La pianista

Con questo film Michael Haneke ha finalmente fatto il botto, raccogliendo una lunga serie di premi, in particolare una tripletta a Cannes, gran premio della giuria ad Haneke, miglior attrice alla Huppert (all'unanimità) e miglior attore a Magimel. Niente meno.

Lo stile della regia non mi pare cambiato radicalmente dai precedenti lavori, la freddezza dei primi titoli per il grande schermo si era già smussata con Codice sconosciuto, però si nota una maggior mobilità nell'uso della macchina da presa, qualche spazio concesso al montaggio, e soprattutto un uso della musica molto più pervasivo, almeno nella prima parte.

Da notare che, pur non essendo legato ufficialmente a Dogma 95, Haneke sembra seguirne gran parte dei dettami, ad esempio raramente sentiamo musica che esterna all'azione. Se qui abbonda Schubert (amato dalla protagonista) e non viene risparmiato Beethoven, Chopin, etc è perché la Huppert interpreta una insegnante di pianoforte.

In genere Haneke si scrive la storia da sé, anche se non si è lasciato intimidire dal compito (da far tremare le vene e i polsi) di tradurre per la televisione Il castello di Kafka. Qui invece ha basato la sceneggiatura sul romanzo omonimo del premio Nobel Elfriede Jelinek, di cui mi pare abbia ritoccato soprattutto il finale, per renderlo più aperto, come suo consueto.

Una pianista (Isabelle Huppert) non più giovane vive una esistenza sospesa, vive ancora in casa con la madre (Annie Girardot), che la tratta come fosse una ragazzina. Incapace di gestire la propria sessualità con naturalità, si rifugia nella pornografia e in pratiche autopunitive. Incontra un giovanotto (Benoît Magimel) che si piglia una cotta per lei, attirato probabilmente dalla sua algida aurea di perfezione. Lei pensa di usarlo per dare sfogo alle sue fantasie masochistiche, ma lui ne resta disgustato, considerandosi "normale" e incasellando lei come "deviata". Di conseguenza la tratta con sadismo (che sarebbe poi quello che vorrebbe lei, teoricamente) ma con un distacco che rivela che pure lui tanto "normale" non dovrebbe considerarsi.

Storie - Codice sconosciuto

Credo sia il primo film di Michael Haneke che sia stato distribuito in Italia, immagino grazie al premio ecumenico (e speciale) della giuria di Cannes, lo si trova anche in italiano su DVD, anche se con una certa fatica, magari col sottotitolo alternativo di Racconto incompleto di diversi viaggi, che lo rende più simile al titolo internazionale inglese, Code Unknown - Incomplete tales of several journeys, e all'originale francese, Code inconnu: Récit incomplet de divers voyages.

Tolto lo "storie" che appare in italiano, il resto del titolo spiega praticamente tutto del film. Si parla infatti della difficoltà, o impossibilità, a voler essere pessimisti, di capirsi tra noi umani. Ognuno ha il suo codice, pensa di essere chiaro nell'esprimersi, ma invece capita di non capire e non sapersi spiegare. Tematica che viene mostrata seguendo vicende che si intersecano debolmente a Parigi e che hanno come protagonisti svariati personaggi ognuno alle prese con un suo percorso.

Al centro c'è la storia di una attrice non ancora nota (Juliette Binoche, splendente come suo solito), legata ad un fotografo di guerra che però ha la mente altrove, oltre che ad un fratello stufo di vivere in campagna con un padre dal carattere ben poco socievole. Il fratello minore del fotografo si trova coinvolto, più o meno involontariamente, in una discussione con un ragazzotto di origine africana (del Mali) a proposito di un suo sgarbo nei confronti di una elemosinante "sans papier" romena. Il che allarga il campo dell'azione alle famiglie di questi altri due personaggi.

Meno inaccessibile dei precedenti lavori cinematografici di Haneke, richiede comunque un buon grado di partecipazione da parte dello spettatore. Lunghi piani sequenza, intervallati da stacchi netti, stile quasi-documentaristico, montaggio minimale, molti spunti forniti, lasciando che sia lo spettatore a darsi eventuali risposte.

Das Schloss

Trasposizione televisiva de Il castello di Franz Kafka. Credo che non esistano altri tentativi del genere, e si può ben capire come mai, visto quanto è impervio il testo, oltre a mancare del finale.

L'idea di Michael Haneke è stata quella di portare la storia in un recente passato, e lasciare che una voce narrante segua tutta l'azione, spesso duplicando le battute recitate dagli attori.

Ottima prova attoriale di Ulrich Mühe nei panni del protagonista, K., che viene chiamato per un lavoro in un remoto castello in località non ben identificata. Scopre che il castello non è raggiungibile, nel paesino ai suoi piedi dove trova (con difficoltà) alloggio la gente vive seguendo regole al limite dell'assurdo (e anche lui si comporta in modo a tratti incomprensibile), il lavoro che dovrebbe fare in realtà non esiste, si tratta un errore della kafkiana burocrazia locale.

La vicenda diventa sempre più ingarbugliata, personaggi mossi da motivazioni oscure, spesso contraddittorie, entrano ed escono di scena. Non si capisce nemmeno bene perché poi K. sia così interessato a restare in quel posto miserevole. Come nel romanzo, anche qui la fine arriva con un improvviso colpo di forbice, prima che un nuovo personaggio riesca a dire la sua battuta.

Lo catalogherei come prodotto "only for fans", di Kafka, Haneke, e magari anche Mühe. Gli spunti proposti sono notevoli, ma non è che lo si possa dire di facile fruizione.

Benny's video

Simile al precedente Il settimo continente, anche questo film di Michael Haneke è consigliabile solo ad un pubblico adulto, nel senso di uno spettatore che non cerchi un prodotto di facile consumo.

Anche questa è la storia di una famiglia austriaca, ma qui lo studio dei personaggi ha uno spazio maggiore. Il protagonista è il figlio minore (Arno Frisch), con una eccessiva passione per la cinematografia, probabilmente per compensare l'assenza dei genitori (Angela Winkler e Ulrich Mühe). Ha anche una sorella che vive fuori casa e di cui sappiamo solo che ha una certa passione per schemi tra il gioco e l'imbroglio per fare soldi alla svelta.

Benny sembra avere grossi problemi ad affrontare la realtà senza la mediazione di una telecamera, arriva all'assurdo di schermare le finestre della sua stanza ma di avere la vista su televisione. Un po' ricorda il ragazzetto di American beauty, a pensarci bene.

All'inizio del film, lo vediamo visionare un filmetto amatoriale che ha girato in campagna, dove ha seguito l'esecuzione di un maiale, abbattuto con una di quelle pistole ad aria compressa, tipo quella che usa il killer di Non è un paese per vecchi. Dopo aver visto così tante volte la morte in pellicola (nei film che noleggia, nei notiziari televisivi, ...) e aver avuto questa esperienza di morte reale, gli è venuta la curiosità di provarla di persona. Recluta così una ragazzina, e sperimenta su di lei, anche in questo caso mediando il tutto con la sua telecamera.

I genitori, decisamente distratti, non si accorgono di niente. Dovranno vedere il video per rendersi conto che il figlio ha ucciso. Segue la vera parte horror del film (che non viene mostrata), ovvero come viene fatto sparire il cadavere, e come i genitori si illudano che questo basti a risolvere i grossi problemi di Benny.

Haneke sottolinea l'insulsaggine dei genitori, che si preoccupano delle possibilità di carriera del figlio, se venisse condannato per omicidio, o che vengono mostrati orgogliosi per la "carriera" della figlia, che raggranella soldi in quel modo. Ma mantiene uno stile quasi-documentaristico, lasciando che sia lo spettatore a tirare le conclusioni che vuole. Se vuole.

Il settimo continente

Primo film per il cinema di Michael Haneke, ma dopo quindici anni dal suo esordio registico per la televisione. Se ho capito bene quanto dice lo stesso Haneke nell'intervista fornita come extra del DVD (in francese sottotitolato inglese!), sarebbe stato un film per la TV anche questo, se i produttori non fossero rimasti poco soddisfatti della sceneggiatura, spingendolo a trovare vie alternative.

La storia, in effetti, non sembra fatta per attirare orde di spettatori. Nemmeno quelli di area tedesca, più avvezzi di noi mediterranei a programmi con un peso specifico non indifferente. Da notare che in Italia il film non ha trovato distribuzione cinematografica, e nemmeno televisiva, credo. Il DVD lo si trova grazie alle meraviglie del mercato comune europeo - nel mio caso, edizione inglese (The seventh continent, in originale Der siebente Kontinent).

