Wonderwall

Un quarto di secolo più tardi Noel Gallagher prenderà ispirazione da questo film per scrivere l'omonima canzone degli Oasis, che verrà cantata da Liam diventando uno dei titoli più noti del gruppo. Ecco, questo penso sia il merito principale di questa pellicola. Credo che ad attirare Noel sia stata la colonna sonora, scritta da George Harrison. Non tra le migliori cose del Beatle, per dirla tutta.

La regia di Joe Massot è pesantemente influenzata dalle atmosfere proprie della swinging London di quegli anni, ci si ritrova un che di comune, ad esempio, con Blow-up di Michelangelo Antonioni, visione decisamente più consigliata. Fra l'altro i due film condividono anche la presenza di Jane Birkin, qui in un ruolo più centrale.

Si narra di Oscar (Jack MacGowran), uno scienziato molto stereotipizzato, distratto e asociale, che scopre di avere come vicina di casa l'affascinante Penny (la Birkin). Ci sono infatti un paio di buchi nel muro che separa i due appartamenti, da cui passano luci e suoni che lo attirano e lo trasformano in un guardone. L'impatto di Penny e della sua vita multicolore su Oscar è distruttivo. Smette di andare al lavoro, non ha più altri interessi che studiare la vita dei vicini (Penny convive con un fotografo) e fantasticare una relazione con lei.

Capita però che il fotografo molli Penny, e lei la prenda molto male, tentando il suicidio. Oscar si troverebbe nella condizione di fare qualcosa, ma la sua attitudine a comportarsi da osservatore distaccato ha il sopravvento. Contribuisce quindi a salvare Penny, ma mantenendo le distanze.

Finale criptico in cui Oscar torna al lavoro che sembra di nuovo dargli soddisfazioni, o forse è andato completamente fuori di testa e continua a vedere Penny ovunque.

Tutti per uno - A hard day's night

Il primo quarantacinque giri dei Beatles, Please please me, risale all'inizio del '63, e fu subito Beatlesmania. Un anno e mezzo dopo, una bizzarra concomitanza di cause portò all'uscita contemporanea del loro terzo album e primo film, entrambi titolati A hard day's night. Infatti da un lato c'era la distribuzione americana che pensava che la moda dei Beatles fosse destinata a svanire presto, e vedeva il film come un semplice escamotage per arrivare primi nella distribuzione del disco (trattandolo come colonna sonora di un loro film) rispetto alla locale consociata EMI che deteneva i diritti del disco ufficiale. Per i Beatles questo disco invece segna un passo in avanti nella definizione del loro stile, per la prima volta tutti i brani sono firmati esclusivamente da loro, e il film è una ghiotta occasione per mostrare il Beatles-pensiero, una esplosiva miscela di creatività, nonsenso e ipercinetismo finalizzata alla ribellione nei confronti dell'ingessata società del tempo che portò negli anni successivi al cambio paradigmatico della cultura occidentale.

Sono stati i Beatles stessi a scegliere sia il regista, Richard Lester, un americano che aveva scelto Londra per vivere e lavorare, e che era entrato nella cerchia di Peter Sellers, sia lo sceneggiatore, Alun Owen. Il limitatissimo budget ha anche implicato la scelta del bianco e nero, che del resto si sposa bene con le pretese documentaristiche della narrazione.

Si narra di come i Fab Four si rechino a Londra per esibirsi in uno show in diretta televisiva in cui suoneranno brani dal loro nuovo disco. Se Paul McCartney se la cava a buon mercato, grazie a barba e baffi finti che lo rendono irriconoscibile, John Lennon, George Harrison e Ringo Starr, devono correre a perdifiato per evitare una torma di fan assatanate che li inseguono. Giunti nel loro scompartimento, scoprono la compagnia di un vecchiaccio dall'aria malefica (Wilfrid Brambell) che Paul accredita come suo nonno. Costui è un seminatore di zizzania che passerà il tempo a combinare guai e sedurre donne. Altri fatterelli minori renderanno dura la vita a Norm (Norman Rossington), il loro manager, e Dick (Victor Spinetti), regista televisivo.

Doctor Who 8.6: The caretaker

Come da titolo, in questo episodio il Dodicesimo Dottore (Peter Capaldi), dovendo indagare sul solito robot bellico fuori controllo che per sbaglio si è arenato nel nostro tempo sul nostro pianeta (uno Skovox Blitzer, per chi fosse interessato), si sostituisce al bidello della scuola di Clara (Jenna Coleman).

L'azione fantascientifica è tutto sommato secondaria. Si rischia un paio di volte l'annichilazione del pianeta, normale amministrazione nelle storie whoviane, e un poliziotto di passaggio viene polverizzato.

Il vero nucleo di questa storia sta nel fatto che il Dottore incontra finalmente l'uomo che Clara s'è scelta come partner, Danny Pink (Samuel Anderson). E nessuno dei due prende bene la cosa.

Il Dottore avrebbe voluto per Clara qualcuno che gli assomigliasse, come Adrian (altro collega di Clara, che ricorda l'Undicesimo Dottore), e non ha nessuna simpatia per i militari, al punto che non riesce nemmeno ad assorbire l'informazione che Danny sia un insegnante di matematica, e continua ad associarlo all'educazione fisica.

Danny, che pure riesce a non sbarellare alla scoperta che Clara abbia una vita ben più complicata di quanto si immaginasse, ha una istintiva antipatia per il Dottore, che incasella nella categoria dell'ufficiale di classe sociale elevata, uno di quelli che causa i problemi, e poi manda i soldati a risolverli, o a morire nel tentativo.

E in mezzo c'è Clara, che vuole bene ad entrambi, anche se in modo diverso. E non riesce a capire che entrambi agiscono in modo così infantile perché temono che l'altro non le voglia bene quanto lui.

Aumenta lo spazio a disposizione di Courtney Woods (Ellis George), studentessa ribelle (già vista di sfuggita in Deep breath) che genera il panico in tutto il corpo insegnante. Il suo carattere bizzoso sembra che ben si adatti a quello del Dottore, al punto che questi le permette di fare un giro nella TARDIS, accampando pure l'ipotesi che possa diventare la sua nuova companion (anche se sembra avere un problema di nausea spaziale).

In questo episodio il Dottore cita River Song, prima volta da quando è Dodicesimo. Lo fa nel raccontare che, in seguito ad un litigio con la moglie, una volta passò un mese in una comunità di otarie, senza che queste si accorgessero della sua alienità. Argomento utilizzato per dimostrare a Clara come egli possa benissimo mimetizzarsi tra gli umani senza problemi. Da cui si evince anche che il Dottore reputi le otarie molto più percettive di noi.

Appunto per mimetizzarsi, nell'assumere il ruolo di bidello il Dottore abbandona temporaneamente la sua mise abituale, rimpiazzata da un anonimo camice. Questo è il suo unico strumento mimetico, oltre all'uso del nome John Smith, come da sua inveterata abitudine. Per il resto parla e agisce come suo solito, il che fa pensare che davvero abbia una miglior opinione delle otarie rispetto agli umani.

Riappare la terra promessa, una sorta di paradiso, oltretomba, o chissà che. Missy (Michelle Gomez) sembra essere un pezzo grosso, che abbia tra le sue funzioni quella dell'accoglienza dei nuovi arrivati. Non può fare tutto da sola, e questa volta vediamo in azione Seb (Chris Addison), che sembra essere un suo subalterno.

Il capitale umano

La notizia del film proposto dall'Italia all'Academy per il premio al film non in inglese, mi ha fatto ricordare che mi sono perso al cinema l'ultimo film di Paolo Virzì (scritto in collaborazione coi soliti Francesco Bruni e Francesco Piccolo). Ho rimediato appena possibile con una visione casalinga.

Ottima regia, solida sceneggiatura (basata sul romanzo omonimo di Stephen Amidon, che è stato rivoluzionato per trasporre l'azione dal Connecticut, visto come periferia di New York, ad una anonimizzata Varese/Brianza periferia milanese, mantenendone però l'essenza), bella colonna sonora che segue bene l'azione (Carlo Virzì), piacevole la fotografia (Jérôme Alméras), esemplare il cast, magari con qualche incertezza in alcuni ruoli minori (in particolare il debuttante Guglielmo Pinelli, Massimiliano, non è che mi abbia fatto fare salti di gioia).

Riusciremo a strappare il secondo Oscar consecutivo? Ci spero. La reazione dei critici americani, per il momento, mi pare positiva. Il premio del Tribeca a Valeria Bruni Tedeschi (e non è nemmeno il primo per lei) potrebbe essere un buon auspicio. La curiosità di vedere come gli italiani abbiano adattato un romanzo americano, e la valanga di premi che il film di Virzì ha già conquistato, potrebbero alzare l'attenzione. Che è la cosa più importante, per come si assegnano le statuette.

Al centro della storia c'è un povero diavolo, cameriere a cottimo, che mentre sta tornando a casa in bicicletta a notte fonda viene travolto da un SUV. Nel finale scopriremo che non riesce a sopravvivere all'incidente, e la sua vita o, come dicono gli assicuratori, il capitale umano, verrà valutata circa duecentomila euro. Questo dramma viene sbrigato in pochi minuti, facendo da cornice alla parte centrale del racconto, che è in pratica la storia di due famiglie, i Bernaschi e gli Ossola, che si trovano in contatto a causa del filarino tra i rispettivi rampolli, Massimiliano (Pinelli) e Serena (Matilde Gioli).

Per esigenze di tempo (e già così il film dura quasi due ore, che però filano via benissimo) ci si focalizza su tre personaggi, ognuno dei quali viene seguito in un suo proprio "capitolo" del film. Dino Ossola (Fabrizio Bentivoglio), Carla Bernaschi (Valeria Bruni Tedeschi), Serena Ossola (Gioli). Seguendo la prospettiva di Dino e Carla abbiamo modo di vedere da diverse angolazioni il personaggio di Giovanni Bernaschi (Fabrizio Gifuni) e, parallelamente, il giovane Bernaschi è reso dalla visione incrociata della madre Carla e di Serena.

Dino è un perdente che sta inseguendo da tutta la vita il sogno di diventare un vincente. Fatica sprecata. Ha già distrutto un precedente matrimonio, e mi pare molto probabile che manderà a catafascio anche la sua attuale convivenza, ed è un peccato, visto che Roberta (Valeria Golino) sarebbe una donna da tenersi stretta - e gli sta anche per dare un paio di gemelli. Ma a lui non importa nulla di lei e nemmeno di Serena, figlia della precedente unione, che vede semmai come utile aggancio per entrare nel mondo dei ricchi. Sarebbe un personaggio comico, se la sua rabbia (ben nascosta dietro a una facciata finto gioviale) e inutilità non lo rendesse squallido. E' così inutile che sparisce prima del finale, avendo forse ottenuto quello che cercava (soldi), lasciato da solo anche dalla sceneggiatura a scoprire di aver sprecato una vita intera.

