La felicità è un sistema complesso

Enrico Giusti (Valerio Mastandrea) mi ha fatto pensare al Benjamin Malaussène di Daniel Pennac (*). Entrambi hanno un lavoro più unico che raro, che si basa sulla capacità del soggetto di accattivarsi la simpatia di una qualche persona per guidarla in una particolare direzione. Enrico convince rampolli disadattati a mollare l'azienda di famiglia per dedicarsi a quello che davvero interessa loro, in genere scemenze insensate.

Lavora per conto dei Bernini, che prima entrano come soci di minoranza, poi usano Enrico per mangiarsi tutto quanto, fare presumibilmente un bello spezzatino in stile Gordon Gekko (1987), in ogni caso guadagnarci quanti più soldi possibile senza badare minimamente alla situazione al contorno. Il Bernini senior è una specie di cariatide che pare avere come unico interesse il potere/denaro, Enrico si relaziona piuttosto con lo junior (Giuseppe Battiston) che è un po' come i giovinotti a cui fa cambiare vita, costretto in un ruolo in cui non si riconosce.

A mettere in crisi Enrico, costringendolo a fare i conti con le pietose scuse dietro le quali si nascondeva per giustificare il suo lavoraccio, ci sono un paio di eventi. Gli piomba infatti in casa Avinoam (Hadas Yaron), appetibile giovane donna israeliana che Nicola, fratello di Enrico, ha sedotto e abbandonato. In più gli viene assegnato un caso molto particolare, dove due ragazzini si trovano sbattuti a capo di una società di medie dimensioni dall'improvvisa dipartita dei genitori.

Gran parte del peso della narrazione cade su Mastandrea, che gestisce molto bene un personaggio che pare disegnato proprio pensando a lui, e forse è proprio così, visto che Gianni Zanasi lo aveva già preso come protagonista nel suo precedente Non pensarci (2007 **). Tra incidenti, tentati suicidi, tensioni familiari e catastrofi varie, il conteggio delle vittime fa propendere per il versante drammatico, eppure gli accenni umoristici, spesso apertamente comici, mantengono la rotta narrativa in bilico sulla commedia, seppur molto amara.

Mi sembra che Zanasi punti troppo su pretese autoriali che gli sono fuori portata. Penso sarebbe stato meglio se si fossero eliminate alcune sequenze che poco o nulla aggiungono alla storia.

(*) Incrociato con qualcosa come Tra le nuvole (2009) del giovane Reitman, sia per l'eterno peregrinare del protagonista, sia per lo spinoso rapporto con il mondo del lavoro.
(**) Anche il Battiston fa l'abbinata, e anche lui sembra a suo agio nel ruolo.

Tutti insieme appassionatamente

Credo sia uno dei primi film che io mi ricordi di aver visto, e infatti prima di questa seconda visione ne avevo una memoria piuttosto confusa. Julie Andrews che canta My favorite things è coperta da ascolti e visioni successive, e infatti me la ricordo in inglese (*), mentre potrei cantare in italiano la più infantile Do-re-mi senza troppi problemi, se non di intonazione.

Trattasi di musical, e in quanto tale non è che si possa andare troppo per il sottile con la verosimiglianza dei fatti trattati, anche se, scopro ora, la sceneggiatura è basata su una storia realmente accaduta. Per curiosità sono andato a leggermi due cosette sugli accadimenti della famiglia Trapp che hanno, come ci si può aspettare, solo una lontanissima somiglianza con quanto succede nel film.

Qui succede che Maria (Julie Andrews) è una sbadata novizia austriaca che un grande amore per le montagne e il canto, sommati ad una schiettezza paesana, portano spesso in conflitto con le attività conventuali e con le sorelle portate ad una più rigida osservanza della regola dell'ordine. Notevole, dati i tempi in cui è stata realizzata, la carrellata iniziale (**) che ci fa volare sulle Alpi prima di piombare sul pascolo di montagna in cui Maria, in piena estasi (***), canta in solitaria il primo numero dello spettacolo.

