Valerian e la città dei mille pianeti

La scena di apertura è praticamente perfetta nel narrare in pochi minuti l'antefatto dell'azione senza che una sola parola venga detta. Mentre ci ascoltiamo Space oddity (*) scorrono le immagini di decenni, secoli, di sviluppo della base Alpha, che sarebbe poi una evoluzione della Stazione Spaziale Internazionale, che si suppone abbia attratto prima un po' tutte le nazioni umani, e poi specie aliene, fino a diventare un enorme pacifico conglomerato.

Finita la bella prefazione, ci viene spiegato che Alpha è così grossa da non poter restare nell'orbita terrestre, e così viene sparata via. E qui cominciano le domande a cui la sceneggiatura (**) non pensa nemmeno di darci una risposta. Ad esempio, forse avrebbe avuto più senso mantenere Alpha in orbita attorno al nostro Sole. Meno costi, meno rischi, tutto più facile. Ma forse è meglio così, capiamo subito che è meglio non andare troppo per il sottile con la verosimiglianza e che dobbiamo invece goderci lo spettacolo.

Succede dunque che, quando ormai Alpha è a svariati anni luce di distanza dalla Terra, un oscuro caso richiede che il maggiore Valerian (Dane DeHaan) e la sergente Laureline (Cara Delevingne) partano per una missione di cui anche loro non hanno i contorni molto precisi. In parallelo c'è pure il fatto che Valerian vorrebbe che Laureline non fosse semplicemente la sua collega ma ella, pur non essendo contraria, non apprezza l'immaturità di lui, e non ha nessuna voglia di essere solo la sua ennesima conquista.

Se i due protagonisti non brillano per carisma (***) è divertente trovare in particine secondarie Clive Owen, che fa il cattivo (°), Rihanna, una cantante-ballerina mutante, Ethan Hawke, magnaccia senza scrupoli, Herbie Hancock, ministro della difesa, Rutger Hauer, presidente della federazione umana. Impressionante il numero e la varietà degli alieni. Roba da perderci la testa. Una cosa tipo la scena del bar spaziale del primo Guerre Stellari (quello che poi è diventato il capitolo IV, 1977) all'ennesima potenza.

(*) Canzone spesso utilizzata sia in film di fantascienza, come ad esempio in Eva (2011), dove ne sentiamo un pezzetto dalla versione originale di David Bowie, sia in film che sono più interessati al senso profondo di questo hit del Duca Bianco piuttosto che ai suoi riferimenti di genere, come il remake di Walter Mitty (2013), dove a cantarla è anche Kirsten Dunst.
(**) Di Luc Besson, basata sui fumetti di Pierre Christin e Jean-Claude Mézières. Sempre di Luc Besson la regia. La produzione invece l'ha affidata alla moglie.
(***) Ma se la cavano bene per quel che devono fare. L'attrazione reciproca è credibile, e anche nelle scene di azione tutto fila in modo accettabile.
(°) Tecnicamente questo sarebbe uno spoiler, ma si vede subito che quello è il suo ruolo.

Ombre rosse

Non mi stupisce che John Ford sia tra i registi del suo periodo più ammirati dai suoi colleghi. La scena dell'assalto indiano della diligenza, un tiro a sei lanciato a tutta velocità nel deserto, è un pezzo di maestria assoluta (*), senza nemmeno bisogno di star tanto a pensare come cavolo possono averla girata, con i mezzi a disposizione all'epoca. Notevoli anche le scene girate in interno, realizzate solitamente con minimi spostamenti di macchina, e a volte con un curioso indugiare a fine sequenza sul personaggio che in quel momento è sotto la lente (**), come se lo si volesse studiare anche fuori dall'azione.

Altro aspetto di assoluto rilievo, è la capacità di tenere assieme un cast composito, dove nessuno spicca, perché è l'interazione tra personaggi estremamente diversi a reggere il racconto. Pare infatti che Ford sia stato colpito proprio dall'idea di mettere un microcosmo dagli stridenti contrasti in un ambiente claustrofobico e tirare le corde degli accordi e contrasti. Meno interesse aveva trovato nel succo della storia breve, firmata da Ernest Haycox che, a dire il vero, non è tra le sue cose più riuscite. C'è da dire anche che il racconto è pesantemente ispirato da Palla di sego di Guy De Maupassant, trasposto da una guerra franco-prussiana al west, eliminandone quasi totalmente la graffiante polemica sociale e aggiungendovi un lieto fine ben poco convincente. La sceneggiatura di Dudley Nichols approfondisce meglio i caratteri, ma rende la storia più confusa, sia per adattarla al protagonista maschile, inesistente nel racconto originale, dal peso minimo nella versione di Haycox sia per gonfiare maggiormente l'happy end, a ulteriore scapito della credibilità della storia.