Carla è ricca e depressa. Ha sposato Giovanni pensando che fosse il principe azzurro, scoprendo solo troppo tardi che lui aveva solo una passione, la finanza d'assalto, e che vedeva in lei solo un trofeo. Vive una vita inconsistente che mi ha ricordato quella della protagonista di Io sono l'amore, o anche peggio, visto che sembra sempre sull'orlo di dissolversi nell'aria. Non riesce nemmeno ad avere una qualche relazione con il figlio, che probabilmente ha ignorato per tutta la vita, e ha un solo soprassalto, in seguito al tradimento del marito. Giovanni tradisce la sua fiducia non con un altra donna (non ne sembra proprio il tipo) ma abbandonando il progetto di ristrutturare il teatro locale, che tanto stava a cuore a Carla (che ha un passato di attrice) per farne invece abitazioni di lusso. Lei lo ripaga con un ridicolo tradimento sessuale con un ancor più ridicolo insegnante di teatro (Luigi Lo Cascio). Basti dire che i due consumano guardando in dvd la Nostra signora dei turchi di Carmelo Bene. Nel finale sembra che sia sul punto di dare una scossa alla sua vita. Ma forse anche no.

Serena sta con Massimiliano, almeno questo è quello che pensano i genitori dei due giovinastri. In realtà lei si è resa conto che lui non fa per lei, ma non riesce a dare un taglio netto alla relazione. Ne inizia un'altra con un bello e dannato e, complice la giovane età di tutti gli implicati, viene fuori un pasticcio. Nonostante tutto sembra essere quella che esce meglio dalla storia.

Al centro della vicenda c'è dunque il denaro. Per lo sfortunato cameriere si tratta semplicemente della disumana quantificazione del valore della sua vita. Per altri (Dino, Giovanni) è lo scopo della loro esistenza. Carla lo ha forse visto come valore importante, ma ha scoperto amaramente di essersi sbagliata. A Serena sembra che non gliene importi nulla, e forse è questo l'unico modo per evitare i guai più grossi.

Godzilla

Non sono un fan del genere catastrofista, e dunque questo film non è stato pensato per me, ma occhio e croce mi pare che sia stato scritto per essere un buon prodotto medio di questa categoria.

Pur non apprezzando particolarmente storie di questo tipo, ogni tanto mi capita di vederne qualcuno, e ormai credo di averne identificato i tratti fondamentali.
Il tono con cui si narra il disastro è molto serioso, al massimo ci scappa solo una risata qua e là. Tra le eccezioni, Il dottor Stranamore, in cui la catastrofe atomica che si rischiava ai tempi della guerra fredda è satireggiata da Stanley Kubrick, e Piovono polpette, dove l'intero genere catastrofico viene parodiato e messo in ridicolo.
Muore un sacco di gente (anche se spesso i bambini vengono risparmiati). Come minimo una piccola comunità, magari creatasi casualmente come nel caso dei passeggeri di una nave (vedi Titanic), viene minacciata di estinzione, ma alla fine qualcuno (o a volte anche tutti o quasi, come nel caso della serie Airport e degli Aerei più pazzi del mondo che la prendono in giro) sopravvive. L'ovvia eccezione è Melancholia di Von Tier che in un eccesso depressivo arriva a distruggere l'intero pianeta non lasciando nemmeno un briciolo di speranza.
La causa può essere piccola come un virus, vedi World War Z o Contagion, o avere scala planetaria, come nel caso di 2012, dove è il riscaldamento del nucleo della Terra a generare sfracelli.

In questo Godzilla (affidato alla regia di Gareth Edwards) il disastro viene causato da dai bizzarri mostri che risalgono alla notte dei tempi, che vengono chiamati MUTO (Massive Unidentified Terrestrial Organism, Giganteschi Organismi Terrestri Non-identificati), nonostante uno di essi voli, e dal loro predatore, Godzilla. Però all'origine del loro riapparire c'è l'uso umano dell'energia atomica, vista come forza misteriosa capace, per l'appunto, di risvegliare mostri distruttivi. Sapendo che l'idea originale di Godzilla è giapponese, non bisogna essere dei geni per capire che si tratta di una rielaborazione del lutto conseguente alle stragi di Hiroshima e Nagasaki. Il motivo per cui continui ad avere successo credo sia da ricercarsi nella atavica paura per qualcosa che non possiamo vedere e, per molti, nemmeno ben capire.

La sceneggiatura (Max Borenstein su soggetto di David Callaham) affianca lo scontro tra i due MUTO e Godzilla alla storia della famiglia Brody, centrata in Ford (Aaron Taylor-Johnson). Costui da piccolo ha perso la madre (Juliette Binoche in una delle sue più brevi apparizioni sullo schermo) a causa di una misteriosa catastrofe nella centrale nucleare dove lei lavorava col marito. Il giovane Brody dà la colpa al padre (Bryan Cranston), e si fa una vita lontano da lui. Per esigenze di sceneggiatura entra nell'esercito e diventa esperto nel disinnescare bombe, si sposa con Elle (Elizabeth Olsen) e hanno un figlio. Questi ultimi due personaggi hanno l'unico senso nella storia di non dover morire. Anche perché Brody padre morirà tra le braccia di Brody figlio facendolo giurare di salvarli.

Una certa importanza nello sviluppo della trama umana è dato al dottor Ishiro Serizawa (Ken Watanabe) che sosterrà l'ipotesi di lasciar fare a Godzilla, visto come forza riequilibratrice dello scompenso generato dagli umani.

La narrazione della storia solleva un gran numero di perplessità (giganteschi animali che si nutrono di radiazione atomica? Godzilla predatore che uccide le prede ma non se le mangia?) ma il punto che ha causato maggiori discussioni nei fan della serie è stato quello relativo alla forma fisica del protagonista. Godzilla è apparso infatti decisamente sovrappeso rispetto allo standard.

Invictus - L'invincibile

Non possono mica sempre vincere tutti. In questo film, ad esempio, è lo spettatore che perde.

Credo che il problema principale stia nello strabismo della produzione che ha voluto fare un film su Nelson Mandela che avesse un certo appeal per gli Oscar (come dire, mostrasse un certo impegno nel sociale parlando di una causa degna di questo nome) e riuscisse pure a fare un incasso ragionevole. A volte il gioco riesce, altre volte, e questo è un caso, no. Anche perché l'idea è stata quella di trattare il personaggio Mandela (interpretato da Morgan Freeman, chi altri?) per mezzo del rugby, uno sport sconosciuto all'americano medio e direi pure al regista (nientemeno che Clint Eastwood). Per ravvivare il tutto, poi, si è dato un taglio giallo, dando rilevanza all'operato della sua scorta che (spoiler) in realtà non ha avuto praticamente niente da fare per tutte le due ore abbondanti del film.

La vicenda di Nelson Mandela vale ben più di una narrazione di questo tipo, anche perché la si è depotenziata per far della sua figura poco più di un santino. Si è tolto tutto quello che poteva dar fastidio, lasciando una storiella che, privata dei lati oscuri, contraddizioni, spiacevolezze varie, è diventata una sbobba dimenticabile.

La sceneggiatura è centrata sui primi anni della presidenza Mandela, si accenna rapidamente ad alcuni tra gli innumerevoli problemi che ha affrontato, e ci si focalizza sul rebus della pacificazione post apartheid, e in particolare sulla sua idea di usare il rugby, che in Sudafrica ai tempi era sport praticamente solo per bianchi, come veicolo di riconciliazione. E qui entra in gioco il personaggio di Francois Pienaar (Matt Damon), capitano della nazionale, che farà un po' da ambasciatore del Mandela-pensiero nell'ostico mondo dei rugbisti.

Vincendo le perplessità di tutti, Mandela manterrà i simboli degli Springboks (la nazionale sudafricana) ma facendo sì che rappresenti l'intera nazione. Punto cardine di questa strategia, il mondiale del 1995, che per l'appunto si tenne in Sudafrica. La rappresentativa locale, sfavorita dalla mancanza di esperienza internazionale (figlia di un lungo embargo nei confronti del precedente regime razzista), avrebbe dovuto far di tutto per vincere la coppa. Sorpresa delle sorprese, ci riuscirà.

Peccato che si finga che per ottenere il risultato sia bastato l'adamantino sforzo di mostrare che una nazione intera si possa riconoscere in un unico simbolo condiviso, dimenticando le divisioni del passato. Certo, c'è stato anche quello. Però forse si sarebbe dovuto accennare, almeno di sfuggita, a tanti altri fatterelli che hanno aiutato.

Ad alcuni la smagliante forma fisica degli Springboks, che anche nel film viene indicata come superiore a quella di tutte le altre squadre, aveva creato qualche perplessità, facendo avanzare l'ipotesi che si fossero usati metodi non limpidissimi per ottenerla. Praticamente impossibile scoprire adesso se fosse vero, però si sa che usare sostanze dopanti aumenta il rischio di malattie rare. Se rugbisti sudafricani del tempo venissero colpiti col passare dei decenni da malattie neurologiche in percentuale significativamente superiore alla media, avremmo un altro indizio che spingerebbe in quella direzione (spoiler, effettivamente sta succedendo).

Che gli arbitraggi non siano sempre all'altezza dell'evento non è certo una novità, ma l'annullamento (perlomeno dubbio) di una meta negli ultimi secondi di una semifinale non è cosa che capiti spessissimo.

Succede praticamente sempre anche che alcuni giocatori risentano del cambio di alimentazione e non rendano come al solito. Meno comune che ad essere colpiti a frotte da una improvvisa debolezza di stomaco siano gli avversari della squadra di casa proprio quando la incontrano in occasione della semifinale e finale.

Tutta la parte relativa alla scorta presidenziale, come accennavo sopra, serve praticamente solo a portar via tempo inutilmente. Da un lato rinforza il concetto della contrapposizione tra bianchi e neri che viene smussata (o addirittura eliminata!) grazie alla passione sportiva, dall'altro viene usata per veicolare l'idea di un possibile attentato a Mandela. Ad un certo punto appare pure un tizio che sembra un killer che stia scegliendo il posto adatto per sparare al presidente, ma poi non se ne fa nulla. Viene pure reinventata la scena in cui un jet di linea sorvola a bassissima quota lo stadio dove si sta per tenere la finale, facendo finta che si tratti di una azione estemporanea del pilota, in modo da farci temere che sia un attacco terroristico quando invece era, ovviamente, tutto preparato.

La regia non mi è sembrata particolarmente ispirata. Nota di demerito per le scene di gioco, girate in modo confuso, e in particolare per il rallenty negli ultimi secondi della partita contro la Nuova Zelanda, che vorrebbe mostrare la tensione sul campo ma, almeno a me, ha fatto pensare agli epici scontri tra l'ispettore Clouseau e il fido Cato, causando un effetto comico del tutto fuori luogo.