Facciamo poi la conoscenza della madre superiora (Peggy Wood) e delle suore che discutono, e ovviamente cantano, di quanto sia difficile il carattere di Maria. Mi è stato difficile discernere quali parti umoristiche siano volontarie e quali no. Sarà che queste sorelle devono essere state nell'immaginario di chi ha scritto cose come Sister Act (1992) ma soprattutto il ruolo de La Pinguina (Kathleen Freeman) ne i Blues brothers (1980 °), però a tratti sembra di assistere ad una auto-parodia del film.

La soluzione pilatesca della superiora è quella di mandare Maria nel mondo e vedere quel che succede. Viene così sparata a casa del vedovo von Trapp (Christopher Plummer), capitano di marina in congedo, a far da governante per la torma dei suoi figli, ben sette. E qui si capisce la scelta di Julie Andrews per il ruolo, e forse l'intera idea della produzione, dato che è il collegamento a Mary Poppins (1964) è automatico.

Pare che il von Trapp abbia sbarellato in seguito alla morte di sua moglie, anche se mi pare lecito supporre che non debba mai essere stato del tutto a posto. In effetti più che di una governante avrebbe avuto bisogno di un buon supporto psicologico. Essendo la storia ambientata sul finire degli anni trenta in Austria, sarebbe stato interessante se invece di Maria avesse incontrato Anna, nel senso di Freud, e questa lo avesse messo in contatto con l'ormai anziano padre Sigmund. Chissà cosa ne sarebbe venuto fuori.

La situazione è disastrosa, von Trapp pensa che la famiglia sia l'equipaggio della sua nave, e li chiama col fischietto. La maggiore, che è già sedicenne, inizia a sentire il richiamo della natura, e sembra sul punto di convolare con un poco affidabile postino. A complicare la faccenda c'è pure una splendida baronessa viennese (Eleanor Parker) misteriosamente innamorata del capofamiglia, che però nicchia, probabilmente perché non si sente all'altezza della situazione.

Fortuna che Maria ci mette un poco di zucchero e risveglia la passione canterina nella famiglia (°°). Al von Trapp basta sentire i suoi sette giovani virgulti vocalizzare per decidere di mettere in pensione il fischietto. A questo punto anche i più riottosi avranno capito che il capitano mollerà la baronessa per la novizia, cosa che in effetti avviene, nonostante che la nobildonna combatta degnamente la sua battaglia prima di arrendersi.

Qui potrebbe finire il film, tutti i numeri musicali sono stati fatti, la storia ha un suo svolgimento. Tutti vissero felici e contenti. E invece no. Hanno voluto metterci dentro anche i nazisti. Succede infatti che mentre i von Trapp se ne vanno a Parigi in luna di miele, Adolfo torna a casa portandosi dietro i suoi amichetti, annettendo l'Austria alla Germania. Al von Trapp i nazisti non piacciono proprio, e il sentimento sembra ricambiato, però il terzo reich ha anche bisogno di buoni capitani di marina, e così la sceneggiatura prevede che il von Trapp riceva un ordine di imbarco immediato. Il che, a ben vedere, è una idiozia. Chi è quel dittatore che metterebbe mai al comando di una nave un oppositore politico? Ma sorvoliamo, è un musical, eccetera eccetera. E dopotutto si tratta solo di una scusa per organizzare la fuga della famiglia in un modo che verrà ripreso ancora dai Blues brothers - scena dell'ultimo concerto.

Il film ai tempi ebbe un successo spaventoso che oggi non mi riesco a spiegare. Certo, brava la Andrews, ma la sceneggiatura spesso smarrisce ogni senso. Wise ha i suoi bei momenti, la produzione però sfiora, e a volte supera, il limite del ridicolo. Tra le canzoni ci sono cose molto belle, ma sono ripetute due, tre volte, complice anche la lunghezza immane della pellicola (quasi tre ore).

