Il club delle promesse

Simpatica commedia francese, basata su un romanzo dell'irlandese Marian Keyes (nel filone un po' alla Bridget Jones, per intendersi). Sceneggiato e diretto da Marie-Anne Chazel, più nota come attrice, che non sfrutta appieno le possibilità della storia.

La vicenda inizia narrata in prima persona da uno dei tre protagonisti, ma poi finisce per seguire ora un ramo ora un altro della storia. Tre bretoni lasciano la loro isoletta per cercar fortuna a Parigi. Yann (Pierre Palmade) è gay e si butta nel mondo della moda e su una disponibilità sessuale che da giovane non si sarebbe mai aspettato; le due ragazze, invece, hanno notevoli problemi nel relazionarsi con gli uomini: Kathy (Giovanna Mezzogiorno, che finisce per essere la star del film, e che, dal basso del mio francese, mi pare se la cavi abbastanza bene) semplicemente li evita, Tara (Nathalie Corré) è attratta da chi la maltratta, e trova rifugio nel cibo. Yann, complice un tumore, si rompe le scatole di vedere le amiche infelici e praticamente le obbliga a fare quel che è giusto per loro.

La voce della luna

Ultimo lavoro di Federico Fellini, pervaso da un tragico pessimismo. Protagonista è Ivo (Roberto Benigni) che è attratto dai pozzi, da cui sente uscire voci che non capisce cosa dicano. Nel proseguio del film si capisce che è stato in manicomio e questo spiega l'andamento un po' dissennato del racconto. Ivo incontra altri personaggi marginali, chi più chi meno con qualche problema mentale, ed in particolare il prefetto Gonnella (Paolo Villaggio) che pensa di essere vittima di un complotto universale ed è evidentemente angosciato dalla sua vecchiaia.

Un po' meno spazio viene dato ad altri temi tipici di Fellini, il sesso e il difficile rapporto tra uomini e donne, la religione e il potere visti come lontani dal senso comune, il ricordo della gioventù.

Tra i pochi spunti comici, il pranzo di matrimonio in una trattoria con dipinta alle pareti la squadra del Milan al gran completo, il cui presidente appare sulla porta della cucina, aperta dai camerieri con gran calcioni.

Il film si chiude con un colloquio tra Ivo e la luna che vorrebbe essere poetico e di speranza, solo che a questa, sul finire, scappa un accento ciociaro e si interrompe per annunciare la pubblicità. A Ivo non resta che guardare perplesso un pozzo e chiedere un po' di silenzio, che forse potrebbe aiutarci a capire meglio le cose.

La colonna sonora di Nicola Piovani non sfigura.

Nel DVD è presente il trailer originale, molto bello, che utilizza disegni di Milo Manara.

Complotto di famiglia

Ultimo film di Alfred Hitchcock, come al solito ottima la regia, storia non particolarmente valida ma sviluppata in una sceneggiatura che riesce a far brillare gli aspetti che più gli interessavano. Cast che brilla per l'assenza di star, tra cui spicca Bruce Dern (2002 la seconda odissea).

Tipica alternanza di tensione e umorismo (molto british, ovviamente). Svariate battute a sfondo sessuale inaspettate da un regista che tradizionalmente lascia più spazio all'allusione che alla esplicitazione.

Colonna sonora non malaccio (di un ancor giovane John Williams che aveva appena lavorato a Lo squalo ma non ancora a Star Wars).

Buono il DVD che include un interessante documentario, edizione del Corriere della Sera.

Planet 51

Tecnicamente ineccepible (regia e cast quasi completamente spagnolo), buona anche la storia, anche nella prima parte m'è sembrata un po' fiacca, credo che il problema sia nella produzione che penso abbia voluto spingere nella direzione del pubblico più giovane (lato positivo: è uno dei film con l'inglese più comprensibile che ho visto da molto tempo) e americano - per ridurre i rischi del notevole investimento, immagino.