Si parte da un fatto vero, una famigliola austriaca scopre di non sopportare più la quotidianità, e decide di migrare nel settimo continente, che però non è l'Australia, come lasciano credere a chi chiede loro come mai lascino i rispettivi lavori, vendano la macchina, eccetera.

Regia fredda, distaccata, che cerca, per quanto possibile, di non prendere posizioni sui fatti, lasciando le conclusioni allo spettatore.

Nella succitata intervista, Haneke fa notare come le scene che più hanno sconvolto il pubblico (a suo modo potrebbe essere catalogato come un film horror, un horror della quotidianità) sono quelle in cui il padre di famiglia distrugge a martellate l'acquario di casa, causando la morte dei pesci, e quella in cui gettano nel cesso (letteralmente) i loro risparmi. E sì che, a ben vedere, accadono cose ben peggiori.

Diviso in tre parti, richiede allo spettatore una buona dose di pazienza, soprattutto nella prima parte, che ci introduce nella vita monotona e ripetitiva della famiglia, usando inoltre l'interessante (ma barboso) espediente di non inquadrare gli umani, se non di sfuggita, e dedicare invece le inquadrature agli oggetti, che diventano protagonisti.

La seconda parte scorre meglio, sia perché le ripetizioni nei fatti narrati generano un curioso effetto ritmico (Haneke nota che il cinema, almeno il suo, ha molto più in comune con la musica che con la letteratura) sia perché viene dato più spazio agli umani.

La terza parte riserva mazzate (non solo metaforiche) non indifferenti.

Colonna sonora pop di consumo, che lascia spazio ad un solo momento alto, una scheggia dal concerto per violino e orchestra di Alban Berg, noto col nome di Alla memoria di un angelo, che dà un corposo indizio su cosa sta per succedere, in un momento in cui si poteva sperare che le cose potessero andare a finire in un modo meno terribile.

One day

Capita a volte che un film non piaccia a molti che scrivono di cinema per motivi che non mi sono chiari. Non che la cosa mi preoccupi, ma mi resta il dubbio, cos'è che non è davvero piaciuto?

Diretto con eleganza da Lone Scherfig, protagonisti Anne Hathaway e Jim Sturgess, buon cast al contorno, belle musiche originali (Rachel Portman). Fin qua tutto bene, non ho letto nessuno che avesse (seriamente) qualcosa da ridire.

Ne ho lette invece di cotte e di crude sulla sceneggiatura di David Nicholls, tratta dal suo omonimo romanzo, con motivazioni che però non mi hanno convinto. In molti si sono lamentati della struttura, che sarebbe poco fruibile dallo spettatore, o troppo rigorosa, o poco adatta per lo schermo. Vero è che si seguono le vicende della coppia di protagonisti, per quanto possibile, mostrando solo un giorno, il 15 luglio, per venti anni di fila, ma un consumatore di cinema contemporaneo dovrebbe essere abituato a narrazioni ben più impervie. Che dire di Pulp fiction allora? O (500) giorni insieme?

Altri contestano la vacuità del personaggio interpretato da Sturgess, come se non fosse lecito avere un protagonista vacuo. Dimenticandosi poi che è un personaggio che ha una sua complessa evoluzione, e alla fine lo troviamo, con gran fatica, cresciuto.

E così via avanzando perplessità che non comprendo e che non mi sembrano giustificate. L'unica ipotesi che mi sentirei di avanzare è che si tratti di una storia che risulta poco digeribile a molti perché ha qualcosa di spiazzante. Pur essendo costruita seguendo un modulo classico del dramma romantico, ci sono elementi dissonanti che forse sono sembrati stonature a chi non ha gradito.

Lui (Sturgess) è infatti uomo di successo, ma non è capace di gestirlo, e finirà per rovinarsi la vita. Lei (Hathaway) è bruttina (magie del trucco) e poco appariscente, ma riuscirà ad aver successo, dopo lunghe vicende, senza alcun supporto maschile. Lui cercherà di raddrizzare la propria vita appoggiandosi ad una donna ricca, cercando di diventare un buon marito, ma la moglie si stuferà di lui, mollandolo. E altre cose che non dico per non spoilerare troppo.

Il quadro dovrebbe essere chiaro. Le donne non sono passive in questa storia, me ne vengono in mente cinque che incrociano il destino di Lui, ognuna delle quali prende le sue decisioni in modo autonomo. Lui, invece, si lascia sballottare dalla corrente, fa "quello che gli dicono di fare", pensando che sia molto divertente, ma arrivando sull'orlo della catastrofe.

In positivo, la storia mi è sembrata interessante, non scontata, e ho apprezzato gli spunti di riflessione che offre in temi quali il successo (cos'è davvero, e a cosa serve), la gestione delle relazioni, l'assenza della persona amata.

Cloverfield

Che noia. Godzilla arriva a New York, l'esercito evacua Manhattan e la rade al suolo.

Scritto e diretto da Drew Goddard e Matt Reeves, è in realtà opera di J.J. Abrams, che l'ha prodotto con gran dispendio di capitali, ma facendo finta che sia un film a basso costo. In pratica un finto Blair witch project.

La storia è vista dal punto di vista di alcuni ragazzetti benestanti, lui neolaureato è in partenza per il Giappone, lei è una amica con cui ha fatto sesso un mese prima dei fatti, hanno passato una giornata assieme a Coney Island e poi ... pare niente. Sappiamo tutto ciò perché la sera dell'arrivo del Mostro sull'isola, i giovinastri stanno facendo festa per salutare il partente, e a un amico (incapace) viene detto di girare con la cinepresa digitale per raccogliere i saluti. Disgraziatamente, invece di usare una cassetta nuova, riutilizzano quella del mese prima, così che noi ci vediamo un po' tutto, mischiato a dovere.

La prima parte è micidiale, la camera viene mossa senza alcuna compassione per lo spettatore, e la fase di costruzione dei personaggi è inutile. Poco ci viene detto, e non serve a nulla nel seguito della storia. Poi arriva Alien (è enorme, alla Godzilla, ma corredato da tanti piccoli esserini malevoli) e almeno c'è un po' di azione.

Occhio e croce, direi che il senso è quello di sfruttare commercialmente l'undici settembre, usando quell'emozione trasferita su un evento evidentemente falso, e dunque meno doloroso. Ma a che serve un prodotto del genere?

In Bruges - La coscienza dell'assassino

Brillante esordio come sceneggiatore e regista di Martin McDonagh, che sembrerebbe inspiegabile (prima c'è stato solo un corto, Six shooter), se non si facesse caso alla sua carriera teatrale, che gli aveva già procurato premi e successi in quantità.

E nonostante che l'azione sia molto cinematografica, si sente che il soggetto è scritto da uno che ha più il teatro che il cinema nel sangue. Mi augurerei dunque che McDonagh riesca ad asciugare i dialoghi nei prossimi lavori, e magari si liberasse di una certa tendenza all'improbabilità in alcune scene.

La storia è quella tragicomica di un paio di killer irlandesi (da notare che McDonagh è nato e vissuto in Gran Bretagna, ma da genitori irlandesi, e si sente più irlandese che inglese) che vengono mandati a Bruges (Belgio) dal loro capo, dopo che una loro azione è finita male.

In pratica il film è uno studio sul carattere dei tre personaggi principali, che mi hanno fatto pensare ai primi film di Guy Ritchie (Lock, stock ..., Snatch). Ottima la scelta del cast, con Colin Farrell nel ruolo del killer giovane, che alla sua prima azione causa il disastro che è il motore degli eventi narrati; Brendan Gleeson killer anziano, ha introdotto Farrell nel lavoro; Ralph Fiennes il boss, dal carattere iroso.

A vivacizzare la contrapposizione dei caratteri contribuiscono personaggi minori, tra cui spiccano Clémence Poésy, spacciatrice locale che rifornisce una troupe che sta girando un improbabile film (ci viene detto che dovrebbe essere qualcosa come A Venezia ... un dicembre rosso shocking), e Jordan Prentice, attore nano, tossico e razzista.

Notevole come McDonagh ci faccia fare un giro turistico di Bruges senza farlo pesare, e come mescoli umorismo "facile" a tematiche più complicate. Bizzarro, ad esempio, come Farrell prenda subito a mal volere la città, eppure non riesca a distaccarsene, come se fossimo in un pezzo di teatro dell'assurdo. Da notare anche la citazione de L'infernale Quinlan (Touch of evil), di cui si vede parte del lunghissimo piano sequenza iniziale (roba da antologia), trasmesso in televisione mentre Gleeson riceve una telefonata (ad alta tensione, ma con effetti spassosi) da Fiennes.