(*) Ai tempi la distribuzione italiana aveva tradotto anche le canzoni, così che MFT per noi era Le cose che piacciono a me, nella versione di Tina Centi. Brava, non c'è che dire, ma è un'altra cosa.
(**) Dopotutto la regia è firmata da Robert Wise, e in questa e alcune altre scene si vede. Mi ha ricordato quella apre il piano sequenza de Il segreto dei suoi occhi (2009) di Juan José Campanella. A dire il vero la connessione è esilissima, ma ogni occasione è buona per citare un bel film.
(***) Che al giorno d'oggi verrebbe da attribuire al consumo eccessivo di qualche sostanza vietata o severamente regolamentata dalla legge.
(°) Scritto da Dan Aykroyd e John Landis, ça va sans dire.
(°°) Il titolo originale è The sound of music.

Cattivi vicini

Nonostante le mie aspettative fossero basse, non sono state raggiunte. Forse non è poi così orrendo, per chi fa parte del pubblico di riferimento. Io mi sono sentito terribilmente fuori fascia, alcune parti mi hanno annoiato, altre disgustato, gran parte del tempo m'è passato senza lasciar traccia di sé, però almeno una risata m'è venuta, grazie ad un momento slapstick. L'ho visto perché c'è una mezza idea di andare a vedere il seguito, che uscirà tra breve, e ho voluto tirarmi a pari con gli altri.

La storia è giocata come lo scontro tra una compagine di giovinastri universitari e un paio di coppie di giovani adulti che non hanno ancora ben capito quale sia il proprio ruolo nel mondo. Siamo in pratica dalle parti di Giovani si diventa, stesso anno, stessa incapacità degli adulti di essere veramente tali, qui però si punta di più sul filone American pie.

Mac (Seth Rogen) e Kelly (Rose Byrne) sono sposati, hanno una bella bimbetta, e fanno fatica ad accettare la loro condizione di famiglia. Sembra abbiano solo due amici, Jimmy (Ike Barinholtz) e Paula (Carla Gallo) che, più immaturi di loro, hanno divorziato e preferiscono fingere di essere ancora ragazzini. Penso si debba considerarli sulla trentina.

Nella casa a fianco si installa una confraternita universitaria, a capo della quale c'è Teddy (Zac Efron) affiancato da Pete (Dave Franco). Scopo di costoro è fare qualcosa di così oltraggioso da restare nella memoria di chi li seguirà.

La relazione tra le due compagini oscilla tra la simpatia e il conflitto, sia per gli interessi diversi, sia per una (*) reciproca invidia. La cattiva gestione del rapporto causerà una serie di disastri che nella vita reale si tradurrebbero in lesioni fisiche permanenti e magari anche qualche morte. Ma a guidare la fantasia del team creativo devono essere stati i fumetti, e i personaggi sembrano essere fatti di gomma. Dopotutto la regia è di Nicholas Stoller, vedasi il reboot dei Muppet e il suo seguito.

(*) appena accennata, in realtà.

Panic room

A scatenare il macello narrato è, per quanto indirettamente, un tale che muore prima dell'inizio del film. Costui era ricchissimo e piuttosto sciocco, al punto da vivere in una principesca magione nell'Upper West Side di Manhattan, New York, a due passi dal Central Park e di essersi fatto costruire una stanza segreta in cui rifugiarsi nel caso di attacco di malviventi, da cui il titolo. Come una matrioska, nella stanza c'è una cassaforte, al cui interno quel babbeo custodiva alcuni spicci nel caso di spese impreviste, ovvero svariati milioni di dollari, che sono restati lì, ben nascosti, all'insaputa dei suoi eredi.

Unico a sapere del tesoretto, il nipote Junior (Jared Leto) che, credendo di essere molto furbo, pensa di mettersi in combutta con un paio di malfattori per introdursi nella casa vuota, scassinare lo scassinabile, dare il meno possibile ai suoi accoliti e scappare col resto. Piano di una demenza colossale anche se tutto fosse andato per il meglio, cosa che non succede.