La storia, scritta da Joe Stillman (Shrek), è una sorta di ET al contrario. Un terrestre (con la voce di The Rock - Dwayne Johnson) sbarca su un pianeta abitato da pacifici ometti verdi con le antenne che vivono in una storta di ambientazione nei tardi anni 50 della provincia americana, distorto da un immaginario fantascientifico dello stesso periodo.

Un ragazzetto cerca di salvare il terrestre, che viene inseguito dai militari guidati da un generale non cattivo ma sciocco (Gary Oldman) che viene convinto da uno scienziato pazzo (John Cleese) della pericolosa minaccia. Una parte importante la ha anche un robottino (che ricorda Wall-e - e questa è solo un'altra delle innumerevoli citazioni) e la (potenziale) fidanzata del ragazzetto alieno (Jessica Biel).

A uscirne peggio di tutti sono i militari, dipinti mediamente come una manica di sciocchi. Due tra di loro subiscono l'asportazione del cervello da parte dello scienziato pazzo, senza peggiorare poi di molto le loro capacità. Ma ce n'è un po' per tutti, compreso per un contestatore pacifista anche lui caratterizzato da un livello intellettivo piuttosto basso (e pure stonato).

Probabile che, visto il buon successo a livello planetario, la produzione avrà meno timori per i successivi lavori dell'ottimo team.

The libertine

Solido impianto teatrale per una tragedia che ha per protagonista Johnny Depp nei panni del seicentesco conte di Rochester, morto a 33 anni per non aver trovato un senso nella sua vita.

L'opera è stata convertita per il cinema dallo stesso autore, Stephen Jeffreys, e diretta da Laurence Dunmore al suo primo lungometraggio (più noto nella pubblicità e per video clip) che, nonostante le premesse, si comporta bene.

Buono il cast che affianca a Depp John Malkovich nei panni di re Carlo II; Samantha Morton, attrice di cui il conte si innamora; e Rosamund Pike (Orgoglio e Pregiudizio) la paziente moglie.

Bella la colonna sonora di Michael Nyman, che rielabora come suo solito il barocco in chiave minimalista.

La tragedia del conte sta nel fatto di essere dotato ma di non vedere l'utilità di usare i suoi talenti per fare alcunché di sensato tanto, ragiona, è il caos che governa le nostre vite e i nostri sforzi non servono a nulla. Preferisce quindi rovinarsi la vita tra eccessi alcolici e sessuali - con brevi pause per il gioco d'azzardo. Riesce a trovare anche a trovare il tempo per scrivere qualche verso, il che lo mette un buon metro sopra i suoi colleghi.

Ha una certa passione per il teatro, di cui ammira il fatto che, essendo finzione, è attendibile. Sul palco azioni e reazioni solo legati razionalmente. Nota una attricetta (la Morton) e intuisce le sue capacità. Però lei lo tradisce, diventando confidente del re, che ha commissionato un'opera teatrale al conte ma, conoscendolo, non si sente tranquillo. Il Rochester si vendica mettendo in scena una satira in chiave pornografica della corte reale inglese. Segue la caduta miserevole aiutata dalla sifilide che ha ragione di un fisico debilitato dal massiccio consumo di alcolici.

E' solo quando ormai che in dirittura finale che riesce ad usare i suoi talenti per fare quello che ritiene giusto.

Batman Begins

Christopher Nolan ha iniziato con questo episodio la sua partecipazione alla saga di Batman, che sembrava compromessa da un paio di puntate poco convincenti. Meglio, a mio avviso, Il cavaliere oscuro, uscito tre anni dopo.

La storia qui narrata è quella degli inizi di Batman, trauma infantile, formazione giovanile, e definizione della (doppia) personalità che vedremo meglio in azione a seguire.

Stesso cast principale (Christian Bale, Michael Caine, Gary Oldman, Morgan Freeman), cambia la donna del suo cuore, qui interpretata da Katie Holmes. Il supercattivo è Liam Neeson, ruolo tutto sommato minore. Indisponente la recitazione del pur valido Tom Wilkinson improbabile come boss mafioso italo-americano. Dimenticabile la partecipazione di Rutger Hauer.