Belle le musiche originali di Carter Burwell, che vengono integrate anche da un lied di Schubert.

Un giorno questo dolore ti sarà utile

Ennesimo tentativo andato a vuoto di creare un prodotto italiano consumabile anche negli USA. Se ho capito bene, non è nemmeno uscito nelle sale americane. O forse vi ha fatto solo una fuggevole apparizione, che però è bastata ad attirare una serie di impietose stroncature.

Pur avendo qualche difetto, in particolare segnalerei una sceneggiatura poco omogenea, che avrebbe forse richiesto un maggior distanziamento dal romanzo originale (Peter Cameron), non mi è sembrato un lavoro così catastrofico come sembrano pensare i (non molti) critici americani.

Forse non è stata una buona idea partire da un romanzo di Cameron, considerando che anche Quella sera dorata (in originale The city of your final destination), pur contando su un cast superiore (regia di James Ivory, Anthony Hopkins e Charlotte Gainsbourg tra gli interpreti) ha subito lo stesso destino. Pare dunque che Cameron venga accettato come scrittore, ma al cinema proprio non passi. Valeva forse la pena allora di trasporre la vicenda in Italia, se proprio Roberto Faenza voleva portare quella storia sullo schermo.

In effetti, si può immaginare come lo spettatore americano medio possa non capire il senso di un racconto che verte sull'incapacità di un ragazzetto newyorkese (Toby Regbo) di decidere cosa vuol fare della sua vita. Un po' ricorda il Giovane Holden, Catcher in the rye, romanzo di Salinger che a noi non sembra niente di terribile, ma che per gli americani è roba da estremisti. Mettiamoci poi che il ragazzo ha una famiglia che sembra quella dei Tenenbaum, e che mi ha fatto pure pensare a Harold e Maude. Tutta roba con cui è meglio non scherzare, se non si hanno le spalle adeguatamente coperte.

Dicevo che ho trovato debole qualche passaggio di sceneggiatura. In particolare, ci sono un paio di episodi, uno del tutto secondario, che è anche simpatico, ma finisce per restare completamente isolato dal resto del film. Il protagonista pensa di comprare una casetta che vede su internet, il prezzo è decisamente interessante, troppo interessante, e infatti scopriremmo che c'è la magagna. A portarlo a vadere la casa è una giovane venditrice piuttosto folle (Aubrey Plaza) ben tratteggiata, pur nel poco tempo a disposizione. L'altro episodio è quello dello scherzo bislacco che il protagonista gioca al suo capo, che sembra completamente fuori dal suo carattere. In realtà, qui occorre avere un po' di pazienza, lasciare che la storia prosegua, e tutto verrà spiegato.

I due personaggi positivi nel corso dell'evoluzione del protagonista sono la nonna (Ellen Burstyn) e la "life coach", sorta di psicologa per chi abbia paura del termine (Lucy Liu), che più che altro spiegano al ragazzetto che non ha niente di particolare, sta semplicemente crescendo.

Non male nemmeno la colonna sonora, di Andrea Guerra.

Quasi amici

Avendo annusato odor di fregatura, non sono andato a vederlo al cinema, nonostante la lunghissima tenitura. Ma per il piccolo schermo non vado tanto per il sottile, e dopo tutto qualcosa di interessante in questo titolo c'è. Guardarlo una volta non è che faccia male.

La storia (scritta e diretta a quattro mai, Olivier Nakache e Eric Toledano) penso che ormai la conoscano tutti. Un riccone francese (François Cluzet) ha perso la moglie, la voglia di vivere, e l'uso del suo corpo dal collo in giù - non in questo esatto ordine. Stufato dai badanti che si stufano di badarlo, decide di assumere un mezzo delinquente (Omar Sy) che non aveva nessuna intenzione di fare quel lavoro, e dunque non è ancora indurito dalla sua durezza.

Vicenda non particolarmente originale, a me ha fatto pensare a Profumo di donna di Dino Risi, con Vittorio Gassman militare cieco (e vedi anche il remake americano con Al Pacino), di cui viene giustificata la riproposizione con lo scudo di una storia vera usata come ispirazione.

Come spesso accade, si gioca sulla contrapposizione dei caratteri, gusti, approccio alla vita. Il finale dovrebbe mostrare come i due personaggi crescano assorbendo dal loro compagno quello che inizialmente loro mancava.

Disegnato come un lungo flashback - vediamo una corsa in macchina, salto indietro a scoprire tutto il pregresso, ritorno al presente e lieto fine - l'ho trovato troppo lungo, scontato, e anche un po' banalizzato, nella parte centrale, che avrei allegramente tagliato di svariate decine di minuti.

Insulsa la versione italiana del titolo, invece del più diretto Intoccabili (Intouchables), che volendo poteva essere letto come leggera critica al politically correct - ma allora sarebbe molto meglio guardarsi piuttosto Sistemo l'America e torno (di Nanni Loy, con Paolo Villaggio) di molti decenni fa.

Buono tecnicamente, ben recitato - lavoro notevole di Cluzet che ha dovuto fare a meno del corpo, facendomi pensare alla commedia dell'arte, dove gli attori, al contrario, dovevano fare a meno della mimica facciale - piacevole colonna sonora, dove i due personaggi sono caratterizzati da brani classici per il ricco, e di black-music per il povero, con la sintesi (evidentemente sbilanciata) rappresentata da una selezione della produzione di Ludovico Einaudi.

Eva

Ma com'è che gli spagnoli si sono buttati sulla fantascienza (vedi anche Timecrimes)? E com'è che riescono ad ottenere ottimi risultati in un genere che (a mio gusto) è stato rovinato dall'eccessiva disponibilità monetaria?

Già, perché, paradossalmente, troppi soldi a disposizione rischiano di spostare l'interesse dalla storia agli effetti speciali, trasformando i film in giocattoloni che possono anche essere divertenti da vedere, ma che lasciano poi poco o niente su cui rimuginare. Qui invece il budget è basso, e si vede, ma il racconto ha una sua profondità, e tocca temi interessanti.

Siamo in un futuro prossimo venturo, in cui (causa il basso budget) la tecnologia ha fatto passi da gigante in alcuni aspetti e poco o nulla in altri. Un ingegnere robotico di gran prestigio (Daniel Brühl) torna nel centro di ricerche spagnolo che aveva lasciato dieci anni prima, richiamato per tentare di completare un lavoro in cui altri hanno fallito. Il che sarebbe creare un robot-ragazzino, pensato probabilmente per coppie sposate che non riescono ad avere figli.

Il problema è che per programmare il comportamento del robot, l'ingegnere deve studiare un ragazzino "interessante" per duplicare quel carattere, e lui crede di identificare il modello in una ragazzina molto simpatica. Tale ragazzina, però, risulta essere curiosamente molto affine a lui, per motivi che verranno spiegati in seguito, a chi avrà l'interesse di vedere di film.

Bravi, dunque, gli sceneggiatori che hanno imbastito una storia che porta a ragionare su temi quali la paternità, la coscienza individuale, l'empatia, l'intelligenza, il carattere, il rapporto tra fratelli, eccetera. Bravo pure il regista (Kike Maíllo) che riesce (quasi sempre) ad evitare i rischi del film di genere, e a non far pesare (almeno, non troppo) il "già visto" di film come Minority report, A.I. o il "già letto" del Frankenstein.

Buono pure il cast, anche se per me sono tutti illustri sconosciuti, a parte il buon Brühl che, grazie alla madre spagnola, riesce agevolmente a interpretare in modo credibile personaggi non solo tedeschi. Non ho capito, fra l'altro, quante lingue parli, visto che se la cava pure in francese (era anche in E se vivessimo tutti insieme?)

Deboli, ma tutto sommato accettabili, gli effetti speciali, giustamente usati il meno possibile. Poco interessante la colonna sonora, in cui però spicca una scheggia di Space oddity di David Bowie.