Un primo problema sta nella scelta della banda. Junior ha infatti reclutato Burnham (Forest Whitaker), un bonaccione che conosce il prodotto, in quanto è il suo lavoro fornire panic room ai facoltosi clienti newyorkesi, e che è stato convinto a passare al lato oscuro per non precisati motivi economici (*), e Raoul (Dwight Yoakam), uno psicopatico che dovrebbe farsi carico della copertura tattica. Se il primo è necessario, ma evidentemente poco adeguato ad una azione rischiosa, il secondo è una mina vagante che non si sa come e quando possa esplodere.

I tre sono così male assortiti e incapaci che starebbero bene in un film tipo Mamma ho perso l'aereo, se non fosse che la storia ha un taglio drammatico. Probabilmente anche se non ci fossero stati altri contrattempi il risultato sarebbe stato catastrofico, ma a peggiorare la cosa c'è il fatto che la casa non è vuota. Succede infatti che una neo divorziata, Meg (Jodie Foster) decide di investire una parte della considerevole fetta di soldi che derivano dalla separazione del ricco ex (Patrick Bauchau) proprio in quella casa, pur essendo evidentemente fuori misura per lei e la sua odiosa figlioletta, Sarah (Kristen Stewart **), uniche anime destinate ad abitare un appartamento in cui potrebbero vivere comodamente una decina di persone, e con un valore che non riesco nemmeno ad immaginare.

Le cose vanno come ci si può aspettare, con la variazione che la regia è di David Fincher, e che è riuscito a strappare un budget notevole da spendere in effetti speciali del tutto inutili, ma con i quali si deve essere divertito parecchio.

Non c'è una morale vera e propria in questa storia. O almeno, non sono riuscito a vedercela. Magari qualcosa come i ricchi sono fuori di testa, ma sono così ricchi che possono permetterselo. E se non lo sei non ti conviene metterti in mezzo ai loro affari che finisci male. In particolare se sei una persona decente (***) e cerchi di comportarti nel modo meno sbagliato che ti riesce.

Curioso il finale in cui si svisa nell'horror con lo psicopatico che diventa quasi immortale, resistendo ad una serie di mazzate (°) che mandano a quel paese ogni pretesa di realismo della vicenda narrata.

(*) Invero, non sappiamo più del minimo indispensabile di tutti i personaggi. L'interesse dello sceneggiatore, David Koepp, specializzato in blockbuster come robe basate su romanzi di Dan Brown, è tutto sulla situazione.
(**) Ancora ragazzina, suo primo film importante.
(***) Penso a Burnham, delinquente riluttante.
(°) In senso figurato e letterale.

Il lenzuolo viola

Due americani, Milena (Theresa Russell) e Alex (Art Garfunkel) si incontrano a Vienna, ne nasce un tempestoso amore che si risolve tragicamente. Un poliziotto locale, l'ispettore Netusil (Harvey Keitel) ci vede qualcosa di strano, indaga, arriva ad un passo dalla soluzione e ...

Storia relativamente semplice, ma ci viene narrata da Nicolas Roeg, che decide di giocare con un montaggio labirintico in cui siamo spinti a perdere il senso della sequenzialità del tempo. Che questa sia la chiave attorno cui tutto ruota è dichiarato sin dal titolo originale, Bad timing (*), anche se non mi è chiarissimo il punto che vuole essere fatto.

La relazione tra i due protagonisti è di quelle che si immagina destinate alla catastrofe sin dall'inizio. Milena è una bella giovine donna con grossi problemi personali che cerca di curare con un ingente consumo di alcolici e sesso promiscuo. Alex un estremamente pomposo professore di psicologia in visita all'università locale, ossessionato dal controllo.

Ai tempi il film fece un certo scandalo, al punto che qualcuno me lo definì come quasi-porno. Niente di più sbagliato. Al contrario, ci sono due tra le scene di sesso più intenzionalmente deprimenti che credo di aver visto in vita mia.