Doctor Who 8.5: Time heist

"Heist" vuol dire furto, e il sottogenere heist della cinematografia gialla racconta proprio di come una banda (a volte anche un singolo) compia un furto (o una serie di furti) che solitamente è considerato difficile o addirittura impossibile. Se lo stile narrativo include toni da commedia, spesso si usa il termine alternativo "caper".

Per noi, spettatori, questa storia è dunque un caper, visto che succedono (anche) cose piuttosto buffe. Ma il titolo riprende una battuta del Dodicesimo Dottore (Peter Capaldi) che, quando capisce il senso di quello che sta accadendo, spiega agli altri che si trovano in un "heist" che utilizza la (im)possibilità di viaggiare nel tempo.

Secondo me la sceneggiatura (di Steve Thompson e Steven Moffat) ha un difetto, la sua ricchezza. Sembra quasi che la regia (Douglas Mackinnon) corra disperatamente per cercare di far stare tutta quella roba in quarantacinque minuti. Se si fosse riusciti a strappare un'altro quarto d'ora al committente (la BBC, obviously) ci sarebbe stato modo di narrare con la dovuta calma gli accadimenti.

Che poi sono questi. Clara (Jenna Coleman) sta per uscire con Danny (Samuel Anderson). Il Dottore però risponde ad una misteriosa chiamata al telefono della TARDIS (sono in pochissimi nell'universo ad avere il numero) dicendo a Clara che dopotutto non può succedere nulla di male. Detto, fatto. Si ritrovano entrambi con in mano quel simpatico vermotto il cui contatto causa una amnesia in una stanza della più sicura banca dell'universo.

In compagnia di un umano modificato con innesti informatici (Jonathan Bailey) e di una mutante (Pippa Bennett-Warner) che ha l'utile ma spiacevole dono di trasformarsi in una copia perfetta di ogni individuo che tocca, si trovano a dover compiere un furto su commissione di un misterioso Architetto, senza sapere nemmeno cosa stiano cercando.

Già, perché tra i sistemi di sicurezza della banca, gestita da una ben poco gentile Ms Delphox (Keeley Hawes), c'è anche un essere che percepisce i piani malevoli dei clienti, e li segnala alla direzione. Meno si sa, meno si rischia di essere intercettati.

Alla fine della lunga corsa si troverà un altro impossibile loop logico che rimanda all'inzio della storia. A parte questo, tutto andrà per il meglio. Anche per Clara che verrà riportata nella sua time-line in tempo per l'appuntamento con Danny.

Transformers 4 - L'era dell'estinzione

Non ce l'ho fatta ad arrivare in fondo. Pensavo che lo spiegone da parte dei robottoni fosse il finale, la scoperta che la storia (?) aveva una estensione cinese è stata la mazzata finale alla mia capacità di sopportazione. Il titolo spiega bene il senso dell'operazione commerciale. Sottoporsi alla visione di questo film potrebbe causare l'estinzione dei propri neuroni. Procedere con cautela.

Non ho visto nessuno dei precedenti episodi, e questo mi ha permesso almeno di avere una curiosa perplessità su cosa cavolo stesse accadendo e perché. E questo mi è sembrato un elemento positivo, in quanto mi ha lasciato un certo interesse nell'accozzaglia di suoni, luci e persino voci che arrivavano dallo schermo.

Devo ammettere però che l'ho visto in un ambiente open-air, più come intrattenimento turistico che come film. E questa potrebbe essere la chiave di lettura più adatta per la pellicola. Una specie di elemento di distrazione da tenere sullo sfondo in attesa di fare altro. Seguendo questa prospettiva lamenterei la sua eccessiva lunghezza, la rumorosità e le immagini a volte troppo cinetiche che finiscono per disturbare la discussione dei convenuti su altri più interessanti argomenti.

La sceneggiatura (di cui è colpevole Ehren Kruger) racconta di un universo parallelo in cui la nostra Terra ha avuto una storia diversa dalla nostra già in un passato lontano. Mentre da noi la fine del Cretaceo, con la relativa estinzione di massa di cui hanno fatto le spese tra gli altri quei simpatici bestioni dei dinosauri, è avvenuta quasi 66 milioni di anni fa presumibilmente con l'apporto di un meteorite, nel mondo dei Transformer è successo qualcosa del genere circa un milione di anni dopo, e ad opera di una entità extraterrestre nota col nome d'arte de I Creatori. Costoro, che agiscono un po' come gli Ingegneri di Prometheus (saga Alien) ma seguendo il modus operandi di Michael Bay (regista e "mente" della saga Transformer), ovvero facendo esplodere tutto quello che passa da quelle parti.

Si salta ai giorni nostri, dove è già successo tutto quello che è stato narrato nei precedenti Transformer, tra cui una battaglia tra robottoni a Chicago che ha reso gli umani diffidenti rispetto tutto quanto sembri un umano gigantesco in metallo, dotato di armi di variegate armi distruzione. Il che non mi sembra una cattiva idea, a dire il vero. Gli Autobot, che sarebbero i robottoni "buoni", rappresenterebbero una sorta di eccezione a questa regola, ma una sezione della CIA non va troppo per il sottile, anzi, usa i servigi di Lockdown, un robottone bounty-killer, proprio per eliminarli (anche se sembra subito evidente che valga il viceversa, è Lockdown che usa l'intelligence umana per rintracciare gli Autobot).

Nel frattempo, una coppia di babbei, Cade (Mark Wahlberg) che è contemporaneamente quello intelligente e quello forzuto, e Lucas (T.J. Miller) che ha solo la funzione di buffo, trovano in un cinema abbandonato un camion. Lo comprano e se lo portano via con lo scopo di tirarci fuori qualcosa di utile, visto che Cade è un genio (fallito) della robotica e subodora che quel camion possa essere un Autobot. E in effetti si tratta di niente meno che Optimus Prime! (Chi? ho chiesto io, Il capo di tutti gli Autobot, mi hanno detto)

Mancano ancora un po' di attori, deve aver deciso la produzione. In particolare ci voglio un paio di giovinastri, in cui lo spettatore medio atteso si possa ragionevolmente identificare. Per cui Cade ha una figlia in età da college, Tessa (Nicola Peltz), e relativo fidanzato, Shane (Jack Reynor). Se non fosse così ovvio sarebbe quasi uno spoiler dire che Cade non sopporta Shane ma i due dovranno fare squadra.

Si voleva poi uno che sapesse recitare, e così si è preso Stanley Tucci e gli si è fatto interpretare il ruolo di un inventore geniale e di successo (dunque contrapposto a Cade) con una serie di manie che fanno pensare a Steve Jobs (vedi anche Piovono polpette 2), che si trova dalla parte dei cattivi, ma poi, dopotutto, tanto cattivo non deve essere.

Doctor Who 8.4: Listen

Che il Dodicesimo Dottore (Peter Capaldi) sia umbratile non è certo un mistero. Problema è che tutto questo star da solo comincia a creargli strani scherzi. Parla da solo, legge un messaggio su una lavagna ("Listen", ovvero "Ascolta") e non sa dire se l'ha scritto lui o no, e una sua vecchia paura, quella di non essere realmente solo, neanche quando non c'è nessuno con lui, sta diventando insopportabile.

Così si rifugia da Clara (Jenna Coleman) quando lei è fuori per un appuntamento, così da aver tempo per riflettere per conto suo. L'appuntamento di Clara è con Danny Pink (Samuel Anderson), l'insegnante di matematica con un passato nell'esercito di cui, ricambiata, si è invaghita. Però i due sono così tesi che inanellano una impressionante serie di gaffe, che conducono ad una rapida fine della serata, con lei che abbandona il campo.

Il Dottore, come al solito molto simpatetico, approfitta del rientro anticipato di Clara per cercare di risolvere il suo cruccio. Crede infatti di aver scoperto che ogni essere senziente al mondo abbia fatto, o farà, lo stesso sogno in cui ci pare di svegliarci, ci alziamo, ma come posiamo i piedi per terra, una mano da sotto il letto ci afferra la caviglia. Con rizzamento di capelli associato. Clara ammette di aver fatto quel sogno, e dunque il Dottore fa sì che TARDIS entri in contatto telepatico con Clara e cerchi nella sua linea temporale quando è avvenuto questo evento, così da poter indagare se ci sia veramente un qualche essere invisibile che ci accompagna.

Clara però è distratta dal pensiero di Danny e finiamo nel momento in cui lui, ancora bimbo, ha avuto quel sogno. Il tentativo non porta ad una risposta certa, ma Clara chiede al Dottore un aiutino per recuperare la serata con Danny. Ma avendo ora conosciuto Danny da bambino, Clara si lascia scappare un commento impossibile che lascia Danny basito al punto da essere lui questa volta ad andarsene. C'è da dire che ad aumentare la confusione di Clara ha contribuito anche l'incongrua apparizione di un astronauta che le faceva cenno di seguirlo.

Convinta che dentro la tuta si celasse il Dottore, Clara la segue nella TARDIS, solo per scoprire che si tratta invece di una versione invecchiata di Danny, un suo discendente di nome Orson, si scopre, che in qualche modo è legato alla linea temporale di lei (dunque Clara e Danny avranno figli?). Costui è stato cercato dal Dottore che continuava a seguire il suo chiodo fisso corrente, ed era andato a beccare il periodo di stress di costui in relazione al terrore notturno di cui sopra. Anche qui non si riesce ad avere una risposta certa, ma ci si ficca in una situazione così rischiosa che Clara deve usare una sorta di pilota automatico della TARDIS per uscire dall'impiccio.

E così si finisce nel momento in cui è il Dottore ad avere il panico da sconosciuto sotto il letto. Abbiamo dunque un piccolo accesso all'infanzia del Dottore, e scopriamo pure come mai il Dottore Dimenticato (John Hurt) ne Il giorno del Dottore era andato in una casupola nel mezzo del nulla per decidere se e come usare l'Arma Finale che avrebbe distrutto Signori del Tempo e Dalek.

Facendo uso di un paradosso temporale molto caro a Steven Moffat (che ha scritto questo episodio), descrivibile come "il cane che si morde la coda", Clara trova il modo di dare una soluzione al problema del Dottore, legando assieme tutti i fili creati da questo complesso episodio.

Il gabinetto del dottor Caligari

Francis (Friedrich Feher), giovanotto di belle speranze, racconta ad un tale la sua travagliata storia con Jane (Lil Dagover), sua promessa sposa.

Alan (Hans Heinrich von Twardowski) convince Francis ad accompagnarlo alla festa del paese dove i due sono attirati dallo stand del dottor Caligari (Werner Krauss) che espone lo strano caso di Cesare (Conrad Veidt), un sonnambulo che risponderebbe a tutte le domande. Alan chiede fino a quando vivrà, Cesare gli dice che non vedrà la mattina successiva. Come in effetti succede.