Magnifica presenza

Pietro (Elio Germano) è uno sfigatissimo catanese che arriva a Roma attirato dal sogno del cinema, o forse da quello della grande città. Come attore è infatti decisamente scarso, lo vediamo in un provino che sembra un incrocio tra quelli di L'uomo delle stelle e di Sono fotogenico, e viene il dubbio che l'attrazione sia più per tale Massimo che lavora in quel mondo. È dunque Pietro omosessuale? Nonostante che la gayezza sia un tema costante della produzione Ferzan Ozpetek (regia e co-sceneggiatura, assieme alla brava Federica Pontremoli) non ne sarei così sicuro. Gli si parano infatti davanti un paio di facili occasioni, una vecchia checca estrema che gira nella notte romana in un abitino leopardato e un vicino di casa più o meno coetaneo, più o meno normale. Ma non sembra quasi nemmeno accorgersi di entrambi. Meno assente sembra con chi scrive i testi per la compagnia teatrale in cui si imbatte, ma con lui non c'è proprio niente da fare. Sembra dunque che, più che altro, sia confuso, in attesa di trovare una sua collocazione nel mondo.

L'incontro che, forse, lo sbloccherà è quello con una fantasmatica compagnia teatrale intrappolata nell'appartamento che ha preso in affitto. Da notare che la padrona di casa sa benissimo delle inquietanti presenze, e le usa per scipparsi le caparre che gli inquilini lasciano, abbandonando la casa immediatamente quando scoprono l'inghippo. Ma Pietro è così "altro" che, dopo un primo tempo di inevitabile sconcerto, finisce per entrare in sintonia con quello strano gruppo che più altro di così non si può.

Sceneggiatura curata anche nei personaggi secondari, a cui spesso sono dedicate solo poche battute ma lasciano comunque intravvedere un notevole lavoro di scrittura. Bella colonna sonora (Pasquale Catalano) che segue l'azione con grande partecipazione. Buon cast, ad avere sufficiente spazio, oltre a Germano, è la sola Paola Minaccioni, nel ruolo della lontana cugina del protagonista, ma ognuno riesce ad avere qualche buon momento (Margherita Buy, Vittoria Puccini, Beppe Fiorello).

Bello il lavoro di sceneggiatura e regia sul gruppo di fantasmi, che sembrano usciti da una piece pirandelliana, anche come impostazione attoriale, visto che sono rimasti bloccati nei primi anni quaranta.

Il pescatore di sogni

Titolo quantomai ingiustificato, visto che è tratto da un romanzo che in originale è intitolato come il film, Salmon fishing in the Yemen, e che è stato tradotto in italiano come Pesca al salmone nello Yemen.

Credo che lo scopo sia quello di nascondere allo spettatore quello che lo aspetta, che è sì una commedia romantica, ma permeata da una sottile satira su basi paradossali molto inglese che, temo, non sia fatta per essere colta da parte degli spettatori italiani. Spaventati, i distributori avranno pensato di addolcire il titolo, con il discutibile risultato di attirare la platea sbagliata. E magari allontanare quella giusta.

La parte romantica è rappresentata dal luminare inglese del salmone (Ewan McGregor) che oltre a sapere tutto sulla sua biologia, lo pesca molto volentieri, al punto da essere noto anche come l'inventore di esche estremamente efficaci. E se detto questo non sembra il soggetto ideale per la parte, figuriamoci se aggiungo che, da bravo nerd, ha una paurosa difficoltà ad esprimere le proprie emozioni, un senso dell'umorismo inesistente, quasi quanto la sua capacità di provare empatia. Ma, datelo per assodato, non è una cattiva persona. Sposato ad una donna in carriera a cui sembra vada bene così com'è (forse perché è poco ingombrante e teleguidabile?) e con un lavoro al ministero che non pare entusiasmante, conduce una vita molto grigia.

Lei, invece, è una tipetta molto frizzante (Emily Blunt), che deve aver avuto qualche rovescio sentimentale nel passato e che cerca una relazione che sia soprattutto stabile. La trova in un militare (Tom Mison) che però deve partire in missione per chissà dove. Tolto temporaneamente (?) di scena il soldatino, il campo resta libero per l'incontro dei due protagonisti, galeotto uno sceicco yemenita (Amr Waked) strapieno di soldi, con l'hobby della pesca al salmone, che si è messo in testa di adattare una valle montuosa del suo paese, dalle particolari caratteristiche geografiche che rendono non impossibile a priori la faccenda, alla vita, e alla pesca, del vivace pesciotto. Si appoggia dunque alla ditta della Blunt per realizzare il progetto. La Blunt contatta McGregor per avere un parere specialistico, e il diabolico meccanismo viene attivato.

In realtà manca ancora un elemento, la politica. Già, perché l'idea è così improbabile che non se ne farebbe nulla, se non fosse che la guerra in Afghanistan va maluccio, il governo ha bisogno di una qualche buona notizia di collaborazione arabo-inglese, e lo spin-doctor della situazione (una Kristin Scott Thomas in gran forma) non trova di meglio che spingere questo piano.

Si crea dunque una strana relazione a tre tra individui bizzarri ma con caratteristiche interessanti (a dire il vero, quello la Blunt mi pare il più debole dei tre), a cui l'improbabile progetto servirà come occasione di crescita.

Bella, come sempre, la colonna sonora di Dario Marianelli, buona la regia di Lasse Hallström (come non gli capita spesso, mi spiace dirlo), piacevole la fotografia (Terry Stacey) avvantaggiato anche dalla meravigliosa natura scozzese e marocchina (che fa le veci dello Yemen).

Amarcord

Trasognata e trasfigurata carrellata di memorie di infanzia, a cui la nebbia del tempo passato dà una patina magica indimenticabile, grazie anche al tocco di Nino Rota.

Mitica collaborazione tra Tonino Guerra e Federico Fellini che mescola elementi poetici a greve materialità, creando un impasto che ricorda molto la vita, come raramente si trova qualcuno capace di rendere per immagini.

Si tratta in teoria di una serie di quadretti staccati tra loro, che seguono un anno di vita riminese negli anni trenta. In pratica la memoria gioca qualche scherzo ai narratori, che confondono le date, in modo che l'edizione della Mille Miglia rappresentata non corrisponde all'anno di uscita dei film che i ragazzi vedono al cinema locale, e nemmeno con la grande nevicata, per non parlare poi del passaggio del Rex. È dunque da leggere non come un documento storico, ma come la svagata rievocazione di un personaggio non ben identificato (si direbbe "Titta", il ragazzino di cui finiamo per conoscere tutta la famiglia, un po' alter-ego di Fellini, un po' ricordo di un suo amico, un po' personaggio di fantasia), che molti anni dopo ripensa, o magari racconta, la sua infanzia, mescolando fatti reali, immaginari, possibile e improbabili, in una modalità che potrebbe far pensare anche a sedute psicoanalitiche.

La geniale combinazione tra cultura alta e bassa trova riscontro nel cast artistico impiegato. Pupella Maggio, grande attrice teatrale napoletana che non disdegnava partecipazioni cinematografiche dimenticabili, è la madre di Titta (doppiata da una riconoscibilissima Ave Ninchi). Per la parte di Gradisca era prevista niente meno che Edwige Fenech (dell'anno precedente è il suo "Quel gran pezzo della Ubalda tutta nuda e tutta calda", tanto per non far titoli), tagliata all'ultimo momento a vantaggio di Magali Noël, per un problema di stazza. La Fenech avrebbe dovuto mettere su qualche chilo di più per entrare in parte, ma proprio non ci riusciva. Ciccio Ingrassia (l'anno successivo sarebbe stato il barone di Vistacorta di Farfallon) è il memorabile zio matto di Titta, l'altro zio (Patacca) è Nando Orfei. Diverso il caso di Naso, uno degli amici di Titta, che è Alvaro Vitali, nato con Fellini (figurante nel suo Satyricon), e che abbraccerà la nota carriera trash più avanti.

The help

Il materiale alla base del film è interessante, in quanto mostra, anche se in modo edulcorato, come fosse considerato "normale" il razzismo negli USA, almeno in uno Stato come il Mississippi, non molti anni fa.

Curioso che quella che dovrebbe essere la protagonista del film (Emma Stone), perda a poco a poco spazio, che le viene rubato da Viola Davis e Octavia Spencer, al punto che il finale è narrato dalla Davis, quando la Stone è già uscita di scena.

Regia poco memorabile (Tate Taylor), che sembra più da serie televisiva (ben fatta, eh) che da grande schermo. Sceneggiatura sbilanciata (anche questa di Taylor, basata sul romanzo di Kathryn Stockett) che parte con un flashback che non capisco che funzione narrativa abbia, e poi cerca di seguire troppe storie contemporaneamente. Meglio sarebbe stato dare una bella sfoltita, puntare su meno personaggi, e approfondirli.

Nonostante i suddetti difetti, il risultato è buono, grazie alla storia originale e al buon cast - praticamente tutto al femminile, gli uomini hanno solo particine di supporto.