Forse anche a causa dei decenni che sono passati, il gran lavoro di Roeg alla regia m'è risultato poco digeribile, in particolare nella prima ora, in cui si costruisce piuttosto faticosamente la base dell'azione. Meglio la seconda parte, quanto entra nel vivo la schermaglia tra il professore e l'ispettore.

Curiosa la colonna sonora che giustappone gli Who a Johann Pachelbel, Keith Jarrett a Billie Holiday, Ludwig van Beethoven a Thelonious Monk.

(*) Che potrebbe essere reso con Una cattiva scelta dei tempi.

The nice guys

Il film ricorda molto Kiss kiss bang bang (2005), così tanto da sembrar pensato e diretto dalla stessa persona, il che corrisponde alla realtà dei fatti (*). Shane Black deve essere uno di quei sceneggiatori-registi che amano tornare più volte sulle stesse storie (**), vedasi anche la sua prima sceneggiatura, Arma letale.

Ambientato sul finire degli anni settanta nella Los Angeles assediata dallo smog, con il mondo del cinema ai suoi minimi storici al punto da essere tenuto a galla dal porno, è centrato sulla strana amicizia tra Holland March (Ryan Gosling), un detective alcolizzato dalle capacità così modeste che la sua sopravvivenza è spiegabile solo con la sua idiozia che lo deve rendere in qualche inesplicabile modo protetto da un dio burlone, e Jackson Healy (Russell Crowe), un picchiatore di bassa lega che per pochi dollari è disposto a mandare messaggi dissuasivi a chi stia antipatico ai suoi clienti.

Caso vuole che il destino dei due si incroci e venga legato ad un complicato caso che include una nota pornostar, dall'evocativo nome di Misty Mountains (Murielle Telio), Amelia Kutner (Margaret Qualley) che risulterà essere il perno della storia, un killer letale oltre misura (Matt Bomer), un pezzo grosso del ministero della giustizia americano (Kim Basinger), altri tipacci, gente che muore a destra e a manca in modi solitamente piuttosto efferati, eccetera.

A bilanciare i due caratteri principali interviene la figlia di March, Holly (Angourie Rice ***), a cui tocca di fornire un minimo di capacità intellettiva e umanità allo scombinato terzetto.

Tutti bravi, Gosling lavora molto nell'area dello slapstick, arrivando anche ad una esplicita citazione di Lou Costello (°), Russell Crowe è il muscolo, che però mostra di avere, sotto sotto, molto in fondo, qualcosa di umano che forse vorrebbe emergere. Alcune scene sono davvero molto divertenti, come quella in cui Holland ha un colpo di sonno, e noi ce lo vediamo seguendo la sua soggettiva. Avrei apprezzato però una minore truculenza fine a se stessa e magari un maggior approfondimento dei caratteri.

(*) Qui si è fatto aiutare alla scrittura da tal Anthony Bagarozzi.
(**) Non è necessariamente una cattiva cosa, basta essere preparati.
(***) L'ennesima giovanissima ragazzina americana che mostra di avere notevoli potenziatà attoriali.
(°) Da noi noto come Pinotto, in duo con Gianni - Bud Abbott.

The zero theorem

Altro film che non è stato distribuito in Italia. In questo caso il motivo va cercato nel fallimento di Moviemax, che ne aveva acquistato i diritti. In attesa che si sblocchino le questioni legali, temo che il modo più semplice per vedersi quella che è ancora oggi l'ultima regia di Terry Gilliam (*) sia cercarsi una copia del DVD proveniente da altro Paese europeo. Curioso destino, in particolare se pensiamo che il film è stato presentato in anteprima a Venezia nel 2013.

In un quasi incomprensibile futuro distopico, un programmatore informatico capace ma estremamente complessato, Qohen Leth (Christoph Waltz), viene assegnato dal misterioso capo (Matt Damon) della azienda per cui lavora ad un compito che sembra impossibile, dimostrare il Teorema Zero per mezzo di una complessa elaborazione di entità (**). Qohen accetta di buon grado l'ingrato lavoro perché gli permette di lavorare a "casa" (***) riducendo quindi drasticamente il rischio di contatti umani, e perché spera che questo gli permetta di ricevere una oscura telefonata che dovrebbe spiegargli il senso della sua vita (°).