Per amanti del genere.

Amabili resti

Un po' come American Beauty, Toto le Heros o, a voler fare più i cinefili, Viale del tramonto, il protagonista muore subito e ci racconta la storia con una improbabile soggettiva. A differenza dei predecessori, a dire il vero, qui quasi tutta l'azione si svolge in seguito al fattaccio, che sarebbe poi lo stupro e l'omicidio di una ragazzina da parte di un omicida seriale. Vicenda non delle più facilmente trattabili.

Buona la regia, Peter Jackson, anche se lo spettatore più tradizionale potrebbe risentirsi per gli svariati cambiamenti di tono che possono lasciare spiazzati. Piacevole la colonna sonora firmata da Brian Eno. Molto brava la protagonista, Saoirse Ronan che nonostante la giovane età regge benissimo il ruolo impegnativo. Notevole Stanley Tucci che si è trovato ad affrontare il difficile ruolo del maniaco. Non male anche Susan Sarandon a cui è stata assegnata la parte della buffa nonna (semi)alcolizzata.

Sceneggiatura è basata sul romanzo omonimo (Lovely bones) a cui è da imputare una certa inesplicabilità di alcuni passaggi - anche sospendendo il giudizio su quella che è la descrizione del "limbo" in cui finisce la ragazzina (scopriremo a tempo debito quanto calzante).

Il finale deve aver lasciato scontento il pubblico americano, infatti il supercattivo scampa alla legge e alla vendetta, pur facendo comunque una brutta fine.

Del resto il senso della vicenda è che a vincere è proprio la ragazzina, anche se muore così giovane e in modo così tragico, perché quello che lascia, gli "amabili resti" del titolo, è l'impressione che ha lasciato su chi ha conosciuto, le relazione che ha contribuito a creare. L'assassino invece non ha lasciato nulla.

Altro tema trattato è il distacco. La ragazzina cerca di mantenere un contatto con i suoi affetti finché si rende conto che questo porta solo ad uno stallo della situazione. Lei resta nel suo limbo, i vivi finiscono per non vivere. Per quanto dolorosa sia, meglio una chiusura.

Gomorra

Quasi considerabile un documentario, sulla scia del libro di Roberto Saviano da cui la sceneggiatura è tratta e in linea con la formazione del regista, Matteo Garrone. Narra un intrico di quattro storie di camorra nel panorama desolato e desolante dell'Italia contemporanea.

Tra gli attori spicca il solito Toni Servillo, perfettamente a suo agio nei panni di un colletto bianco della camorra come in quelli di Andreotti ne Il Divo.

Colonna sonora spesso al limite dell'agghiacciante ma adeguata al contesto - sui titoli di coda un brano scritto dai Massive Attack, Herculaneum, che la riscatta ed è stata premiata con un David:
Molti i premi e le nomination un po' in tutto il mondo tra cui spicca il gran premio a Cannes, una scorpacciata di David, European Awards, tre globi d'oro italiani (e la nomination a per miglior straniero all'americano), un paio di nastri d'argento eccetera eccetera.

Io vi troverò

L'unica cosa buona del titolo italiano è che fa venire in mente per assonanza "Io ti salverò" di Hitchcock, non un capolavoro ma contenente una indimenticabile sequenza che usa fondali disegnati da Salvador Dalì (niente meno) per rendere le atmosfere di un sogno.

Molto meglio il titolo originale Taken, presa, nel senso di rapita, che rende bene il tentativo di eliminare il coinvolgimento personale che fa capolino anche nel linguaggio che viene usato in certi ambienti. Al contrario il titolo italiano mira tutto sul coinvolgimento emotivo.

