotlight

Fresco di nomina all'Oscar come miglior film e per la migliore sceneggiatura originale, e mia seconda visione a breve distanza dalla prima. Sapendo già tutto quello che sarebbe successo, ho potuto godermi con calma i particolari, quale la piacevole colonna sonora originale firmata da Howard Shore.

Bravo Tom McCarthy ad orchestrare la sua stessa sceneggiatura (*) di una notevole complessità per il gran numero di personaggi coinvolti e per i temi trattati. Bravi un po' tutti gli attori, dove nessuno in particolare spicca ma ognuno dà il suo contributo alla riuscita dell'insieme.

Se è vero che al centro del racconto c'è la scoperta di come la pedofilia non fosse un accidente ma un problema strutturale del clero cattolico, ed è probabilmente questo che fa più colpo sullo spettatore, credo che le tesi principali siano che l'omogeneità culturale sia più un rischio che un vantaggio e che il giornalismo investigativo continui ad essere importante anche ai nostri giorni.

Si sottolinea infatti che Spotlight, il team del Boston Globe che si occupa di stanare le notizie più complicate che necessitano approfondimenti, avrebbe mancato la notizia non per mancanza di buona volontà, ma per incapacità di vedere il problema. 'Robby' Robinson (Michael Keaton), a capo del gruppetto, scopre con sua stessa sorpresa di non aver voluto dare peso agli indizi che pure aveva sotto il naso. Se non fosse stato per il nuovo direttore (Liev Schreiber) che, in quanto completamente estraneo alla città e al cattolicesimo, aveva modo di vedere quel che capitava da una visuale altra, l'attrazione di Mike (Mark Ruffalo) per questo caso probabilmente non sarebbe bastata per impegnarci sopra abbastanza tempo. E se non fosse stato per un avvocato di origine armena (Stanley Tucci) che aveva annusato un'aria di connivenza troppo soffocante per essere tollerata, difficilmente si sarebbero riusciti a raccogliere indizi sufficienti.

(*) Scritta a quattro mani con Josh Singer.

Room

L'Oscar a Brie Larson mi pare eccessivo. L'unica performance concorrente che ho visto al momento è quella di Charlotte Rampling in 45 anni, che avrei preferito, e mi mancano cose come Carol con Cate Blanchett e Brooklyn con Saoirse Ronan. Le altre tre nomination, erano per il film, la regia (Lenny Abrahamson) e la sceneggiatura non originale (Emma Donoghue). Mi sarebbe sembrato più giusto premiare Abrahamson (*) o la Donoghue.

Ho sentito commenti sull'eccessività della storia raccontata che meritano una puntualizzazione. La sceneggiatura è basata su un romanzo della stessa Donoghue che a sua volta è basato su fatti realmente accaduti, che però sono stati molto semplificati, probabilmente proprio per ridurre l'impatto emotivo sul lettore e poi sullo spettatore. Altrimenti sarebbe venuto un qualcosa più adatto al genere horror.

La regia ha seguito lo spirito della sceneggiatura, evitando le maggiori truculenze grazie anche all'idea di seguire il punto di vista di Jack (Jacob Tremblay) un bimbo di cinque anni (**) che ha passato tutta la sua vita in una stanza, che lui non sa essere un capanno nel cortile di una casetta, e che pensa essere l'intero mondo. Concetto che gli ha passato la mamma, Joy (Larson), con l'evidente scopo di non farlo uscire matto sin da piccolo. Lei, Joy, si trova lì da sette anni, rapita da un disadattato quando ancora era una ragazzetta. Il vecchio Nick (Sean Bridgers) di tanto in tanto arriva, abusa di lei, lascia qualcosa da mangiare, qualche genere di prima utilità, e se ne va. La prima parte del film è dunque uno studio sulla relazione madre/figlio in un contesto a dir poco asfissiante, in cui la figura paterna ha la peggior connotazione che ci si possa immaginare.

Ci si sarebbe potuti aspettare che il film finisse con la liberazione dei due, ma Donoghue/Abrahamson hanno voluto osare di più e, coraggiosamente, nella seconda parte affrontano il problema di cosa succede dopo. Jack che deve fare i conti con il mondo reale, con tutte le difficoltà che ci sono, e che noi facciamo fatica a anche solo a immaginare, avendole diluite in decenni di esperienza. Cose come affrontare una scala, guardare da una finestra ad un piano elevato, o anche solo parlare con una persona estranea. E Joy si ritrova a dover riprendere il filo di una vita interrotta anni prima, e fare i conti con un passato che lei aveva mitizzato, anche per mantenere un briciolo di lucidità mentale, e che scopre non essere poi così idilliaco.

Pur essendo un film con la testa in Europa, tendenza Irlanda, credo che per motivi commerciali il cast sia stato scelto praticamente tutto tra Canada (***) e Stati Uniti. Ad esempio si i genitori di Joy sono interpretati da Joan Allen e William H. Macy.

(*) Credo che questo sia da considerarsi come suo quinto lungometraggio nel senso corrente del termine. Prima di questo, io ho visto solo Frank. Molto interessante.
(**) L'attore è un po' più grandicello.
(***) Dove si è trasferita e vive la Donoghue.