La storia principale è quella delle governanti di colore che, pur essendo la figura di riferimento nella crescita dei bambini bianchi (nelle famiglie che se lo potevano permettere), venivano considerate quasi sub-umane. Inizialmente vista dal punto di vista di una bianca (la Stone), prende il sopravvento quello delle dirette interessate. Tra i numerosi filoni secondari, interessante quello della Jessica Chastain, considerata "white trash" e trattata come paria dalla buona società locale, e quello della Allison Janney, madre della Stone, inizialmente a suo agio in un ambiente razzista, ma che ha una dolorosa maturazione del personaggio che la porta a mettersi in discussione.

Taxxi 3

Non che cambi molto rispetto allo primo o, soprattutto, al secondo episodio, ma a questo punto la debolezza strutturale della trama non regge più. Meglio sarebbe stato fermarsi prima, se non fosse per l'aspetto commerciale dell'operazione.

Fondamentalmente si mantiene il cast della seconda puntata. Immutate regia (Gérard Krawczyk) e co-produzione/ispirazione generale (Luc Besson), la novità sta nella maggiore internazionalizzazione, affidata principalmente alla partecipazione di Sylvester Stallone nella sola scena iniziale (solita folle corsa in taxi), ed al deciso taglio dei toni sciovinisti usati dal commissario. In Francia fanno ridere, all'estero lasciano perplessi.

Aumentano i riferimenti a 007, i titoli di testa ne sono un chiaro spoof, il ruolo di cattiva viene affidato ad una improbabile svizzero-cinese (Bai Ling) che usa gli stessi metodi dei bizzarri avversari bondiani.

Al solito i due protagonisti vivono vicende parallele, entrambe le loro donne (Marion Cotillard sottotono, doveva essersi stufata della serie, e Emma Sjöberg) sono incinte, il poliziotto (Frédéric Diefenthal) punta sempre più decisamente a livelli di imbranatezza alla Clouseau, ma il suo capo, più che replicare la contrapposizione alla Dreyfus, sembra essere un'altro Clouseau, il che rovina l'effetto e rende il ruolo del commissario tutto sommato inutile.

Il taxi del titolo continua a subire mutazione improbabili, arrivando pure a viaggare sulle nevi delle Val d'Isère. Il suo proprietario (Samy Naceri) diventa sempre meno interessante. È una specie di Topolino saputello che risolve i guai del suo amico. Il suo unico problema è quello di convincere la sua donna a stare con lui, cosa che si capisce subito sia un non problema.

Taxxi 2

Cambia poco dal primo episodio, qualcosa in meglio, altro in peggio, risultato finale equivalente.

Sempre scritto e co-prodotto da Luc Besson, ma la regia è stata affidata al più solido Gérard Krawczyk, stesso gruppo principale di attori, in cui spicca Marion Cotillard, in rapida crescita, ha sempre poco spazio ma si vede che è sul punto di diventare una star. La principale new entry è il veterano Jean-Christophe Bouvet, nel ruolo del padre della Cotillard (e generale dell'esercito, che in un certo sostituisce la madre del poliziotto, misteriosamente eliminata dal cast.

Aumenta il budget, a Marsiglia viene affiancata Parigi, si dà troppo spazio all'ispettore sciovinista (ed imbecille, interpretato da Bernard Farcy) che mi pare il personaggio meno interessante. Troppo peso al personaggio del poco di buono (Samy Naceri) che confina in una posizione troppo subalterna il poliziotto (Frédéric Diefenthal), guadagna un po' più di respiro anche la seconda prima donna Emma Sjöberg, molto svedese ma spacciata, chissà perché, per tedesca.

Continuano le citazioni molto scanzonate di film d'azione più seri, oltre ad un omaggio ai Blues brothers con un inseguimento catastrofico (per la polizia francese) che invece di Chicago si tiene lungo la Senna.

Taxxi

Misteri della distribuzione italiana, il film da noi ha guadagnato una X aggiuntiva nel titolo. Il suo interesse principale credo stia nell'essere il primo film di successo (commerciale, si intende) per Marion Cotillard, ai tempi ventenne.

Scritto e co-prodotto da Luc Besson, che l'ha fatto dirigere a Gérard Pirès che, temo, abbia fatto del suo meglio ma proprio meglio di così non gli è venuto. La storia in poche parole, è quella di 48 ore, una strana coppia, sbirro e delinquentello, che si trovano uniti dalle circostanze nel combattere contro i cattivi, in questo caso una banda tedesca di rapinatori di banche, e nel cercare di convicere le rispettive donne a stare con loro.

Ma la scena iniziale, con il protagonista-delinquente alla guida indemoniata di scooter trasporto-pizza sulle note della Misirlou di Dick Dale, mette bene in chiaro lo stile post-tarantiniano con cui viene affrontata la vicenda:

Il piccolo delinquente lascia subito dopo lo scooter per un taxi da formula uno (e per la Cotillard), incappa nel poliziotto e nella di lui madre, che lo trascinano in una storia, tutto sommato divertente, densa di colpi di scena e buchi di sceneggiatura.

Più i secondi che i primi, a dire il vero.

Timecrimes

Noto quasi ovunque con il titolo internazionale inglese, invece dell'originale spagnolo Los cronocrímenes, irreperibile in italiano, ma da noi disponibile in altre edizioni. L'ho visto in spagnolo senza tanti problemi, grazie al fatto che i dialoghi non contano poi molto, e che dopotutto si tratta di una lingua sorella.

È il primo lungometraggio di Nacho Vigalondo, che l'ha scritto, diretto, e interpretato in uno dei (pochi) ruoli secondari. Difficile raccontare la trama senza rovinare il piacere della sorpresa, cerco dunque di dire il minimo indispensabile, sperando che basti a interessare il lettore che non l'abbia ancora visto.

Un tale di mezza età, con pochi capelli e una sostanziale pancetta, si è appena mosso con la moglie in una villetta immersa nel verde. I due (più lei che lui, a dire il vero) lavorano alacremente all'arredamento, quando a lui pare di vedere un movimento sospetto tra gli alberi. Insistendo a cercare col binocolo, scopre che si tratta di una bella ragazza che mette in mostra le sue notevoli grazie. Incuriosito, il nostro uomo si incammina per capire meglio cosa stia succedendo.

Fino a questo punto l'azione è stata lenta, la sceneggiatura mi è sembrata debole, e il basso costo della produzione fin troppo evidente. Ma il seguito è una sorprendente corsa senza fiato (letteralmente, il protagonista è fuori forma, e dopo pochi secondi di corsa ha il fiatone) fino alla soluzione dell'intricata vicenda.

L'intrico è dovuto al fatto che il protagonista si troverà a viaggiare nel tempo, con il corredo dei soliti paradossi che uno deve affrontare in questi casi.

I viaggi, nel tempo e nello spazio, sono un affascinante tema della letteratura fantascientifica, ma hanno solitamente un grosso problema al cinema. Occorre spendere una caterva di soldi per rendere adeguatamente l'inventiva che sottendono. In alternativa bisogna avere un'idea geniale, e soprattutto nel caso dei viaggi temporali, la capacità di distrarre a sufficienza lo spettatore dal notare la contraddizione logica che, giocoforza, si deve nascondere da qualche parte.

Vigalondo ci riesce benissimo, limitando il viaggio del tempo ad una faccenda di poche ore, e creando una spiazzante struttura a incastro, in cui ci ritroviamo a rivivere la stessa serie di eventi seguendo il punto di vista del protagonista che migliora la sua comprensione dei fatti ogni volta che li ripercorre. Sembra di guardare una trasposizione cinematografica di uno di quei disegni impossibili di Escher.

Ripensandoci, l'inizio fiacco è forse necessario per stabilire la base su cui poi si sviluppa la (frenetica) azione, e non lo considererei quindi un difetto del film. Avrei preferito però che il finale fosse incruento - con un po' di fantasia poteva funzionare lo stesso - ma evidentemente al Vigalondo faceva piacere narrare un bizzarro delitto senza castigo.

Biancaneve e il cacciatore

Non so se esista titolo che sia più clamoroso spoiler di questo. Biancaneve sarà infatti chiamata a scegliere tra l'amore del principe William (nulla a che fare con personaggi realmente esistenti) e il cacciatore del titolo. I conoscitori della fiaba orginale arricceranno il naso, ma le varianti non si fermano qui. La storia viene sviluppata tenendo d'occhio l'immaginario del Signore degli Anelli, della Storia infinita, direi anche Guerre Stellari, e magari anche un tocco della Giovanna d'Arco di Luc Besson (Milla Jovovich). Il che porta ad un notevole arricchimento rispetto alle premesse iniziali.