Tipico film d'azione di casa Luc Besson, che lo ha prodotto e scritto assieme a Robert Mark Kamen. Diretto da Pierre Morel (sua seconda regia dopo Banlieu 13), migliorato rispetto all'esordio ma che mi pare ancora in affanno nelle scene di azione che tendono a diventare troppo confuse. Inattendibili le scene dove si spara. Non è immaginabile che i "cattivi" abbiano una mira così pessima. Perlomeno bisognava ridurre la loro potenza di fuoco.

Protagonista unico è Liam Neeson, che se la cava più che egregiamente, nel ruolo di un ex agente dei servizi segreti prepensionatosi (probabilmente) in seguito allo sfacelo della sua vita privata. La moglie lo ha mollato per rifarsi la vita con la figlia e un miliardario californiano.

Disoccupato, divorziato, al limite del paranoico, non fa una bella vita. Fatto sta che la figlia va a fare un grand tour in Europa ma, subito alla prima tappa (Parigi), viene rapita da una banda di albanesi dediti alla trasformazione di giovani turiste in prostitute da strada e tratta delle bianche, quando capita. Dunque l'addestramento di una vita torna utile, Neeson piomba a Parigi e fa tutti gli sfracelli che ci si può attendere.

Dicevo che il titolo originale è una buona chiave di lettura del film. Il fatto che Neeson dica alla moglie che la figlia sia stata "presa" e non "rapita" non è casuale (non sarebbe diventato il titolo) indica che anche lui, come ha capito cosa stava accadendo, si è messo a trattare persino la propria figlia oggettivamente, non come un essere umano. Lo stesso modo disumanizzato di parlare (e agire) viene usato da altri personaggi, ad esempio il tale che organizza un'asta di donne che vengono vendute al miglior offerente cita Il padrino sostenendo che si trattava solo di affari, niente di personale.

Tutti gli uomini del re

Storia di tradimenti. Praticamente tutti i personaggi tradiscono qualcosa o qualcuno, solitamente qualcosa e qualcuno. Tratta da un romanzo molto noto negli USA (stesso titolo, in originale "All the King's men") e che è già stato portato sullo schermo nel 1949, con più successo di quanto sia avvenuto questa volta.

Nella versione del 1949 lo sceneggiatore ha puntato sulla storia principale, quella di Willie Stark (inspirata da un personaggio reale, tal Huey P. Long, che è stato governatore della Louisiana e senatore americano) mentre in questa occasione Steven Zaillian, sua la sceneggiatura e la regia, ha cercato di dare maggior spazio ai numerosi personaggi, ognuno dei quali con una storia interessante, a dire il vero, ma finendo per rendere troppo pesante la vicenda.

C'è da dire inoltre che se Zaillian ha un notevole curriculum come sceneggiatore (Gangs of New York, The Interpreter, tanto per fare un paio di titoli) non è altrettanto brillante come regista. In alcuni punti l'ho trovato addirittura fastidioso.

Notevole il cast, a partire da Sean Penn che interpreta il protagonista - il suo sbracciarsi nel parlare può sembrare strano ma, come si vede nella copiosa documentazione allegata al DVD, riflette il modo di porsi del politico che ha fatto da modello al personaggio. Jude Law è il personaggio che ci guida nella vicenda, un giornalista che finisce per lavorare per Stark; Anthony Hopkins un giudice in pensione che si oppone a Stark; Kate Winslet la donna di cui il giornalista è innamorato; James Gandolfini un politicante vicino a Stark ma inaffidabile.

Sean Penn è un piccolo politico, che nel dopoguerra diventa inaspettatamente governatore della Louisiana. Inizialmente vuole ottenere cose che a un europeo sembrano normali (scuole e ospedali pubblici, ad esempio) ma che ad un americano suonano strane, poi entra nel vortice politica politicante e finisce per usare il suo potere come fine in sé. Già che c'è tradisce pure la moglie a più non posso. Da cosa segue cosa e alla fine Stark fa una brutta fine.