C'è anche da dire che in precedenza era stato ucciso il segretario comunale, che avevamo visto trattare in modo sgarbato il dottore che gli chiedeva uno spazio per la fiera. Due indizi non fanno una prova, ma nello spettato il sospetto che ci sia Caligari dietro a tutto questo si fa quasi certezza.

Anche Francis ha lo stesso dubbio, ma non riesce a venire a capo di nulla. Anche perché un furfante malaccorto si mette in mente di ammazzare una vecchia proprio adesso. Il suo tentativo finisce nel nulla, ma viene comunque accusato dei due precedenti omicidi.

Capita però Caligari veda Jane, forse se ne invaghisce e sembra che se ne abbia a male quando lei fugge dopo aver visto l'inquietante Cesare. Fatto sta che vediano che nella notte Cesare avanza furtivamente nella città con un gran coltellaccio, è quasi sul punto di uccidere Jane ma, potenza della sua bellezza, cambia idea e invece la rapisce. Sorprendentemente, grazie al montaggio alternato, vediamo anche che Francis sta spiando Caligari e Cesare nel loro stand, dove sembra che stiano passando una tranquilla nottata.

Una torma insegue Cesare e Jane, così che questi la abbandoni e cerchi la fuga solitaria, che però si conclude con una rovinosa caduta in uno strapiombo.

Francis, perplesso, non crede a Jane che accusa Cesare di averlo rapito. Pensa possa essere stato il manigoldo già arrestato che magari potrebbe essere evaso. Ma un controllo dà esito negativo. Si reca dunque con adeguato supporto dal dottore per una analisi più approfondita, scoprendo così che quello che gli era sembrato Cesare addormentato non era altro che un manichino.

Il dottore si dà alla fuga e si rifugia in un manicomio. Francis pensa che sia un paziente fuggito dall'asilo, ma scoprirà che è nientemeno che il direttore della struttura, che è andato fuori di senno e si è immedesimato nell'italiano dottor Caligari che un secolo e mezzo prima aveva compiuto un folle esperimento di ipnotismo su un tal Cesare.

Finisce il racconto di Francis, e scopriamo che chi ci ha raccontato la storia è un ospite del suddetto manicomio, assieme a Jane, Cesare, e pure il dottor Caligari, che è il vero direttore.

Che ci sia qualcosa di strano nel racconto di Francis lo intuiamo subito. Perché le scenografie sono veramente da incubo, sghembe, bidimensionali quasi come se fossero parte di un allucinato libro pop-up.

Il finale pensato dagli sceneggiatori (Carl Mayer e Hans Janowitz) era ancor più drammatico, e lasciava intuire che il vero matto era davvero il direttore. La storia avrebbe voluto essere una parabola in cui Cesare rappresentava il popolo tedesco e il dottor Caligari il Kaiser Guglielmo II che aveva guidato il Paese alla catastrofe della prima guerra mondiale. Ma questa presa di posizione non piaceva molto alla censura, e la produzione fu cortesemente invitata a modificare la trama.

Il film è considerato il punto di riferimento del cinema espressionista, forse grazie anche alle obbligate scelte al risparmio che hanno spinto ad estremizzare le scenografie (attribuite a Walter Reimann, Walter Röhrig e Hermann Warm), e anche del cinema horror. La regia è dell'ottimo Robert Wiene, che però è una seconda scelta, si era pensato infatti a Fritz Lang, che era all'inizio di carriera, interessato al progetto, declinò per mancanza di tempo.

Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo

Non sono mai stato un estimatore di Callahan (la G aggiuntiva è una esclusività italica, si sa che amiamo scialare), eppure mi pare di ricordare che nella precedente visione mi fossi annoiato di meno. Resta l'interesse storico nella pellicola, è qui infatti che Don Siegel ha codificato la figura del giustiziere solitario che combatte contro il crimine cittadino contemporaneo attirandosi nemici da tutte le parti. Innumerevoli i film che hanno seguito questo stereotipo, modificandolo, adattandolo, ribaltandolo ma mantenendo la struttura originale. Che poi è presa di peso dalla tradizione western, come si può vedere anche nel gran spregio della balistica quando cantano le armi, e tradotta senza andar troppo per il sottile al nuovo scenario.

Il protagonista è lo sporco Harry (Clint Eastwood - Dirty Harry, che poi è il titolo originale del film, anche se noi il nomignolo lo abbiamo tradotto come carogna), un ispettore della polizia losangelina che sembra contemporaneamente dotato di prodigioso fiuto e una specie di imbecillità congenita, che lo porta a non far caso alle più banali norme legali, con il bel risultato di invalidare la gran parte dei suoi risultati investigativi. Fortuna (?) vuole che spesso non arresti i sospetti, ma li abbatta con la sua pistola .44 Magnum, eliminando il problema all'origine.

Altri suoi tratti caratteristici sono l'allergia nei confronti delle gerarchie, un curioso taglio di capelli e una grande antipatia nei confronti di tutti. Vengono citati espressamente, ognuno con il suo soprannome offensivo, britannici (limeys), irlandesi (micks), ebrei (hebes), italiani (dagos), afroamericani (niggers), bianchi di classe bassa (honkies), cinesi (chinks) e ispanici (spics).

Ma allora, come ha potuto Harry fare carriera fino al grado di ispettore? E perché non l'hanno ancora cacciato? Perché è "dirty". Nel senso che non ha nessun problema ad affrontare i casi che nessuno vuole toccare nemmeno con un bastone. Viene fuori anche una possibile altra origine per il suo soprannome, che sarebbe originato dall'attrazione verso la sessualità altrui. Questa variante serve a farci vedere un po' di donne nude, che altrimenti non sarebbero giustificate dalla trama.

Il caso principale che affronta in questo film è Scorpio. Nome di uno schizzatissimo serial killer (Andrew Robinson) che ammazza chi gli pare, e minaccia di continuare se non gli si paga una ingente somma (per i tempi). L'idea viene da Zodiac, ma è stata così martellata e trasformata che in pratica non ci resta nulla. Se interessati, meglio vedere il film di David Fincher (2007). Ma di Scorpio qui non gliene importa niente a nessuno. Si spiega tutto facendogli fare risatine da matto, lasciandogli però abbastanza lucidità per usare i media contro lo polizia.

Sammy 2 - La grande fuga

Secondo capitolo di una saga animata belga che ha per protagonista tartarughe marine ed è pensata per un pubblico pre-scolare. I riferimenti ad altre animazioni, acquatiche o meno, sono evidenti e non le esplicito per non fare paragoni che sarebbero troppo dolorosi. I piccoli spettatori potrebbero apprezzare colori, forme e movimenti. Ma credo che gli adulti che stanno loro a fianco troveranno di una noiosità sconfinata la trama, e non esattamente allo stato dell'arte la qualità del disegno.

Due tartarughe, di cui si è raccontata la storia nell'episodio precedente, vengono catturate e vendute ad un parco a tema sottomarino. Quasi tutti i prigionieri vogliono scappare ma, chissà perché, si affidano ciecamente all'iniziativa di un cavalluccio marino che, come direbbe Totò, cento ne fa e una ne pensa. A salvare la giornata ci penseranno due giovanissime tartarughine con l'aiuto di una loro amica e relativi parenti.

C'era una volta a New York

Il titolo italiano sembra voler strizzare l'occhio a C'era una volta in America di Sergio Leone, pur avendo i due film ben poco in comune. L'originale è invece un neutro The immigrant, che non era la prima scelta di James Gray, un più adeguato Lowlife.

La storia è narrata tutta seguendo il punto di vista di Ewa (Marion Cotillard), una polacca giunta ad Ellis Island nel 1921, però credo vada letta come la vicenda di Bruno (Joaquin Phoenix), di come la sua vita, che sembrava avere una direzione ben precisa, si trova ad essere rivoluzionata dall'incontro fatale.

Alla povera Ewa ne capitano di tutti i colori. Ancor prima dell'inizio del film, quando ancora era sulla nave, viene violentata da altri passeggeri, e per questo viene segnalata come persona di dubbia moralità. Alla sorella con cui viaggia, invece, viene diagnosticata la tubercolosi e trattenuta in quarantena. Bruno, personaggio di dubbia moralità, paga qualche bustarella e fa in modo che Ewa salti i controlli e possa prendere il traghetto per New York.

Questo è solo l'inizio dei suoi problemi, visto che gli zii di Ewa, già stabilitisi a New York, sono stati informati della sua condotta immorale (!) sulla nave e non vogliono più aver nulla a che fare con lei, e che per pagare le cure della sorella, e sperare che le venga concesso l'ingresso negli USA, servono molti soldi.

Ma anche a questo pensa Bruno, che è una specie di impresario per una compagnia di "ballerine" che si esibiscono in una bettola malfamata. Fin troppo ovvio che Ewa, senza documenti né conoscenze, venga indirizzata verso un ben determinato genere di vita.

Il problema di Bruno è che campa di un lavoro infame, ma non è abbastanza cattivo. Dopotutto cerca di trattare relativamente bene le sue "colombe", e si vede subito che si è innamorato di Ewa ma non ha idea di come gestire la situazione.

A complicare la faccenda interviene Emil (Jeremy Renner), cugino di Bruno, che lavora anche lui nel settore intrattenimenti come mago Orlando. I due cugini avevano già avuto in passato problemi per questioni di donne. Questa volta il loro scontro sarà ben più duro.

Nel finale Bruno è probabilmente al punto più basso di tutta la sua vita, è messo veramente male, un po' in tutti i sensi. Però, a ben vedere, questa catastrofe può essere un punto di svolta.

L'assassino abita al 21

Ottimo debutto alla regia per Henri-Georges Clouzot. Se si considera poi che il film è stato girato in piena seconda guerra mondiale nella Francia occupata non si può che restare basiti per il risultato ottenuto.

La storia deriva da un romanzo di Stanislas-André Steeman che lo stesso ha contribuito a trasformare in sceneggiatura subendo però le sostanziali modifiche imposte da Clouzot. In particolare ha imposto come protagonisti l'ispettore Wenceslas Vorobechik (Pierre Fresnay), che tutti chiamano semplicemente Wens, e la cantante Mila Malou (Suzy Delair), che già avevano operato con successo ne L'ultimo dei sei, precedente sceneggiatura di Clouzot, anche questa basata su uno scritto di Steeman.

La struttura originale del racconto, che penso sia da ricondurre allo Steeman, è quella tipica del romanzo investigativo inglese. Il protagonista è infatti un astuto detective dalle affilate capacità deduttive che non disdegna agire sotto falsa identità, quando pensa che questo gli possa dare un vantaggio strategico. Il crimine, poi, è eseguito in modo da far sì che lo spettatore si ponga la classica domanda: chi è l'assassino? Segue un percorso di ricerca che condurrà allo spiegone finale.