Curioso che nelle stesso anno sia uscita una seconda Biancaneve, l'altra ha la regia di Tarsem Singh e vede contrapposte Julia Roberts (regina cattiva) a Lily Collins. Quella versione dovrebbe piacere ad un pubblico più giovanile (e femminile), questa, invece, mi pare più pensata per un pubblico sempre minorenne ma con qualche anno in più. Più oscura, più militaresca, meno scanzonata.

Pur essendo alla sua prima regia, Rupert Sanders non se la cava per niente male.

La bella regina madre (Liberty Ross) ha giusto il tempo di concepire Biancaneve, farle un paio di raccomandazioni prima di lasciare questa terra. Il padre (Noah Huntley) ha qualche battuta in più, giusto il tempo di farsi gabbare dalla perfida Ravenna (una splendida Charlize Theron).

Anni dopo, Biancaneve è diventata Kristen Stewart, e Ravenna decide che sia giunta l'ora di mangiarle il cuore (niente di personale). Lei però scappa nella mefitica Foresta Oscura, e il cacciatore (Chris Hemsworth) viene ingaggiato per ritrovarla. I due, però, finiscono per fare comunella, e scappano inseguiti dalle Forze del Male, fra cui si fa ingaggiare il principe William (Sam Claflin) in incognito, arcere che Legolas gli fa un baffo (OK, diciamo che è un match alla pari). Varie peripezie, incontro con gli Otto Nani, che una provvidenziale freccia riduce ai meglio noti Sette Nani. Non ho capito bene come hanno fatto, ma tra i nani mi sembrava di aver notato facce note, che poi sono risultati essere Bob Hoskins (!), Nick Frost (!!) e Toby Jones (!!!). C'è anche un incontro con un misterioso enorme cervo chiamato "Cuore bianco", che mi ha fatto pensare alla Principessa Mononoke.

Colpo di coda di Ravenna, che sembra aver ragione di Biancaneve, ma la favola ha un finale che non può essere cambiato (almeno, non così radicalmente), e dunque Biancaneve rediviva fa un discorsetto alla Enrico V (anche se ovviamente Shakespeare - e pure Kenneth Branagh - sono su un altro pianeta), si veste da amazzone guerriera e parte all'assalto del suo castello natio.

Pur essendo in fin dei conti una storia in bianco e nero, c'è da apprezzare lo sforzo degli sceneggiatori (tra cui spicca il nome di Hossein Amini) per non lasciare i personaggi nella bidimesionalità delle favole. La crudele Ravenna ha infatti un terribile passato alle spalle, il che ovviamente non giustifica il suo comportamento, ma lo spiega. Inoltre, pure essendo nera dentro (nera come i corvi in cui si trasforma e da cui ha preso il nome) ha le sembianze della biondissima Theron. D'altro canto la buona Biancaneve, che finirà per versare lacrime pure per la crudele matrigna, verrà incoronata in una cerimonia contornata da guardie che non mi paiono poi molto diverse da quelle di cui amava circondarsi Ravenna, e ha un certo non so che nello sguardo che non mi avrebbe fatto stare molto tranquillo, se fossi stato in quella sala.

Cosmopolis

Regia (David Cronenberg, anche sceneggiatura) impeccabile, che traspone ottimamente il notevole omonimo romanzo di Don DeLillo, brillante prova attoriale un po' di tutto il cast artistico, ineccepibile la prova del cast tecnico, colonna sonora intrigante anche nella sua assenza (gran parte del tempo siamo avvolti da un silenzio quasi insostenibile).

Il risultato è però di una pesantezza e freddezza che ho fatto fatica a sopportare fino in fondo. Notevole, ma non uno di quei film che uno affronta a cuor leggero.

La storia è quella della giornata decisiva di un giovane miliardario (Robert Pattinson) che ha fatto fortuna speculando sul cambio delle valute. Nonostante il caos in cui versa la città (New York), è assolutamente determinato ad attraversarla per andare dal suo barbiere, nel quartieraccio periferico in cui è nato, per un taglio di capelli.

Prende dunque la sua incredibile limousine, una specie di astronave fornita di tutto, e si appresta a questa traversata sulla falsa riga dell'Ulisse di Joyce, che è un po' il riassunto della sua vita. Il viaggio è così lento che durante il percorso gente sale nella sua macchina (tra cui Samantha Morton, analista teorico, e Juliette Binoche, amante), e lui scende per mangiare un paio di volte con la moglie (Sarah Gadon, appena sposata ma già sull'orlo della separazione), aver sesso con una guardia del corpo, e altre cosucce.

Ne succedono di tutti i colori. Il presidente USA è in visita, e pare che qualcuno gli voglia sparare; un popolarissimo sufi-rapper è appena morto, e il funerale attira folle oceaniche; una manifestazione anticapitalistica, in cui i manifestanti usano topi come meme (usare i topi come unità di scambio è la loro provocazione, che non scalfisce minimamente il protagonista, che pensa a come adatterebbe il suo lavoro alle mutate condizioni); un paio di attentatori sulle tracce anche del nostro uomo, con la sua intelligence che cerca di prevenire le loro mosse.

Inoltre, è in corso una speculazione contro lo yuan che si sta risolvendo contro le aspettative del genio della speculazione. O forse è una sua intenzionale mossa autodistruttiva. Ma tutto questo è svolto con una noncuranza che lascia basiti. Anche il confronto finale tra il protagonista e la sua nemesi (Paul Giamatti) si svolge quasi senza un briciolo di passione. Almeno fino all'ultima sequenza, quando finalmente se ne vede un barlume.

La lettura più ovvia che mi è venuta in mente è che si tratti di una rappresentazione della speculazione finanziaria, che venga mostrato quanto sia distaccata dalla realtà dei fatti e della natura umana, e la sua valenza autodistruttiva. Ma sul tema mi sentirei di consigliare la visione di altri film, tipo Margin call, forse inferiori tecnicamente, ma più fruibili.

To Rome with love

Il titolo non è particolarmente azzeccato, arrivando come terza scelta dopo l'iniziale Bop decameron, che voleva suggerire un riferimento al Boccaccio mediato dalla passione jazzistica, e dal successivo Nero fiddled, prima parte della versione inglese del modo di dire "Nerone suonava la cetra (o la lira?) mentre Roma bruciava". Entrambi bocciati perché pare che sia Boccaccio sia Nerone siano diventati degli emeriti sconosciuti. Dunque, pur avendo un ruolo importante, Roma non è la protagonista del film, e non sarebbe difficile riscrivere la sceneggiatura adattandola ad un altra città.

Il film è strutturato in quattro episodi che hanno in comune, oltre alla location, il tema di fondo, il rapporto dei protagonisti con la fama. Lo svolgimento coinvolge principalmente personaggi italiani e americani, il che dà modo a Woody Allen di realizzare un opera bilingue, che è un peccato sia stata trasformata in monolingua italiana nella nostra edizione locale, facendole perdere parte dell'interesse.

Una turista americana (Alison Pill), incontra un fustacchione romano (Flavio Parenti) i due si piacciono e decidono rapidamente di convolare. I genitori di lei (Judy Davis e Woody Allen) vengono dunque chiamati per conoscere il promesso sposo e la di lui famiglia. Il padre di lui (niente meno che Fabio Armiliato) ha una impresa di pompe funebri e una favolosa voce tenorile, a cui però riesce a dare sfogo solo sotto la doccia. Allen, regista di opere liriche in pensione, vede la possibilità di creare una star, e realizza una folle versione dei Pagliacci di Leoncavallo che ottiene contemporaneamente un gran successo (per la voce di Armiliato) e nette stroncature (per la regia). Per sua fortuna, il regista pensionato non conosce l'italiano, e dunque non capisce molto delle recensioni, credendo che "imbecille" sia un complimento.

Una giovane coppia (Alessandro Tiberi e Alessandra Mastronardi) arriva a Roma in luna di miele, attirati dagli zii di lui che vorrebbero inserire il nipote in una importante posizione di lavoro. Il caso li separa, e si trovano a vivere un'avventura simile a quella del felliniano Sceicco bianco. Lei si perde nella città, (chiede informazioni anche a Maria Rosaria Omaggio, ma Roma è troppo labirintica per lei) e incappa in un set cinematografico, fa tenerezza ad una famosa attrice (Ornella Muti) che la presenta alla star (Antonio Albanese), che se la porta in albergo, anche se non riesce a concludere per l'intermissione di un fascinoso rapinatore (Riccardo Scamarcio). Nel frattempo lui viene agganciato per errore da una fascinosa prostituta (Penelope Cruz), che si trova a dover far la parte della moglie in assenza della Mastronardi. I due verranno portati ad una festa a cui partecipa la "crème de la crème" della società romana, organizzata dal futuro capo di Tiberi (Bustric), a cui partecipano gran parte dei clienti della Cruz (tra cui Gian Marco Tognazzi).