In parallelo si svolge la storia di Jude Law, giornalista che si fa affascinare dalla figura del politico, anche se non sa bene cosa sia che trova così interessante. Nel lavorare per lui finisce per tradire la fiducia di Anthony Hopkins, che conosceva sin da bambino e del quale aveva il più gran rispetto. Inoltre scopre che Kate Winslet, di cui è innamorato praticamente da sempre, è diventata l'amante del politico. Ma c'è anche la storia del fratello di lei, e amico di lui, che finisce per impelagarsi in una brutta situazione.

Come dicevo, una storia troppo complicata. Un buon regista avrebbe forse tagliato con più decisione la sceneggiatura scegliendo la sua visione della storia e trascurando almeno alcune delle vicende laterali.

Interessante l'edizione su DVD con molto materiale fornito come bonus, tra cui anche qualche scena tagliata.

Una mente perversa

Il titolo originale "A twist of faith" avrebbe potuto essere tradotto meglio Una conversione, il che avrebbe almeno aiutato a tenere vivo l'interesse per scoprire chi si converte (scherzo, si capisce subito anche questo).

Film di qualità televisiva, con protagonisti più noti per i telefilm che per i film in cui sono apparsi: Michael Ironside (Total recall) e Andrew McCarthy (Weekend col morto).

Un serial killer ammazza gente collegata ad una piccola chiesa cattolica in Canada, a partire dal prete titolare, lasciando una serie di riferimenti biblici in pasto agli investigatori. I poliziotti indagano ma non capiscono un tubo, e l'assassino si fa beffe di loro (in particolar modo di McCarthy, che ha problemi già per conto suo).

Ritmi fiacchi, colpo di scena finale che potrebbe prendere di sorpresa solo lo spettatore più disattento. L'apparizione per pochi secondi di una Ferrari (ferma) forse il momento migliore del film.

Un'ottima annata

Simpatica commedia sentimentale con soggetto inglese, ambientazione francese (provenzale), impostazione americana. Buona l'idea ma mi pare che nello sviluppo si perda qualcosa.

Diretta e prodotta da Ridley Scott con protagonista un Russell Crowe che non se la cava male, ma m'è sembrato fuori parte. Ci avrei visto meglio Hugh Grant e, in certe scene, mi sembra quasi che Crowe lo abbia preso a modello.

Parti minori per Albert Finney, credibile, e Marion Cotillard, una francese che ha fatto fortuna in America.

In due parole: Crowe è uno squalo londinese alla Gekko (Wall Street) che da bimbo passava le estati in Provenza, da zio Finney. Lo zio muore e lui eredita. Va a firmare e pensa di vendere tutto per tornare alla sua vita metropolitana. Ma l'impatto con la vita di campagna gli fa cambiare idea.

Una scena divertente: appena arrivato alla vigna, ripete il gesto del gladiatore, raccoglie una manciata di terra e l'annusa. Solo che è terra ben concimata (tutto molto naturale, orgine avicola).

Simpatiche le citazioni del cinema francese (il cane del vignaiolo si chiama Tati, e si vede qualche scena da Le vacanze del Monsieur Hulot).

La cena per farli conoscere

In linea con la produzione di Antonio & Pupi Avati, che continua a sfornare un film all'anno (o anche meno) da tre decenni. Artigianato di buona qualità con ritmi industriali. Pupi si occupa del lato creativo, Antonio della logistica. Interessante a questo proposito l'intervista ai due fratelli inclusa nel DVD dove parlano del film alternandosi nelle risposte. Da notare che anche Antonio partecipa al lato creativo, fornendo spunti che poi Pupi realizza. Ci fossero più soldi, e i tempi non fossero così stretti, i risultati sarebbero anche migliori.

Pupi Avati dice che il sottotitolo, "commedia sentimentale", è da intendersi in senso autoironico ma è comunque un suggerimento da cogliere per quel che riguarda l'andamento del film, dove toni da commedia, a volte spiccatamente comici, si alternano a toni più da melodramma.