Clouzot agisce sulla ben congegnata storia aggiungendo svariati elementi comici. Il principale dei quali è che l'ispettore ha un formidabile avversario, la sua donna. Che, animata da grande affetto nei suoi confronti (e dalla speranza di ottenere visibilità sulla carta stampata, così che questo l'aiuti a trovare una parte sul palcoscenico), ne compie di tutti i colori ostacolando la sua indagine.

Clouzot si mostra anche abile nell'usare la colonna sonora (Maurice Yvain) e la fotografia (Armand Thirard), entrambe decisamente interessanti.

Non buttiamoci giù

Portare il romanzo omonimo di Nick Hornby (in originale A long way) sul grande schermo è una impresa suicida. In primo luogo perché parla di quattro tizi che tentano di suicidarsi, e lo fa mescolando tranquillamente registri che vanno dal tragico al comico, coprendo tutta la vasta gamma dei toni intermedi. Poi perché la struttura narrativa è inerentemente anti-cinematografica. Se ricordo bene, quasi tutti i capitoli sono narrati in prima persona, ogni volta da un diverso personaggio, a volte leggiamo come la stessa scena venga interpretata da diversi punti di vista, spesso ci troviamo di fronte a dialoghi interiori che a volte potrebbero essere resi con il voice-over, tecnica che, si sa bene, va usata con estrema cautela, se non si vuole tediare lo spettatore. Senza dimenticare che il finale del romanzo, tradotto in immagini, potrebbe portare alla rivolta in un cinema.

La soluzione di Jack Thorne (sceneggiatura) e Pascal Chaumeil (regia) è stata quella di appiattire per quanto possibile la narrazione, tagliare senza remore al fine di stare nei canonici cento minuti, rielaborare alcune scene per dar loro un appeal visivo, e aggiungere un finale posticcio ma palatabile per lo spettatore medio. Il risultato per me è buono, anche se inferiore alla carta.

Martin (Pierce Brosnan), anchor televisivo di successo, ha lasciato che l'ebbrezza della notorietà lo travolgesse. Un incontro sbagliato l'ha portato per un breve periodo in prigione, e gli ha fatto perdere lavoro, famiglia, rispetto per se stesso.

Maureen (Toni Collette) è una madre single con un figlio disabile. La sua vita si è trasformata in una routine di cui ha finito per non vedere più un senso.

Jess (Imogen Poots) è la figlia di un politico (Sam Neill), ricca, viziata, trascurata dai genitori, non riesce a legare con nessuno. Forse è diventata così insopportabile dopo che sua sorella è sparita nel nulla.

JJ (Aaron Paul) è un rocchettaro americano rimasto in UK dopo che il tour della sua band s'è bruscamente interrotto per il disfacimento della band stessa. Trasformatosi in aiuto pizzaiolo s'è convinto che il problema della sua vita è lui.

E' l'ultimo dell'anno, una delle date calde per i suicidi, e i quattro si trovano a tentare di fare il salto finale da un palazzotto londinese che è, come in effetti capita in realtà, misteriosamente diventato meta di elezione per chi sia in quello stato d'animo. Se si è a New York, ad esempio, è tradizione buttarsi dal Brooklyn Bridge (almeno secondo A proposito di Davis dei Coen). Il fatto di trovarsi in quattro in un momento in cui si vorrebbe essere da soli finisce per far perdere loro la spinta attuativa, finiranno invece per costituire una incongrua associazione di mutuo soccorso.

Il punto forte del trasposizione cinematografica è il casting. Perfetti i quattro protagonista nell'interpretare i personaggi immaginati da Hornby. Quattro caratteri così diversi, il vanesio Martin, la dimessa Maureen, la spavalda Jess, l'assente JJ, che si scoprono di avere qualcosa in comune, e riescono a far nascere un'amicizia, che era proprio quello che stavano cercando.

Divergent

Forse bisognerebbe aver la pazienza di vedersi tutta la serie prima di sbilanciarsi in un giudizio. O, meglio ancora, leggersi prima tutti e tre i romanzi di Veronica Roth, Divergent, Insurgent, e Allegiant. Ma proprio non me la sento. Anche perché il target è quello dei sedicenni e, almeno nel film, se non sei in quella fascia di età (magari anche solo mentalmente) difficilmente troverai elementi di interesse nella storia. O magari aiuterebbe essere di sesso femminile, dato che tutto quanto è narrato dal punto di vista di Beatrice "Tris" Prior (Shailene Woodley).

Le due ore abbondanti di questo primo capitolo lasciano un gran numero di dubbi su come cavolo funzioni questa bizzarra società umana, e non ho capito cosa sia attribuibile a buchi di sceneggiatura e quali siano elementi che vengono tenuti nascosti in attesa di essere rivelati nel proseguio della narrazione.

In futuro post-apocalittico, Chicago è protetta da una specie di muraglia tecnologica da non si sa bene quale possibile nemico. Attorno c'è un brullo nulla, e la città stessa sembra essere in declino. La società è divisa in un bizzarro modello di caste che sembra ispirato da quello descritto dalla JK Rowling per Harry Potter. Giunti alla maggiore età (o qualcosa del genere) i giovani cittadini si devono sottoporre al giudizio di una specie di Cappello Parlante (ma tutto tecnica e niente magia) che indica quale sia la casta più adatta. Però poi ognuno fa come vuole, indica quella che preferisce e lì va a finire per il resto della sua vita. Ci sono pure i paria, i senza casta, che conducono una vita miserevole.

Tris nasce Abnegante ma scopre di essere una Divergente, ovvero di non avere una sola propensione specifica. Questo, invece di essere considerato un bonus, è visto come un malus. Anzi, una catastrofe, una condanna a morte. Per sua fortuna l'operatrice del Cappello Parlante la avverte del pericolo e falsifica il risultato.

Arriva dunque il giorno della scelta, che è tra le seguenti classi:
Abneganti, altruisti e caritatevoli
Candidi, sinceri al punto di essere sfacciati
Eruditi, tutto studio e niente arrosto
Intrepidi, libero sfogo a muscoli e ormoni
Pacifici, tipo figli dei fiori

Sorpresa sorpresa, invece di stare con i genitori in quella palla di categoria in cui non ci si può nemmeno guardare allo specchio, Tris sceglie di andare con quegli allegri casinisti degli Intrepidi. Quel nerd di suo fratello, invece, preferisce gli Eruditi. Superato l'attimo di gioia liberatorio, Tris si accorge di aver fatto una scelta idiota. Gli Intrepidi sono una specie di confraternita autodistruttiva con tendenze fascitoidi in cui si passa la giornata a gonfiarsi i muscoli, fare a botte, esercitarsi con armi varie, cercando di eliminare i meno capaci. D'altro canto ha anche un istruttore, Quattro (Theo James), che è un gran figo, sprizza testosterone da ogni poro, e si capisce subito che i due finiranno ben presto a far porcellerie. O meglio, ben presto se fosse una storia scritta al maschile, essendo scritta al femminile, a Quattro toccherà dormire sul pavimento e sublimare le sue pulsioni in altro modo.

Tris ha una minaccia che pende sulla sua testa, come sappiamo i Divergenti sono visti male, in particolare dagli Eruditi, e per essere ancor più specifici dalla loro capa, Jeanine (Kate Winslet). Inoltre gli Eruditi hanno una ruggine nei confronti degli Abneganti, in quanto questi ultimi detengono il potere, e pare che siano sull'orlo di un coup per cambiare gli equilibri. Eccetera.

Tanti i dubbi che mi sono venuti su questa storia. Ad esempio, com'è possibile che la scelta della casta sia lasciata al singolo soggetto senza che questo abbia una adeguata informazione in materia? E se uno fa una scelta scema, com'è possibile che non possa tornare indietro? Il suo destino è invece quello di diventare un Escluso, un paria che vive ai margini della società senza svolgere alcuna funzione utile. Che spreco colossale, in particolare in una piccola società che vive sul baratro dell'estinzione. E poi, com'è pensabile che lasciando al singolo la scelta si mantengano le percentuali stabilite tra le varie caste? Se ricordo bene come ci si sente da ragazzetti, prevederei una scelta di massa per gli Intrepidi e i Pacifici, le due categorie che, a occhio, danno la maggior possibilità di divertimento. Nel giro di qualche tempo ipotizzerei un riflusso verso caste più adulte, ma in ogni caso si deve necessariamente pensare ad un sistema flessibile e dotato di incentivi per mantenere le proporzioni attese.

Se la struttura della società non mi convince per niente, non capisco nemmeno bene cosa voglia dire la storia. L'isolamento di Chicago mi aveva fatto pensare che si trattasse dell'ennesima allegoria sulla paura americana (e, a dire il vero, anche occidentale in genere) nei confronti degli altri che bussano alle loro (nostre) porte. Ma qui fuori non c'è nessuno. E a fare danni è la competizione interna.

Sherlock 3.3 - L'ultimo giuramento

C'è una semplice ricetta per far sì che una stagione di una serie televisiva abbia successo. Basta partire molto forte, con un episodio che soddisfi chi era rimasto appeso al finale della stagione precedente e che faccia entrare in sintonia i nuovi spettatori. Poi ci si può rilassare un attimo, fino all'episodio di mezza stagione, che deve essere anch'esso molto forte, per confermare il gradimento del pubblico e spingerlo a continuare a seguire la storia. E infine, naturalmente, non deve mancare un finale che chiuda alla grande la narrazione, e possibilmente prepari per una nuova stagione.

Con Sherlock, poi, la BBC ha pensato bene di estremizzare la ricetta, presentando solo tre episodi per stagione. Facile, no?

Questa volta il titolo italiano non può mantenere il gioco che in inglese viene fatto con il titolo del breve racconto originale, His last bow in italiano Il suo ultimo saluto, dove bow (inchino, nel senso di saluto) diventa vow (voto, promessa, giuramento). Il racconto chiude la raccolta con lo stesso nome che avrebbe dovuto essere (ancora una volta) l'ultima delle avventure di Holmes e Watson, ma in realtà ha ben poco a che fare con i fatti narrati, se non che vengono presi alcuni riferimenti (il vento dell'est, il villino in campagna con gli alveari) che sono stravolti come capita sempre in questa rivisitazione degli scritti di Arthur Conan Doyle.

Ai fini della trama è più importante il riferimento a L'avventura di Charles Augustus Milverton, incluso nella raccolta Il ritorno di Sherlock Holmes, e infatti il "cattivo" di questo episodio, di cui abbiamo avuto un assaggio in apertura di stagione, si chiama Charles Augustus Magnussen (Lars Mikkelsen). Costui è una brutta persona che si ciba di scandali che un po' adopera per alimentare i giornali di cui è proprietario, un po' usa per ricattare chi vuole tenere in pugno per un motivo o per l'altro. Il riferimento ad un vero editore che opera in UK (e anche in USA) ma non è inglese, e che ha un grosso peso politico è piuttosto evidente (ma ovviamente è solo un caso).