Il lavoro procede alacremente, ma manca sempre un qualche cosina ad arrivare alla soluzione finale. Alcuni personaggi arrivano in suo aiuto, tra cui:
Joby (David Thewlis), suo supervisore, che sembra di una mediocre mediocrità molto pythoniana, ma d'altro canto sembra anche avere una simpatia forse sincera per Qohen.
Il giovane programmatore prodigio Bob (Lucas Hedges), che ha intuizioni che lo potrebbero rendere capace di risolvere il teorema, ma manca della necessaria capacità di impegnarsi sul lungo periodo. C'è poi il fatto che Bob è figlio del capo dell'azienda, e ha perciò un problema relazionale di diverso tipo.
La dottoressa Shrink-Rom (Tilda Swinton), una strizzacervelli virtuale che deve cerca di tenere sotto controllo le tendenze autodistruttive di Qohen. Ricorda in modo preoccupante la Mason di Snowpiercer, sempre interpretata dalla Swinton, almeno fino a che non viene craccata da Bob che la rende ancora più folle.
Tra parentesi, la Shrink-Rom viene concessa a Qohen dopo una assurda visita medica tenuta da tre dottori sciroccati (Sanjeev Bhaskar, Ben Whishaw, Peter Stormare).
Bainsley (Mélanie Thierry), una strana fanciulla che sembra ancor più stranamente attratta da Qohen. Inizialmente introdotta a questi da Joby, che sarebbe loro comune amico, se Joby avesse amici, poi passa ad un rapporto più professionale, avendo una attività di cyber-prostituzione, ed essendo forse considerabile come un benefit aziendale.

Le cose, che sono già abbastanza complicate, lo diventano ancora di più. Sembra che Qohen, grazie all'interazione con umani amichevoli, riduca le sue tendenze autistiche, sia capace di sentimenti di amicizia e forse sia anche di mostrare il suo amore per Bainsley, nonostante lo roda il dubbio che questa abbia per lui solo attenzioni a tempo determinato.

Finale molto in stile Brazil (1985), meno deprimente, però, perché ognuno può decidere cosa stia succedendo. Il sospetto è che tutto vada orribilmente male, la speranza (°°) è che inspiegabilmente un lieto fine sia riuscito a sgusciare tra le pieghe della storia.

(*) In questi giorni sono trapelate notizie positive sulla ripresa del progetto relativo alla sua versione di Don Chischotte, con lo scoop che dovrebbe essere Michael Palin ad interpretare l'eroe eponimo. E' l'ottava volta che Gilliam ci prova, speriamo che sia quella buona.
(**) O come dicono loro, "crunching entities".
(***) Che sarebbe poi una austera chiesa che ha comprato a prezzo vantaggioso in seguito ad un incendio che ha spazzato via i precedenti inquilini, religiosi di un ordine che, tra l'altro, aveva tra le sue regole quella del rigido rispetto del silenzio.
(°) Evidente il richiamo ad Aspettando Godot.
(°°) Supportata da voci che si sentono sui titoli di coda, senza che noi si possa vedere cosa stia succedendo.

Alice attraverso lo specchio

Si tratta ovviamente del seguito di Alice in Wonderland (2010), per opera della stessa sceneggiatrice (*), anche se la regia non è più nelle mani di Tim Burton (**) ma in quelle di James Bobin (***). Il cast principale è lo stesso, la principale aggiunta è quella di Sacha Baron Cohen nei panni del tempo. Come ci si può aspettare, il risultato è meno burtoniano e più disneyano, fortunatamente nel senso più moderno del termine.