Un noto architetto (Alec Baldwin) lascia che moglie (Carol Alt) e amici si dedichino al tour classico della città mentre lui, in preda alla melancolia di Ozymandias (citazione al quadrato via Stardust memories di Shelley) si aggira per i vicoli trasteverini alla ricerca dei luoghi della sua gioventù - aveva lì passato un anno da studente di architettura. Seduto su una panchina che ricorda molto quella de L'altro ne Il libro di sabbia di Jorge Luis Borges, viene riconosciuto da un altro americano, un giovane studente di architettura (Jesse Eisenberg) che ora vive in quello che era il suo appartamento con la sua fidanzata (Greta Gerwig). Sta giusto per arrivare a sorpresa una sua amica (Ellen Page) che, Baldwin capisce al volo, finirà per mettere alla prova gli equilibri della coppia. Più questa storia procede, e più risulta evidente che Baldwin sta vivendo una reverie della sua esperienza romana (a un certo punto la Page usa la stessa espressione allen-shelliana sopracitata).

Un impiegato qualunque (Roberto Benigni) a cui nessuno dà molto credito, lo sentiamo ad esempio pontificare sulla Solitudine dei numeri primi paragonata al Discorso del re all'uscita del cinema, senza che nemmeno moglie e amici (tra cui Lina Sastri) gli diano molta retta, diventa improvvisamente ed inesplicabilmente famoso. Il capoufficio (Giuseppe Pambieri) lo promuove a manager, passandogli pure una piacente segretaria disposta a tutto. I giornalisti (tra cui Donatella Finocchiaro) lo pedinano per chiedergli cosa ha mangiato a colazione, o di fare una dichiarazione qualunque. Attrici gli si buttano tra le braccia, tutti quanti vogliono suoi autografi. Finché un giorno il codazzo di giornalisti che lo segue vede un'altra preda su cui buttarsi e lo molla al suo destino.

Varietà di toni sottolineata anche da una colonna sonora quantomai disomogenea che combina Ciribiribin con la traviata, Amada mia amore mio del El pasador con Nel blu dipinto di blu.

L'episodio più tragico è quello di Benigni. Personaggio senza troppe pretese (si definisce "un coglione qualunque"), gli viene concesso un quarto d'ora di celebrità senza che lui ne abbia fatto richiesta, celebrità che viene altrettanto brutalmente tolta, lasciandolo in uno stato di confusione (prima ne è felice, poi si accorge che ora gli manca quell'essere al centro dell'attenzione che ha avuto per così poco tempo) che lo porta sul bilico della follia.

Melanconica la sezione di Baldwin, che rivede se stesso giovane, pieno di speranze e possibilità, si accorge di aver guadagnato esperienza col passare degli anni, che gli sarebbe forse servita ai tempi, ma di cui ora non è che sappia poi bene cosa farsene.

Più positivi gli altri due tasselli, in quello di Allen, lui riesce ad avere quell'attimo di successo che aveva cercato per tutta la vita (o almeno crede, grazie alla sua ignoranza dell'italiano); Armiliato riesce a dire no al successo, ma nel contempo a raggiungere il suo sogno, e anche Parenti impara a ragionare meno in bianco e nero e a capire le numerose sfumature che ci possono essere tra due estremi.

Quello della Mastronardi (fra parentesi, è da notare come lei, e gran parte del resto del cast italiano, regga benissimo il confronto con le star americane, a maggior dimostrazione che la crisi del nostro cinema non è dovuta a carenze artistiche) è il più romantico, nel senso più maturo del termine. Lei ha la testa fra le nuvole, ma sa ben distinguere quella che è una avventura da raccontare ai nipoti da quella che è una scelta per la vita. Lui capisce che una vita a Roma in un ambiente che non è il suo sarebbe un inferno, e non il paradiso che immaginava, e preferisce puntare su una vita più semplice e più adatta a lui. Ma è anche capace di fare tesoro dalle sue esperienze, non ritorna alla sua precedente esistenza, piuttosto la cambia senza rinnegarla.

Melinda e Melinda

Ne La dea dell'amore, di dieci anni prima, Woody Allen modificava la sua tipica commedia newyorkese contrapponendole niente meno che la tragedia greca. Contrapposizione che si trasformava rapidamente in scambio di temi e persino di personaggi, che passavano tranquillamente dal teatro greco di Taormina alle vie di Manhattan e viceversa, per arrivare alla allegra fusione finale, con il coro greco che si trasforma in una coreografia che non stonerebbe in molti spettacoli a Broadway.

In Melinda e Melinda Allen fa qualcosa di simile e anche molto diverso. Usando uno schema che fa pensare al Decameron (o al Bar Sport), presenta una cornice in cui due registi (Wallace Shawn e Larry Pine), che direi proiezione delle due anime del cinema alleniano, che discutono su commedia e dramma, e la loro relazione sulla realtà in cui viviamo. Un terzo commensale propone ai due una storia reale e chiede ai due di leggerla a seconda del loro punto di vista. La vicenda di Melinda (Radha Mitchell) parte dunque dagli stessi presupposti, ma si sviluppa diversamente, con piccoli punti di contatto.

La struttura fa pensare allo Sliding doors di Peter Howitt e ai due film Smoking - No smoking di Alain Resnais. Ma invece di analizzare quanto il caso possa influire sulle vicende umane, basta perdere un treno del metrò, o decidere se fumarsi o no una sigaretta, per innescare una serie completamente di eventi, la prospettiva qui è quella di ragionare sul punto di vista del narratore, e quale, tra commedia e dramma, sia da preferire. Ovviamente il finale è aperto, lasciando l'ultima parola allo spettatore.

Basta la colonna sonora per dare l'idea di come viene sviluppata l'azione. Quella della Melinda drammatica è classica europeggiante, parte con Stravinsky (il bell'andantino che dovrebbe risultare noto agli ascoltatori di radio tre) e fa ampio uso di Bach, con supporto di Brahms, una punta di Beethoven e persino il ben poco popolare Bela Bartok. La Melinda da commedia è molto più sbarazzina, introdotta da Take the 'A' train di Duke Ellington (più newyorkese di così ...), indugia molto sulle musiche del Duca, mescolato ad altro jazz del periodo che mi è meno identificabile. E infatti il dramma ricorda molto i precedenti dell'Allen influenzato da Bergman e dalla filmografia drammatica europea in genere, mentre la commedia fila nei canoni classici alleniani.

Il personaggio "alla Woody Allen" è interpretato da Will Ferrel, naturalmente nella sezione commedia, che se la cava inaspettatamente bene, rispetto alle mie aspettative. Dopo la prima mezzoretta di perplessità ho finito per accettarlo nella parte. Molto meglio del risultato deludente della prova di Kenneth Branagh in Celebrity.

Nei ruoli minori da non farsi scappare Josh Brolin, odontoiatra dal basso livello intellettivo ma molto fascinoso, e Steve Carell, anche se solo puramente strumentale allo sviluppo. Una apparizione anche per Andy Borowitz.

Paycheck

L'idea di partenza è simpatica (bella forza, viene da un racconto che, per quanto minore, è pur sempre scritto da Philip K. Dick) ma lo sviluppo (sceneggiatura di Dean Georgaris, pare aver abbandonato la carriera per passare a fare il produttore, con risultati che gli auguro migliori; regia dell'adrenalinico John Woo) m'è parso sottotono, una specie di riepilogo di film del genere, diretto e recitato senza troppa convinzione, per un risultato che, almeno nel mio caso, non definirei memorabile.

Infatti mi ero dimenticato di averlo visto, e per la prima mezz'oretta ho notato le somiglianze con gli altri film, per poi accorgermi che assomigliava anche al se stesso che avevo visto e che mi ero dimenticato. In teoria la circostanza varrebbe un parallelo con la storia raccontata, visto che il sottotitolo è "remember the future", ma nel mio caso si tratta di pura sbadataggine, mentre nel film le cose sono molto più complicate ed implausibili. Per un migliore resoconto del film rimando a quello che ne ha recentemente scritto Tomobiki, che mi ha fatto venire il dubbio "non visto, o visto e dimenticato?" che è stato cancellato dalla visione.