La trama però non è poi così importante, quando siamo coinvolti in un vorticoso turbine di avvenimenti, con una serie di sorprese che finiscono per confermare ipotesi, e conferme che si trasformano in sorprese. Nulla è come sembra, eppure alla fine tutto è come ci aspettavamo. Una girandola da perderci la testa.

Tra le varie cose che capitano nell'episodio:

Janine (Yasmine Akram), testimone della sposa ne Il segno dei tre, sembra essersi messa con Sherlock. Ma non conviene stupirsi, le cose sono perfino più complicate di così. Risulterà che con lei Sherlock ha commesso uno dei suoi tipici errori da sociopatico.

Si spiega come mai Mary (Amanda Abbington) sia così in sintonia sia con Sherlock sia con John, soprattutto col secondo, visto che ora è la signora Watson ed è in attesa dell'erede (che scopriremo nel finale essere femmina). Anche lei ha un lato oscuro, e questo potrebbe essere catastrofico. Dipenderà molto dal grado di maturità del buon dottore.

La famiglia Holmes passa assieme un Natale. Non capita molto spesso, ci viene spiegato, a quanto pare per il carattere dei due rampolli. Comunque abbiamo modo di fare la conoscenza dei genitori di Sherlock (Wanda Ventham e Timothy Carlton), che avevamo appena intravisto ne La cassa vuota.

Mycroft (Mark Gatiss) si lascia sfuggire che esiste un terzo fratello Holmes. Nulla si sa sul suo conto, se non che ha fatto una brutta fine. Mi piacerebbe che fosse niente meno che Jim Moriarty (Andrew Scott), anche se la spiegazione potrebbe richiedere circonvoluzioni piuttosto complesse. La fratellanza spiegherebbe la strana attrazione/repulsione tra lui e Sherlock.

A proposito di Moriarty. Nonostante quello che abbiamo visto ne Le cascate di Reichenbach sembra essere vivo, vegeto, e in vena di far sfracelli.

Il titolo dell'episodio si riferisce a quella che mi sembra sia stata l'ultima battuta della puntata precedente. Sherlock ha promesso ai Watson che avrebbe fatto di tutto per proteggerli. E qui si troverà subito a dover mantenere la sua parola.

PS: La terza stagione di Sherlock, e in particolare quest'ultimo episodio, è stata tra le protagoniste dell'ultima edizione degli Emmy vincendo i premi per:

Attore protagonista: Benedict Cumberbatch
Attore non protagonista: Martin Freeman
Sceneggiatura: Steven Moffat
Montaggio video
Montaggio audio
Fotografia
Colonna sonora

Le due vie del destino

Non è un melodramma che racconta la tormentata storia d'amore tra i due protagonisti, Eric (Colin Firth) e Patti (Nicole Kidman). Ed è un peccato, perché i due funzionano bene assieme. Per fortuna se ne sono accorti un po' tutti, e ci sono già due film con loro, Before I go to sleep, già nei cinema inglesi, e Genius che è ancora da girare.

Non è nemmeno un film sulla seconda guerra mondiale, nonostante che i flash back, dove Jeremy Irvine agisce nel ruolo del giovane Eric, portino via un mucchio di tempo.

Direi invece che sia un film su quanto la tortura sia destabilizzante tanto per il torturato, e questo credo sia ovvio, quanto per il torturatore. Che poi è un tema che in Zero dark thirty è stato solo accennato, probabilmente per non infastidire lo spettatore.

La sceneggiatura è basata sull'autobiografia di Eric Lomax. Come spesso succede in questi casi, deve essere stato un lavoraccio tagliare il materiale originale per far sì che il risultato non trasbordasse. Qui siamo poco sotto le due ore, ma avrei preferito se il regista (Jonathan Teplitzky) avesse premuto per tagliare ancor di più. Non avrei avuto niente da ridire se l'intero flash back al tempo della guerra fosse stato eliminato, magari per lasciare più spazio al romance tra Eric e Patti.

Si parte proprio scoprendo come i due, ormai non più giovincelli, si conoscono in treno. Si piacciono e, in un battibaleno si sposano. Poco dopo, però, Patti scopre che Eric a tratti diventa un pericolo per sé e per gli altri. Finlay (Stellan Skarsgård), ex commilitone di Eric, spiega (malvolentieri) a Patti come Eric non sia riuscito a superare lo shock di una lunga prigionia in tempo di guerra, nel corso della quale fu sottoposto a lunghe sessioni di tortura.

Nel flash back ci viene mostrata la caduta di Singapore in mano giapponese, e di come i prigionieri fossero usati per costruire una ferrovia impossibile nella giungla. Ad Eric fu contestato l'uso di una radio e la stesura di una mappa sui lavori ferroviari. E la polizia segreta giapponese non era nota per la sua benevolenza.

Nel dopoguerra, Eric tentò di inutilmente superare il trauma con il lavoro. Dopo decenni, finalmente un colpo di fortuna, l'incontro con Patti, che gli dà lo stimolo per ripartire. Ma sembra che non basti, anche perché Eric si rifiuta di parlare con chiunque di quello che gli si agita dentro.

Succede però che Finley scopra che quello che Eric identifica come il suo torturatore, il traduttore Takeshi Nagase (Hiroyuki Sanada e Tanroh Ishida da giovane), è ancora vivo e, in quello che viene interpretato come uno sfregio alla loro memoria, accompagna i turisti che visitano la ferrovia che hanno costruito.

Superando la sua riottosità ad affrontare in ogni modo quel periodo, Eric decide di partire, possibilmente per uccidere Takeshi. Scopre però che questi è ossessionato dal suo passato almeno quanto lui. E l'incontro finisce per risultare utile ad entrambi.

Sherlock 3.2 - Il segno dei tre

Il titolo è un chiaro riferimento a Il segno dei quattro, secondo racconto della serie originale firmata da Conan Doyle, di cui mantiene qualche elemento, ad esempio l'assassino ha lo stesso nome, rivoluzionando praticamente tutto quanto il resto. Se nell'originale era qui che entrava in scena Mary Morstan in quanto contattava Holmes per sottoporgli lo strano caso in cui trovava, e il dottor Watson se ne innamorava nel corso dello svolgimento dell'azione, in questo universo alternativo i due piccioncini si sono incontrati non si sa come mentre Holmes era in giro per il mondo, come riportato dal precedente episodio, e ora si stanno sposando.

Tutto l'episodio gira attorno al matrimonio di John Hamish Watson (Martin Freeman) e Mary Elizabeth Watson (Amanda Abbington), e come questo sconvolga Sherlock Holmes (Benedict Cumberbatch), in particolare perché ha il ruolo di testimone dello sposo, con tutto quello che ne consegue secondo la tradizione inglese.

Come spesso accade, a fare le spese delle sua incapacità nel gestire le situazioni sociali sono i suoi (pochi) amici. L'ispettore Lestrade (Rupert Graves) potrebbe raccontare qualcosa in materia.

Se tutti gli episodi di Sherlock sono pervasi da una buona dose ironia, questo usa con gran gusto i toni da commedia. Forse anche per nascondere il suo lato più melanconico. Vediamo infatti Holmes in tremendo imbarazzo nel cercare di combattere la sua sociopatia, ammettere in pubblico la sua insensibilità, ai suoi più cari amici il proprio infantilismo, e a se stesso la superiorità deduttiva di Mycroft (Mark Gatiss). Farà pure un timido tentativo di conquista sentimentale (la testimone della sposa), troppo timido perché possa aver successo.

Dragon trainer 2

Sarebbe meglio, anche se non è indispensabile, vedersi prima Dragon trainer 1 sia per capire in che razza di curioso universo parallelo ci troviamo, sia per dare alla nostra mascella un ulteriore motivo per cadere liberamente quando vediamo come è progredito il disegno in "soli" quattro anni. La parte iniziale non è strettamente necessaria alla sviluppo della storia ma è una tale festa per gli occhi, ed è pure così emozionante, che da sola vale il prezzo del biglietto.

Produzione DreamWorks affidata al solo Dean DeBlois, che pare stia già lavorando al terzo episodio, visto che il suo ex compare Chris Sanders lo ha mollato per Kirk De Micco, e i due si sono dedicati ai Croods, progetto che mi pare meno interessante, puntando ad una fascia d'età più bassa, e pure a famiglie più tradizionaliste. D'altronde bisogna pensare un po' a tutte le fascie di mercato, visto che fare animazioni costa una vagonata di soldi.

Succede che Hiccup diventa grande e deve affrontare il suo più grande incubo, prendere il posto di suo padre, Stoick, che comincia a diventare anzianotto e non ha più tanta voglia di essere a capo del villaggio. In più c'è una nuova minaccia, un tale, che scopriremo essere un antico nemico di Stoick, sta creando una massiccia armata di uomini e draghi con un fine che non è ben chiaro ma sicuramente non è niente di buono. Ad aiutare Hiccup arriverà una nuova e inattesa alleata, sua madre Valka (doppiata in inglese da Cate Blanchett), che era stata data per morta quando il figlio era solo un frugoletto.

Aumentano i draghi, si aggiungono nuovi personaggi, la grafica è strabiliante. Peccato per qualche scelta di sceneggiatura che mi ha lasciato perplesso, come la gigantesca battaglia con draghi "buoni" contro draghi "cattivi" e un gran dispiego di umani che sembra quasi una carneficina in stile Signore degli anelli, che però mi pare si risolva con minime perdite.

Sherlock 3.1 - La cassa vuota

Il primo episodio della terza stagione riserva un gran numero di sorprese, in particolare per il dottor Watson (Martin Freeman) al quale gliene capitano di tutti i colori. Rischia pure di finire arrosto per mano del nuovo e sconosciuto avversario di Holmes (Benedict Cumberbatch).

Ma prima, c'è un miniepisodio reperibile sul canale BBC di youtube, Many happy returns andato in onda nel Natale 2013 e che accenna a quel che ha fatto Sherlock dal momento della sua caduta, nell'ultimo episodio della seconda annata.


Il titolo originale, The empty hearse, dove hearse è il carro mortuario, allude evidentemente a The Adventure of the Empty House, L'avventura della casa vuota, episodio delle avventure holmesiane in cui Conan Doyle cede infine alla pressione dei fan dell'investigatore e lo fa tornare in azione. Simpatico il gioco della distribuzione italiana che è riuscita a fare una analoga trasformazione nel titolo, facendo diventare cassa (da morto) quella che era una casa.