Questa volta il prologo è diviso in due. Prima c'è una parte da Pirati dei Caraibi, completamente fuori luogo e che ha il solo scopo di farci vedere quanto Alice (Mia Wasikowska) sia cresciuta, allineandosi a quello che è il modello standard proposto oggidì alle giovani donne, una mascolinizzazione del ruolo che a me lascia alquanto perplesso. Poi c'è un duplicato del prologo della prima puntata, in cui nuovamente Alice deve scontrarsi con la subalternità che le convenzioni d'epoca (°) le offrivano. A mio parere, eliminando completamente questa parte, o almeno riducendola al minimo indispensabile, si sarebbe fatto un buon servizio alla struttura del racconto.

Ancora una volta Alice fugge da una realtà che non le piace per rifugiarsi in un mondo di fantasia, il sottomondo, basato sulla fervida immaginazione di Lewis Carroll (°°). Qui scopre che il cappellaio matto (Johnny Depp) è ammattito, nel senso che ha cambiato la sua stravaganza. Ovvero, in termini un po' più moderni, si è depresso. Una scoperta casuale gli ha portato alla memoria un dolente trauma del passato, e ora smania per ritrovare la sua famiglia che, come lui stesso aveva detto ad Alice, era stata sterminata quando lui era ancora un bimbetto. Sarebbe una cosa impossibile, che è proprio quello che Alice sa fare meglio, da cui le sue aspettative nei confronti della sua amica di un altra mondo.

Vista l'incapacità del cappellaio di affrontare la realtà (°°°), la regina bianca, Mirana (Anne Hathaway) indica ad Alice una possibilità, per quanto assurda, di risolvere il problema. Alice dovrà farsi cedere dal Tempo in persona (Baron Cohen) la cronosfera, con questa viaggiare nel tempo e cercare di cambiare il passato.

Complicazione aggiuntiva, anche la regina di cuori, Iracebeth (Helena Bonham Carter) è sulle tracce della cronosfera per suoi motivi.

Ancora più complicato, in parallelo ai problemi del sottomondo, Alice cerca pure di risolvere quelli che ha nel suo mondo. La vediamo così affrontare un medico che ispira ben poca fiducia (Andrew Scott), il suo sciocco ex-spasimante e ora datore di lavoro, Hamish (Leo Bill), e i pregiudizi di sua madre (Lindsay Duncan).

A mio parere, troppa carne al fuoco. La gran quantità di temi stipati nelle due ore scarse di pellicola mi ha fatto pensare e Pan ma qui, per fortuna della Disney e di noi spettatori, si evita la catastrofe. Ma non la noia, almeno in alcuni passaggi.

Tra la miriade di riferimenti ad altro ho notato, con un certo dispiacere, quello alla serie del Dottor Who, anche se la cronosfera usata da Alice sembra essere più figlia dell'immaginazione di HG Wells con la sua macchina del tempo così ottocentesca.

Nonostante tutte le mie perplessità, l'impianto del racconto non mi è dispiaciuto. Ho apprezzato la scarsa rigidezza nella caratterizzazione dei personaggi, cosa che probabilmente sarebbe sembrata inconcepibile a zio Walt, ma qui non c'è un vero cattivo. Il Tempo fa solo il suo lavoro e, anzi, cerca di evitare che Alice causi una inutile catastrofe pensando di fare la cosa giusta. La regina di cuori, che pure è di una insensitività quasi assoluta nei confronti di chiunque, ha una qualche ragione da parte sua. La regina bianca, così eterea, nasconde nel suo passato una macchia, piccolina finché si vuole ma foriera di grossi pasticci.

(*) La disneyana Linda Woolverton.
(**) Che però è tra i produttori.
(***) Altro disneyano di ferro, vedasi il reboot dei Muppet nei due episodi del 2011 e 2014, che però nel passato ha una collaborazione con Sasha Baron Cohen, periodo Ali G.
(°) Questa volta più correttamente rappresentata, o meglio abbozzata, come ottocentesca, in piena rivoluzione industriale.
(°°) Anche se resta solo un'aria di familiarità. Praticamente ogni riferimento al secondo libro delle avventure di Alice è destituito di fondamento.
(°°°) Del tutto comprensibile nel suo caso, trattandosi di un personaggio considerato matto anche nel suo mondo fantastico.