Un super-ingegnere (Ben Affleck) che sa e fa tutto, preferibilmente da solo, ma non è un nerd-mollusco bensì ha anche un fisico e una combattività da agente segreto, si prende una cotta per una bella biologa di cui non sa nulla (Uma Thurman), che lavora per un suo amico milionario (Aaron Eckhart), che lo coinvolge in un lavoro segretissimo strapagato ma con la clausola che gli verrà cancellata la memoria di tutto quello che ha fatto. Al tizio la cosa va bene, perché ha già fatto cose del genere, sotto la guida del suo amico-manager un po' sfigato (Paul Giamatti), che però gli sconsiglia questo lavoro, e perché la topolona di cui sopra sarà - non si capisce bene a che titolo - nel suo stesso laboratorio.

I tre anni dell'assegnamento passano in un baleno, e il tipo si ritrova tre anni più vecchio, e molto più ricco. Anzi no. Perché scopre che il suo vecchio io ha barattato il suo compenso per una busta contenente una ventina di oggetti di scarso valore. Il come mai verrà spiegato dal resto dell'azione.

Buchi di sceneggiatura tanto grandi da farci passare pullman, scene d'azione che non mi hanno molto coinvolto, nonostante la coreografia non disprezzabile e la sponsorizzata BMW Rockster (nel senso di moto, dunque) che sfreccia manco fossimo nel coetaneo Matrix Reloaded (lì il product placement era made in Ducati).

Chef

Commedia d'ambito culinario senza troppe pretese. Una ora e mezza che corre veloce, senza grandi sorprese, con qualche risata, con qualche sopportabile tempo morto.

Tutto giocato sulla contrapposizione dei due protagonisti (Jean Reno e Michaël Youn) che in realtà non è che siano mai su versanti opposti, più che altro uno passa le consegne all'altro.

Un importante cuoco francese (Reno) si trova in contrasto con gli azionisti, che preferirebbero abbandonare la cucina tradizionale per dare spazio a quella molecolare, con l'idea che sia più alla moda e meno costosa. Un giovane cuoco spiantato (Youn) trova lavoro solo come imbianchino a causa della sua rigidezza nel proporre le ricette. Il primo finisce per arruolare il secondo, e infine per accettare la sua capacità di mediare tra la tradizione e l'innovazione.

In parallelo si svolgono le vicende sentimentali dei due protagonisti, che verranno risolte nello stesso modo.

Nulla di particolarmente interessante nella storia, dunque, che però è scritta e diretta senza sbavature da Daniel Cohen. Lasciando sperare che in futuro ci proponga vicende più appassionanti.

E se vivessimo tutti insieme?

Sembra che stia nascendo un nuovo filone di commedie della terza età, vedi anche Marigold Hotel, che penso abbia ragione di essere più nell'ampia disponibilità di grandi attori over-70, che in un calcolo a tavolino sull'invecchiamento del pubblico.

Leggo infatti che il progetto di Stéphane Robelin era legato in partenza alla presenza del gruppo principale di protagonisti, e che l'ingresso di capitali tedeschi nella produzione ha impattato sul cast con il solo ingresso di Daniel Brühl, per dare un riferimento aggiuntivo agli spettatori germanici.

Il nucleo attoriale è dunque francese, con Claude Rich, Guy Bedos e Pierre Richard. Poi ci sono le internazionali Geraldine Chaplin (attiva soprattutto in Francia e Spagna) e Jane Fonda (newyorkese giramondo).

Non c'è molta storia, a dire il vero, più che altro si segue un gruppo di vecchi amici che decidono di vivere insieme, con i vari problemi che ne conseguono. Due coppie, in una una (Richard) ha problemi sempre più gravi con la memoria, e sua moglie (Fonda) scopre di avere un tumore incurabile. Nell'altra un sindacalista-attivista di sinistra (Bedos), sposato alla Chaplin, scopre che la polizia non gli dà più retta, nemmeno se lancia bottiglie agli agenti. C'è poi lo scapolo impenitente (Rich) che ha una sola grande passione, le donne, che è messa in seria difficoltà dall'avanzare dell'età. Al gruppo si aggiunge un etnologo (Brühl) che inizialmente avrebbe dovuto solo portare a spasso il cane di Richard ma, trascinato dalla Fonda, finisce per fare dello studio dei cinque amici tema della sua tesi di ricerca.

Episodi comici si mescolano a momenti romantici e anche drammatici. Visione sconsigliata ad un pubblico immaturo, ma a chi non faccia gli scongiuri al sol sentir parlar di morte dovrebbe piacere.

La lingua del santo

Sant'Antonio fa il miracolo, e un depresso ritrova la fiducia in sé stesso e, metaforicamente parlando, la lingua.

Ogni tanto mi chiedo come mai Carlo Mazzacurati sia sottovalutato, poi mi rendo conto che in realtà non è vero, è proprio ignorato. Il pubblico a vedere i suoi film non ci va. Tanto per fare un paragone scoraggiante, al cinema ha incassato la metà di Faccia di Picasso del buon Ceccherini.

Eppure si tratta di un buon film, con qualche difettuccio minore di sceneggiatura, ma ben scritto, diretto, interpretato, filmato (belli i luoghi che fanno da contorno, azione centrata in Padova, ma spazia dai monti alla laguna), interpretato da un buon cast dominato da un ottimo Fabrizio Bentivoglio con un bravo Antonio Albanese che gli fa da spalla, sottolineato da una piacevole colonna sonora.

Seguiamo la vicenda di Willy (Bentivoglio), un noto "mona" locale conosciuto con il soprannome di Alain Delon. Non c'entra molto qui, ma mi riesce difficile ignorare un altro noto pseudo Alain Delon, quello che anni dopo verrà narrato da De Sfroos (L'Alain Delon de Lenn). Decisamente diversi i due personaggi, ma caratterizzati dal fatto di essere figure deboli (nonostante quel che pensi di sé quello di Lenno), che rimandano ad altri, e non hanno una propria connotazione.

Dicevo che il nostro Alain Delon è in piena decadenza. Mollato dalla bella moglie (Isabella Ferrari), che per tutto il film sembra più una lontana visione del passato che una persona in carne ed ossa, ha perso la parlantina che lo caratterizzava (era una rappresentante di commercio) e conseguentemente il lavoro. In realtà lo sentiamo parlare un sacco, ma sono i suoi pensieri, quello che vorrebbe dire, ma non ha più la capacità di tradurre in parole reali. Il mutismo più assoluto lo coglie quando vorrebbe parlare con la ex, con cui non riesce a spiaccicare parola, nemmeno al telefono.

Decide quindi di darsi alla delinquenza, e l'azione parte con il suo primo furto. Penetra nottetempo in una scuola elementare per rubare un computer, che però non sa nemmeno bene cosa sia. Per sua fortuna, incontra un altro derelitto, Antonio (Albanese), malmesso quanto lui, ma che almeno sa cosa rubare. I due, in un qualche strano modo, si fanno simpatia, e decidono di fare coppia fissa, compiendo una serie di azioni da rubagalline, di così bassa livello che finiscono per essere ignorati anche dalle forze dell'ordine.

Caso vuole che i due finiscano per fare un furto inaudito, rubano addirittura le reliquie di Sant'Antonio (che tra l'altro sono state realmente rubate dieci anni prima, un caso che non è mai stato chiarito). Antonio sarebbe più pratico, fondere l'oro, piazzare le pietre preziose e via. Ma Willy vede in quello che è successo una via per uscire dallo sprofondo in cui sono finiti, smettere di essere una copia sbiadita di un grande attore francese, ed essere finalmente riconosciuto come individuo.

Riusciranno due perdenti come loro a vincere la partita della loro vita? Contro hanno la polizia, gli zingari (con Toni Bertorelli a capo), che considerano Sant'Antonio il loro patrono, i padovani devoti, rappresentati da un bizzarro imprenditore (Giulio Brogi), oltre che loro stessi, con le loro debolezze e difetti.

E cosa vorrà dire per loro vincere?

Particina per Marco Paolini, che appare in un incubo di Antonio come Sant'Antonio senza lingua.

La notevole colonna sonora è curata da Ivano Fossati, include molti brani di Riccardo Tesi, un Guantanamera su cui il film inizia e finisce (sottolineando che la storia è in realtà raccontata in flashback, e il presente storico è quello del finale), e altri brani, tra cui un paio di Talvin Singh, che creano un curioso effetto di spiazzamento sulle atmosfere venete che dominano visualmente.