Scopriamo che Holmes ha speso un paio d'anni per ricostruire i dettagli della estremamente ramificata e pericolosa organizzazione criminale di Moriarty, e smantellarla. Scopriamo anche che suo fratello Mycroft (Mark Gatiss) aveva finto di farsi abbindolare dal genio del male, mentre invece i due Holmes avevano, una volta tanto, messo da parte i loro conflitti per coglierlo di sorpresa. Scopriamo anche come è stato architettato il finto suicidio di Sherlock. Insomma, più che una puntata sembrerebbe uno spiegone all'ennesima potenza. Per fortuna il tutto è realizzato con mano molto leggera. In particolare sul salto nel vuoto ci vengono date più versioni, una più improbabile dell'altra, prima di rivelare quella che (forse) è vera.

Molte altre cose succedono. Ad esempio Watson si è (informalmente, causa il repentino ritorno di Holmes) dichiarato a Mary (Amanda Abbington), new entry nella serie ma che ha uno spessore tale da far chiedere come mai sia arrivata solo ora. Molly (Louise Brealey) ha trovato un qualcun altro (Sherlock non dice nulla sul suo conto, ma non sembra convintissimo, mentre mi sembra che Mary gli abbia fatto un'ottima impressione).

Il caso principale non è una gran cosa, dei terroristi tramano per far saltare in aria l'intero parlamento, e quasi ci riuscirebbero, se non fosse per l'intervento all'ultimo minuto del flemmatico duo.

La ragazza del dipinto

Si può tranquillamente guardare come se fosse una storia alla Jane Austin (vedasi ad esempio Orgoglio e pregiudizio nella versione di Joe Wright) e sarebbe già bel film. Ma c'è molto di più nella sceneggiatura di Misan Sagay, ben resa dalla regia di Amma Asante grazie anche all'ottimo cast (solo Sam Reid non mi ha convinto completamente), le belle scenografie, i costumi e la colonna sonora firmata da Rachel Portman che ingloba anche brani di Georg Friedrich Händel e Johann Sebastian Bach.

Prima che cominci il film, il capitano di marina sir John Lindsay (Matthew Goode), di stanza da qualche parte nelle colonie di Sua Maestà, ha avuto una relazione con una nativa di colore da cui ha avuto una bella bambina di nome Dido Elizabeth Belle (da cui il titolo originale inglese, Belle). Non sappiamo come e perché, ma la mamma di Belle muore, e capitan John ne è addolorato a tal punto da riconoscere la paternità (siamo nel tardo settecento, la bambina è mulatta, lui è nobile, il riconoscimento non è per niente scontato) e portare la piccola in Inghilterra, per affidarla agli zii, Lord (Tom Wilkinson) e Lady (Emily Watson) Mansfield, che già badavano alla piccola Elizabeth, figlia di un loro altro nipote. Sir Lindsay riparte per la sua missione, e mai più lo rivedremo.

Lord Mansfield è nientemeno che Lord Chief Justice, ovvero colui a cui spetta l'ultima parola in tema di interpretazione della legge inglese, ed è inizialmente in grande imbarazzo nell'accogliere una non-bianca nella sua famiglia. Le leggi e le consuetudini del tempo in una società estremamente formale come quella inglese sono tali da rendere complicate persino le cene in situazioni come questa. Ma basta uno sguardo della piccola Dido (Lady Mansfield decide che sia chiamata col suo primo nome), e una battuta che gli fa intuire la sua pronta intelligenza, per fargli accettare la pronipote, che prenderà rapidamente a benvolere come se fosse una figlia.

Passano gli anni e le due bimbe si sono trasformate in splendide giovin donne (Sarah Gadon e Gugu Mbatha-Raw), e i Mansfield devono pensare ad accasarle. Il che è un problema per entrambe, visto che Elizabeth non ha un soldo e Dido, che pure può contare sul discreto patrimonio lasciatole dal padre, ha un colore della pelle che non viene considerato consono nella buona società.

Sembra che i fratelli Ashford possano fare al caso ma basta notare che per interpretare Lady Ashfor è stata scelta Miranda Richardson e per il maggiore Tom Felton per capire che non è destino che questa sia la meta delle due ragazze. Inoltre vediamo che c'è John Davinier (Sam Reid), figlio del curato che cerca di farsi largo nel campo della giustizia, che sembra un buon candidato per Dido, ma c'è una serie di ostacoli che devono essere superati. (Spoiler: le premesse austeniane verranno mantenuete)

Nascosta dietro questo paravento rosa c'è una trama sociale di buon spessore. Da un lato veniamo messi a parte di un caso legale realmente accaduto (e trattato dal vero Lord Masfield), il massacro della Zong. Un caso nato dalla diatriba tra un armatore schiavista e la compagnia assicurativa che non voleva pagare un danno, in quanto subdorava una truffa, ma che ha finito per diventare paradigmatico nel dibattito sulla liceità di quel commercio nel Regno Unito. Dall'altro ci viene mostrato come la vita in Inghilterra nel tardo settecento fosse, relativamente parlando, una bellezza. A patto di nascere bianchi, maschi, e di buona famiglia. E anche come la moralità possa spingere a cambiare leggi.

Da questo punto di vista, il protagonista del film non è più Dido/Belle, ma Lord Mansfield.

Il titolo italiano del film non è peregrino come potrebbe sembrare a prima vista. Esiste realmente un dipinto con le due cugine, è stato proprio lui la scintilla che ha fatto nascere la sceneggiatura, e ha un ruolo fondamentale nella storia.

Doctor Who 8.3: Robot of Sherwood

Di tanto in tanto il Dottore (e Peter Capaldi è il Dodicesimo) concede a chi lo accompagna, in questo caso Clara Oswald (Jenna Coleman), di decidere dove la TARDIS vada a parare. E Clara, che in fin dei conti è una tenerona, sceglie di incontrare Robin Hood.

Impossibile cercare di spiegarle che l'infallibile arciere della foresta di Sherwood è una leggenda, perché lei, che insegna inglese, lo sa già per conto suo. E dunque l'unica è andare sul posto e nel tempo e farle vedere come stanno davvero le cose.

Sorprendentemente (ma mica tanto sennò la puntata sarebbe veramente troppo breve) è tutto come ci ha tramandato la leggenda, inclusi gli allegri compari e lo sceriffo di Nottingham (Ben Miller). Con alcune variazioni. In particolare, a causare la cupidigia dello sceriffo è la necessità di procurarsi abbastanza oro per riparare una astronave con relativi pericolosi robottoni che si è schiantata da quelle parti.

Dopo un inizio di stagione molto cupo, questo episodio scritto da Mark Gatiss spicca per la sua leggerezza. Il Dottore sembra aver accantonato, almeno per il momento, i suoi dubbi morali. Come spesso gli accade, l'incontro con un personaggio con una spiccata tendenza al narcisismo lo stimola alla competizione. E vedere Dottore e Robin Hood (Tom Riley) che cercano di sopravanzarsi a vicenda è uno spettacolo piuttosto buffo.

Chef - La ricetta perfetta

Questo film è una strana bestia. Un prodotto indipendente che sembra venir fuori da una major. Una storia che ha un'apparenza di realismo (per quanto hollywoodiano) ma che fila via senza scosse come una favola alla fine della quale sappiamo che ci aspetta il tutti vissero felici e contenti di ordinanza.

Si narra di Carl, un cuoco (Jon Favreau) che è stufo della sua vita. Lavora in un bel ristorante, con una bella squadra, e va tutto bene. Se non che non è felice, vorrebbe sperimentare ricette alternative, ma questo non è nello spirito del locale, come gli fa notare il proprietario (Dustin Hoffman). Anche la sua vita privata è in un vicolo cieco, divorziato da Inez (Sofía Vergara) che ha in affido il figlio, ha una mezza liason con la caposala (Scarlett Johansson) che non porta da nessuna parte.

Tutto questo lo porta a reagire in modo abnorme alla recensione negativa di un noto critico (Oliver Platt), il che lo porterà a mollare il suo lavoro sbattendo la porta. Poco o niente cambia per il locale, visto che il suo sous-chef (Bobby Cannavale), pur maledicendosi per la propria codardia, lo sostituisce egregiamente. A questo si aggiunga che siamo in epoca di internet, e la piazzata che il nostro fa nell'uscire di scena diventa nota a tutto il mondo, precludendogli alternative valide.

La ex-moglie, che evidentemente lo conosce bene, già da tempo gli diceva di cambiare vita, e gli suggeriva di prendersi una vacanza di lavoro, girare su di un furgone attrezzato per far panini e robe così. A questo punto lui cede. Il furgone glielo dà l'altro ex-marito di Inez (Robert Downey Jr.), come compare riesce a reclutare Martin (John Leguizamo), che già abbiamo visto lavorare con lui, e per di più si porta dietro pure il figlio, con il quale riuscirà finalmente ad avere un rapporto adulto (cosa che voleva il figlio decenne, evidentemente il più maturo nella relazione).

Da questo punto in poi il film si trascina piuttosto stancamente verso un finale piuttosto insipido.

Mi pare fin troppo ovvio che si tratti di una metafora. Favreau è nato al cinema come regista indipendente anche se, grazie alla sua evidente capacità di fare amicizia (basta vedere i nomi nel cast per vederla), è passato presto a dirigere e produrre colossi da centinaia di milioni. Si parla di cucina, dunque, ma ci si riferisce al cinema. Purtroppo Carl è molto più bravo come cuoco di quanto Jon sia capace come sceneggiatore (mentre come regista se la cava decentemente, e come produttore dimostra di sapersi far valere anche con budget limitati). La storia ha spunti interessanti, ma anche lunghe pause in cui si perde solo tempo.

12 anni schiavo

Da quel che avevo letto mi aspettavo di vedere torture inenarrabili. E, visto che nell'intimo sono una mammoletta, ero pronto a fast-forwardare le scene più raccapriccianti. Nulla di tutto ciò. La scena più violenta è quella in cui il latifondista più brutale (Michael Fassbender) frusta e fa frustare la schiava (Lupita Nyong'o) di cui è, in un suo modo malato, innamorato.

Il dubbio che mi viene è che viviamo in tempi bizzarri, nei quali la violenza più estrema può essere tranquillamente esibita a patto che sia attribuibile ad altri, ai quali si possa mettere una confortante etichetta di irrealtà (vedi i vari blockbuster tarantiniani, michaelbayani et cetera) o di cattiveria così estrema che diventa facile crearsi l'alibi di essere totalmente altri da noi.

Allora forse il problema di questo film, scritto da John Ridley sulla base delle memorie del protagonista e diretto con la consueta perizia da Steve McQueen, è che è fin troppo facile immedesimarsi con un qualche "cattivo", visto che ce n'è un po' di tutti i tipi, ed è contemporaneamente molto difficile essere simpatetici con loro.

Credo che ormai la storia narrata la conoscano tutti. Solomon Northup (Chiwetel Ejiofor) viene rapito dallo stato di New York, portato nel sud e, impostagli una identità fittizia da schiavo, venduto come schiavo.