Un buon cast, a partire da Diego Abatantuono, protagonista e unico ruolo maschile significativo - un attore di livello medio-basso a fine carriera, contornato da tre belle figlie, Inés Sastre, Violante Placido e Vanessa Incontrada, avute da tre madri diverse e trascurate a favore del cinema e di una vita dissoluta. Una particina per Francesca Neri, in un ruolo completamente fuori dai suoi schemi.

La cena dovrebbe servire per far conoscere Abatantuono e la Neri, invece ha l'inaspettato risultato di far conoscere le figlie al padre e, grazie all'intervento della Neri, di fargli capire come sia ora di crescere. Lo farà, e forse vivrà meglio quel (poco) che gli resta da vivere.

Il mondo cinematografico/televisivo è oggetto di una satira quasi distratta, cosa che la rende quasi ancora più feroce.

Il cavaliere oscuro

Mai stato molto attratto dai supereroi in generale, e ho seguito distrattamente le vicende di Batman sia su carta sia in pellicola. Per dirne una, mi ero dimenticato di aver visto questo episodio e ho avuto come una sensazione di dejavu per lungo tempo, prima di rendermi conto che non era una impressione ma una vera e propria seconda visione.

Complessivamente un buon prodotto ma penso sia più adatto a chi ha una certa attrazione per quello specifico immaginario. Io non sono riuscito ad entrarci eccessivamente in sintonia, nonostante i molti spunti interessanti.

Storia giocata su toni oscuri, come da titolo (The dark knight, tradotto letteralmente in italiano), accompagnata da una colonna sonora all'altezza e da una regia che sfrutta adeguatamente gli ingenti mezzi economici impiegati. D'altronde, essendo scritto e diretto da Christopher Nolan, non ci si può aspettare di meno.

Antagonista di Batman (Christian Bale) è Joker (Heath Ledger - indimenticabile) che usa la sua impredicibilità sia contro i "buoni" che contro i "cattivi", per non sa nemmeno lui bene che scopo. Dimostrare che tutti hanno un lato oscuro, forse. La donna di cui Bruce Wayne è innamorato (Maggie Gyllenhaal - non mi ha convinto in questo film, me la ricordo più volentieri in Donnie Darko) preferisce il capo della procura che combatte il crimine come Batman, ma a faccia aperta. Entrambi faranno una brutta fine. Piccole parti ma di un certo peso per Michael Caine (bravissimo, al solito) nel ruolo del maggiordomo di Batman e Morgan Freeman (che tira avanti la baracca di Batman/Wayne). Ruolo un po' più importante per Gary Oldman nei panni del superpoliziotto amico di Batman, non male, ma costretto in un ruolo che non gli dà lo spazio che merita. Meglio quando fa il cattivo, come in Léon.

Notato con piacere il product placement di una MV Agusta F4 (avrebbe meritato più spazio) e una Lamborghini (destinata alla distruzione).

Interessante la constatazione di Jocker, secondo cui lui è molto simile a Batman. E mi pare anche condivisibile, almeno fino ad un certo punto.

La 25a ora

Lento e lungo. Ridotto a mediometraggio forse non sarebbe male. Colonna sonora piacevole, molto variata, a sottolineare l'ambientazione newyorkese vista dal punto di vista della sua multietnicità. Sono rimasto positivamente impressionato dal fatto che Spike Lee (sua la regia) non abbia giocato la carta della contrapposizione razziale, cosa che ha fatto spesso nei suoi film precedenti e aveva finito per rendermelo insopportabile.

Uno spacciatore di medio livello (Edward Norton) è al suo ultimo giorno di libertà, pizzicato, deve consegnarsi per passare sette anni in galera, che si prospettano infernali. Rivede il suo passato, pensa al suo futuro, prende delle decisioni.