Sicario

"Come va la guerra al terrorismo?", chiede un personaggio secondario al protagonista di Good kill. "Come la guerra alla droga", risponde lapidario quegli.
E in questo film di Denis Villeneuve (*) vediamo cosa intendeva dire. Il Traffic di Soderbergh raccontava come stavano le cose una ventina di anni fa, e già allora c'era da mettersi le mani nei capelli. Ai nostri tempi le cose sono talmente peggiorate che davvero il paragone con l'altra guerra regge.

Da notare la presenza di Benicio Del Toro in entrambi i film. In Traffic era un poliziotto messicano, corrotto ma nemmeno troppo, che riusciva in un qualche modo a illuminare con un briciolo di speranza la cupezza del quadro. Qui è un colombiano che ha lasciato il suo precedente lavoro (**) per fare il killer per conto terzi, in cambio di soldi e della possibilità di ottenere una sua vendetta. In un ruolo simile a quello che è stato il suo, ora c'è Maximiliano Hernández, che però ha molto meno spazio e finisce molto peggio.

Il punto di vista prevalente è quello di Kate Macer (Emily Blunt), un'agente dell'FBI che viene assegnata ad un gruppo speciale che affronta il problema del traffico di droga tra Messico e USA senza stare a badare troppo alle regole. In teoria l'agente Mecer sarebbe una tipaccia tosta (***), nella situazione in cui si ficca sembra un agnellino circondato da lupacci feroci.

In particolare, il suo gruppo è capitanato da Matt Graver (Josh Brolin), che forse è della CIA, o forse è un loro consulente esterno, che è affiancato da Alejandro (Del Toro). Dei motivi di Alejandro ho accennato sopra, quelli di Graver sono meno chiari. Forse ha davvero un piano, di cui dirà qualcosa alla Macer nel finale, anche se a me sembra così balordo da farmi dubitare che anche Graver stesso creda a quel che dice.

Bella la colonna sonora di Jóhann Jóhannsson, di cui avevo già apprezzato l'opera ne La teoria del tutto. Notevole il cambiamento di registro, come si addice alla profonda differenza tra le due produzioni.

(*) Prima sceneggiatura di Taylor Sheridan.
(**) Pare fosse legato al cartello di Medellin. Questa parte della storia non è sviluppata adeguatamente e direi che è quella che regge meno in tutto il film. Come accade, pare che sia proprio quella che ha intrigato di più, e ora sembra che stiano lavorando ad un sequel che vorrebbe espandere la narrazione proprio in questa direzione. Potrebbe essere una buona notizia, se andassero a studiarsi le cose relative, o potrebbe essere pessima, se inventassero qualcosa a caso per giustificare un paio di ore di pellicola su un personaggio ombroso e vendicativo.
(***) La vediamo schivare una fucilata a pallettoni senza che questo la agiti più di tanto.

Good kill

Non mi è chiaro che tipo di spettatore avesse in mente Andrew Niccol (*) come destinatario di questa storia. Il falco non gradirà i dubbi instillati sulla strategia militare americana amichevolmente nota come Guerra al terrorismo; alla colomba non piacerà il punto di vista seguito, e probabilmente nemmeno lo svolgimento. Battutine salaci, anche se più depresse che satiriche, colpiscono un po' tutti, e mi pare che la convinzione che emerga sia che ci siamo ficcati in un gran pasticcio da cui nessuno ha una buona idea sul come uscirne. Il che non è molto consolante.

Si narra del maggiore dell'aviazione americana Thomas Egan (Ethan Hawke), entusiasta pilota da caccia, che è stato messo a terra, non per demeriti, ma perché la strategia è cambiata. Si preferisce usare droni, e i piloti se ne stanno al sicuro, in un container dalle parti di Las Vegas. In questo modo si riduce il rischio di scenari imbarazzanti alla Black Hawk down. Egan non ha grossi problemi morali nell'uccidere nemici in questo modo piuttosto di come era abituato in precedenza, gli manca però l'adrenalina legata al rischio del volo e del combattimento, e reputa poco cavalleresco scontrarsi con un avversario restando intoccabile (**). Pur essendo molto bravo anche nel suo nuovo ruolo, non è proprio un pilota da videogame, e scalpita per tornare su un aereo. La frustrazione lo porta al bere e ad alienarsi da moglie (January Jones) e figli.

Viene affiancato ai comandi del drone da una recluta (Zoë Kravitz) che ha maggiori perplessità sul loro lavoro, soprattutto quando il loro equipaggio viene assegnato a missioni molto sporche sotto il comando della CIA. Tra i due c'è del tenero, non si supera mai nessun limite, ma pare che in qualche modo lei finisca per instillare qualche dubbio aggiuntivo in lui. E forse sarà proprio questa esposizione ad un diverso punto di vista a portare un cambiamento sostanziale nel suo modo di pensare.

Il punto del film è più sulle implicazioni derivate dal nuovo modo altamente tecnologico di combattere che sull'analisi dell'impatto che questo ha sui militari che le adoperano. Se viene raccontata con una certa plausibilità la crisi di Egan, si risolve con una eccessiva rapidità la fase di presa di coscienza del problema e la sua soluzione. Per dire, non è credibile che un alcolizzato superi la sua dipendenza con uno schiocco di dita. Vedasi ad esempio Flight.

(*) Sua sceneggiatura e regia.
(**) In un qualche modo richiama all'etica del protagonista de Il cacciatore di Michael Cimino, che prima della guerra va sì a caccia di cervi, ma non abusa della tecnologia per avere il risultato in tasca.