Incontra tutta una serie di personaggi, una specie di inferno dantesco, ognuno dei quali è costretto dai (o sguazza felice nei) limiti imposti da una società che ha legalizzato la schiavitù.

Solomon passa tra le mani di un mercante di schiavi (Paul Giamatti) che non ha problemi a dichiarare che la sua compassione si ferma quando i soldi entrano in gioco. Viene venduto a Ford (Benedict Cumberbatch), latifondista relativamente illuminato, che però non vuole immischiarsi in problemi più grossi di lui. A causa di un capetto (Paul Dano) che ce l'ha lui, viene ceduto ad Epps (Fassbender), un quasi-psicopatico con una difficile relazione con la moglie (Sarah Paulson), anche lei una di quelle persone da cui conviene stare a distanza di sicurezza. Infine, un fortunoso contatto con un carpentiere canadese (Brad Pitt) fa sì che il nostro riesca a stabilire un contatto con la famiglia e dunque a riottenere la libertà.

Ci sono volute due ore abbondanti a McQueen per raccontare la storia. Ma i punti chiave sono narrati in pochi secondi, tutto il resto serve solo a creare un affresco complessivo in cui i dettagli fondamentali possano risaltare. Ad esempio, il film segue il punto di vista di Solomon, e nulla sappiamo della sua famiglia fino alla scena finale, quando c'è il ricongiungimento e il nostro scopre quanto la sua assenza sia pesata a tutti loro.

Senza indizio

Le scuse a Conan Doyle che chiudono i titoli di coda credo non siano porte per lo stravolgimento che gli sceneggiatori hanno apportato ai personaggi, l'opera di sir Arthur ha sopportato ben altro, quanto al fatto che l'intera trama investigativa, che pure mi sembra un degno apocrifo, sia lasciata scorrere senza riservarle troppa attenzione. L'enfasi è infatti tutta sullo studio dei due personaggi principali che vengono seguiti nel loro sviluppo.

Peccato che la regia (Thom Eberhardt), forse intimorita dal calibro dei protagonisti, sia praticamente assente, limitandosi a lasciare che l'azione si svolga. E peccato che la sceneggiatura proponga una lunga parte centrale in cui non si fa altro che rimarcare il conflitto tra i due caratteri, reiterando inutilmente quanto ci è stato illustrato nella parte iniziale.

Il film inizia con Sherlock Holmes (Michael Caine) che, con l'assistenza del dottor John Watson (Ben Kingsley), risolve un caso mortificando l'ispettore Lestrade (Jeffrey Jones) che avrebbe molto volentieri fatto a meno del loro aiuto. Scopriamo però che Holmes non è il genio deduttivo che credevamo di conoscere, trattasi invece di uno scarsissimo attore teatrale, tale Reginald Kincaid, che Watson ha assunto perché, in quanto medico, non voleva far sapere di avere l'hobby dell'investigazione.

C'è una forte tensione tra i due. Watson non sopporta più che la gente non si ricordi nemmeno del suo nome, mentre tutti pendono dalle labbra di Holmes, anche quando questi, che nulla capisce di indagini poliziesche, dice delle sciocchezze senza capo né coda. D'altro canto, nemmeno Holmes è felice della situazione. Vive costantemente recitando una parte che richiede continua improvvisazione, e lo fa brancolando nel buio (questo il senso del titolo originale, Without a clue, che è stato tradotto letteralmente in italiano, perdendone il significato).

Un ennesimo litigio fa sì che Watson butti fuori dal 221B di Baker Street Holmes, con gran gioia di Mrs Hudson, e decida di rivelare al mondo come stanno le cose. Il problema è che il mondo non è pronto per questa rivelazione. In più, il perfido professor Moriarty (Paul Freeman), che fra l'altro sa bene che il suo avversario è Watson e non Holmes, minaccia di far crollare l'intero sistema monetario britannico, ed è dunque gioco forza far sì che i due affrontino assieme questo ultimo caso.

La troppo lunga parte centrale ci spiega con dovizia di dettagli come Watson sia geniale ma nessuno gli faccia caso e Holmes un alcolizzato donnaiolo senza la minima capacità investigativa, e pure con una certa tendenza a causare danni.

Moriarty è però un avversario ostico, e Kincaid dovrà mostrare quali sono i suoi talenti.

La furia dei Baskerville

Versione della mitica casa di produzione Hammer della classica avventura di Sherlock Holmes meglio nota da noi come Il mastino dei Baskerville. Perché mai la distribuzione italiana abbia deciso di trasformare il mastino in una furia è una di quelle domande destinate a non avere una risposta convincente.

La Hammer è specializzata in horror, con tendenza al sovrannaturale, il che cozza con l'impostazione estremamente razionalista che Conan Doyle aveva del suo investigatore. Mi aspettavo perciò qualcosa come un film di Michael Bay ambientato prima dell'invenzione della polvere da sparo, e non mi sbagliavo poi di tanto. Non ricordo esattamente il racconto originale, ma non mi pare ci fosse una spaventosa tarantola, e nemmeno tutto quel sangue. Direi che l'intreccio è stato manomesso per inserire elementi che il pubblico di riferimento potesse riconoscere e apprezzare.

Non è che sia un purista, e non mi spiace per niente che le storie holmesiane vengano stravolte e adattate a diverse esigenze. Mi sono divertito guardando come l'ha trasformato Guy Ritchie e mi sto appassionando alla serie televisiva della BBC, che ha prodotto, tra l'altro, anche un episodio basato sullo stesso materiale ma cambiandone decisamente la natura. Qui però si è fatto un pasticcio.

Nonostante tutto, bravo Peter Cushing nel ruolo principale, e non mi è dispiaciuto nemmeno André Morell nei panni del dottor Watson. Mi ha lasciato un po' perplesso Christopher Lee come giovane Baskerville, non per demerito suo, ma perché devo fare un notevole sforzo per vedere nei panni dell'amabile signorotto di campagna l'attore che ha interpretato ruoli come il mostro di Frankenstein, Dracula, Fu Manchu e Saruman.

Tra i bizzarri cambiamenti del testo, da notare la figura della prima donna della storia (comunque un ruolo secondario), qui chiamata Cecile e interpretata dalla nostra Marla Landi, definita come figlia spagnola di Stapleton, intraprendente e cattivella, mentre nell'originale era la signora Stapleton (a sua volta personaggio molto diverso), succube del marito ma di indole buona. Nel romanzo se la cavava relativamente a buon prezzo, qui invece fa una fine orribile.

Stendo un pietoso velo sugli effetti speciali.

Il corvo - The crow

La morte sul set del protagonista, Brandon Lee, ha finito per oscurare ogni altro particolare relativo al film. Ed è un peccato, perché la colonna sonora ha un suo interesse, intessuta com'è di brani riconducibili al filone della musica post punk tendenzialmente in direzione gothic. Anche se il periodo d'oro del genere è negli anni ottanta, e le sonorità delle canzoni proposte, tutta roba contemporanea al film, mostrano una fase di ripensamento e superamento verso nuove direzioni. A mio gusto il brano più significativo è Burn dei Cure (subito all'inizio), scritto espressamente per l'occasione. Curiosa la rilettura da parte dei Nine inch nails in chiave industrial di Dead souls dei Joy division.

La sceneggiatura è tratta dal lavoro di James O'Barr, che ha per l'appunto creato il personaggio de Il corvo che agisce nell'omonima graphic novel. Il regista (Alex Proyas) ha deciso di mantenere un atmosfera da fumetto, non curandosi dell'inverosimiglianza della storia, della monodimensionalità dei personaggi, o di un basso tasso di espressività degli attori. Tecnicamente, ha puntato su inquadrature sghembe e un montaggio che fa pensare ai brutali tagli di scena in corrispondenza della fine di una tavola.

La storia è una specie di incubo vendicativo nei confronti della delinquenza comune tipica delle grandi città americane. Una coppia di fidanzatini viene uccisa il giorno prima del loro matrimonio, che era previsto per Halloween. Un anno dopo lui (Lee) torna in vita, e per di più con un corpo indistruttibile, con lo scopo di uccidere i quattro che gli hanno fatto questo brutto scherzo. Si trucca un po' come il Joker di Batman, di cui ricorda a tratti anche il comportamento da psicolabile, e si mette in azione. La quale perde interesse come scopriamo che nemmeno le pallottole gli fanno un baffo. Fortuna che verso la fine i pochi cattivi superstiti intuiscono il suo punto debole e almeno abbiamo uno scontro con qualche chance anche per loro.

Colpa delle stelle

Il target è minorile, ma si tratta di un dramma romantico tra giovani morituri. Tradizionalmente al pubblico italiano (di tutte le età) non fa piacere che si tratti di malattie e morti, a meno che la nera signora non venga esorcizzata usando toni irrealistici. Riuscirà questo titolo a fare eccezione? Il successo nel resto del mondo, e la informale candidatura agli Oscar giunta da più parti potrebbe fare il miracolo.

Per restare nella stessa categoria, a me è piaciuto più L'amore che resta (2011), firmato da Gus Van Sant, che gioca meno sul patetico e più sull'umorismo, che però ha avuto un riscontro di pubblico decisamente inferiore. Alzando l'età del target di riferimento c'è poi 50 e 50 (2011), che è giocato ancor più decisamente sul piano della commedia.

Questa sceneggiatura ha un difetto tipico di quelle non originali basate su un romanzo (John Green), la lunghezza eccessiva. Una bella sforbiciata avrebbe a mio avviso giovato. La regia (Josh Boone) non è che faccia grandi sforzi artistici, lascia correre l'azione, confidando sull'alto tenore emotivo della storia. E forse è giusto così, per evitare un sovraccarico di informazioni allo spettatore.

Protagonisti credibili, con Lei (Shailene Woodley) e Lui (Ansel Elgort) ad occupare la scena per gran parte del tempo. Piccolo ruolo per Willem Dafoe, a cui spesso si rivolgono quando la parte da recitare è spigolosa e antipatica. La madre di lei mi diceva qualcosa ma non riuscivo bene ad identificarla, poi ho scoperto essere Laura Dern, la paleontologa di Jurassic Park, come passa il tempo.

Alcune idee della storia non mi hanno convinto per niente, tipo il fatto che Lui spesso metta in bocca una sigaretta ma non l'accenda mai, per fare un punto che mi pare bislacco, o la visita alla casa di Anna Frank ad Amsterdam che è usata da Lei per farne un altro, altrettanto poco sensato.

A proposito di Amsterdam, da notare che i due piccioncini vi volano a spese di una associazione benefica, visto che le loro famiglie non hanno i soldi per mandarceli. E uno si direbbe, che strano, non sembrano certo poveri, e un viaggio di pochi giorni cosa può costare, qualche migliaio di dollari? Poi ci si ricorda che è una storia americana, e le due famiglie devono essersi indebitate fino al collo per le spese mediche dei loro rampolli.