Una diligenza è in viaggio nel West, quando all'improvviso Geronimo diventa turbolento. Per motivi vari, il viaggio deve proseguire e, ognuno per il suo motivo, magari anche sottovalutando i pericoli, i passeggeri decidono anch'essi di continuare. Diverse le tensioni tra di loro, catalizzate in particolare su Dallas (Claire Trevor), prostituta che è costretta a cambiare paese, e su una signora di relativa alta classe che è in viaggio per raggiungere il marito, ufficiale dell'esercito. C'è poi un giocatore d'azzardo professionista (John Carradine) che intraprende il viaggio con l'idea di far da cavalier servente alla dama, e un medico ubriacone (Thomas Mitchell - premiato con l'Oscar per questa interpretazione), anch'egli imbarcato in quanto poco apprezzato in paese. Lo spazio sarebbe già scarso, ma il banchiere locale si aggrega all'ultimo momento (***) e poco dopo un avanzo di galera dal cuore d'oro, Ringo Kid (John Wayne) finisce per riempire anche l'ultimo strapuntino.

Ne capitano un po' di tutti colori, con un parto in condizioni di emergenza, responsabili di stazioni di cambio che si dimostrano irresponsabili, donne indiane che cantano in spagnolo, fino ad arrivare alla scena madre, dove ogni proiettile dei bianchi ammazza (almeno) un pellerossa. Finale con Ringo Kid (°) che regola i suoi conti e si avvia verso una nuova vita con la sua bella.

(*) Non per nulla il titolo originale è Stagecoach.
(**) Credo che si tratti di una vestigia del modo di dirigere tipico dei film muti. Il cinema era giovane, e lo spettatore aveva bisogno del suo tempo per digerire le scene, e magari scambiare qualche osservazione col vicino senza interferire con la recitazione. Al giorno d'oggi la sensazione che mi dà è di una piacevole calma narrativa, contrapposta ai montaggi moderni che spesso hanno raggiunto una freneticità al di là del bene e del male.
(***) Personaggio bizzarro. Sta scappando con la cassa ma fa discorsi benpensanti e conservatori che ricordano molto gli slogan recentemente riutilizzati da Donald Trump. E invece di starsene buono nel suo angolino, cercando di passare inosservato, sembra far di tutto per mettersi in mostra. Mal gliene incoglierà.
(°) Wayne aveva già più di trent'anni, altro che "kid"! Ma d'altronde, la Trevor non ha certo l'aspetto di una prostituta da saloon, e anche per lo stato interessante della puerpera bisogna andare sulla fiducia.

Dunkirk

Siamo nel 1940 e Hitler ha quasi vinto la seconda guerra mondiale. Quel che resta del cospicuo esercito inglese in Francia è in rotta, costretto in una sacca attorno al porto di Dunkerque, apparentemente con due sole scelte, la resa o l'annientamento. Si sceglie così la terza ipotesi, evacuare le truppe con mezzi di fortuna, manovra che sorprendentemente funziona.

La narrazione che Christopher Nolan ci fa della vicenda, pur essendo inquadrata nei fatti storici, segue il punto di vista di alcuni personaggi di fantasia, che seguono tre diverse trame legate in modo non banale tra loro. Abbiamo così una trama più terricola (*) dominata dalla storia di un soldatino, Tommy (Fionn Whitehead) che fa di tutto per trovare un passaggio dall'altra parte della Manica. Le sue peripezie sfiorano più volte le preoccupazioni del comandante Bolton (Kenneth Branagh), che dirige l'operazione dal molo, ma senza che i due abbiano modo di entrare realmente in contatto. Al centro della trama marinara (**) c'è la barchetta civile del signor Dawson (Mark Rylance) che fa parte del contingente che viene mandato in guerra, a salvare l'esercito. Si troverà così a raccogliere dal mare, tra gli altri, anche un ufficiale che per noi resta senza nome (Cillian Murphy), che ha avuto modo anche di scambiare qualche battuta con Tommy. La terza trama (***) segue una pattuglia di Spitfire che cerca di offrire un minimo di copertura aerea all'operazione. Delle tre, quest'ultima è la più propriamente bellica, con duelli aerei e un personaggio, il pilota Farrier (Tom Hardy) che tutto sommato potrebbe star bene in un normale film di genere.

Lo sviluppo è tale da creare una continua crescita di tensione, che verrà risolta solo nel finale. Eccellente anche la colonna sonora del solito Hans Zimmer.

Da notare l'uso limitato della verbalità. Qui la gente parla solo quando deve, e quel poco che ci si può aspettare data la situazione. Si consiglia perciò la visione ad un pubblico adulto, nel senso che sappia reperire informazioni da quello che vede, e non solo quando gli vengono spiattellate sotto forma di spiegone.

Da notare anche l'assenza di sequenze splatter. Muore gente, e nemmeno poca, ma la cosa non viene mostrata come se fosse un gioco.

(*) Che prende titolo, Il molo, da quello che è il riferimento di tutti i soldati che si trovano a Dunkerque come unica via di fuga. Ha una durata dichiarata di una settimana.
(**) Il mare, dura un giorno.
(***) Il cielo, ha a sua disposizione una sola ora, l'autonomia di volo di un aereo da caccia.