Due le scene meglio riuscite:

Quella dove il protagonista passa cinque minuti allo specchio a mandare metodicamente a fare in culo (quasi) tutta New York e augurare una fine orribile alla città, per poi concludere che in effetti è lui quello che deve andare a fare in culo, e ha tutte le ragioni per andarci.

La scena finale, dove il padre accompagna il figlio in galera, prospettandogli l'alternativa della fuga. Un lungo monologo in cui il genitore si inventa un futuro per il figlio, in modo abbastanza toccante.

La sceneggiatura è stata rimaneggiata per includere il fatto che, dalla scrittura del libro originale alla realizzazione del film, è successo l'11 settembre, ed evidentemente non era possibile girare a New York facendo finta che non fosse successo niente. Le modifiche, in realtà, sono abbastanza superficiali. Si mostra la città senza le torri, sostituite dai fasci luminosi; un amico dello spacciatore che fa il broker (Barry Pepper) ha un appartamento che dà su Ground Zero e questo ci dà modo di vedere il cantiere e di pronunciare qualche riga di copione sull'argomento.

Buoni i contenuti extra del DVD.

Resident evil: Afterlife

Torna alla regia Paul WS Anderson, che già ha diretto il primo episodio e che uno dei principali responsabili di tutta la saga cinematografica. Il che però non giova al film, che viene narrato in modo ancor meno fluido e comprensibile delle due precedenti puntate. In certi momenti mi sembrava di vedere una collezione di clip musicali, piuttosto scorrelati tra loro, oltre tutto.

Crescono in Afterlife i riferimenti a Matrix, e si continuano a citare, più o meno a pera, altri film del genere e no - l'Hitchcock che si saluta per qualche secondo qui è quello di Psycho - il che non aggiunge spessore al film, anzi forse ottiene l'effetto opposto.

La storia è fin troppo densa di avvenimenti. Bastano pochi minuti, giusto all'inizio del film, per distruggere l'intera sede principale della Umbrella a Tokio, tirandosi dietro un bel pezzo della città e, pare, tutti i cloni di Alice (Milla Yovovich) che avevamo visto per un attimo alla fine di Extinction. Poi seguiamo Alice che vola in Alaska dove scopre che l'Arcadia che pensavano fosse lì, non c'è. In compenso trova Claire (Ali Larter). Volano a Los Angeles, tirano dentro nell'azione nuovi personaggi, tra cui il fratello di Claire (Wentworth Miller) e tutti assieme vanno ad eliminare il supercattivo dell'Umbrella. Sorpresa dell'ultimo momento: ci viene fatta una sneaky preview del prossimo episodio: Jill Valentine (Sienna Guillory) di cui non s'è fatta nemmeno menzione in Extinction, e già la davo per estinta, è viva, seppur controllata con artifici malefici dall'Umbrella, evidentemente cattivissima, e pronta ad animare almeno i primi minuti di RE 5.

Resident evil: Extinction

Logico sviluppo dell'episodio precedente della saga, Apocalypse e, come tale, sempre consigliabile solo per fan del videogioco omonimo e/o di Milla Jovovich, che viene clonata ed eliminata svariate volte nel corso dello sviluppo degli eventi.

Una certa atomosfera da Mad Max che si cominciava a percepire nell'episodio precedente qui diventa ben più palpabile, anche grazie alla ambientazione post-catastrofe planetaria che avvolge il film. Si aggiungono, inoltre, i nuovi poteri di Alice (di cui abbiamo avuto un accenno nel finale dell'episodio precedente) fanno pensare agli X-Men. Del resto sono molte e svariate le citazione ad altri film che però mi paiono spesso poco pertinenti, e che hanno il solo risultato di scompigliare ancor di più le carte, come ad esempio il riferiment agli Uccelli di Hitchcock.

Oltre alla gran parte della vita su pianeta, vengono anche eliminati alcuni personaggi che erano sopravvissuti alla serie precedente, si salva la Guilloroy che non ha fatto parte del cast, sostituita da altri personaggi femminili a cui però è data una rilevanza inferiore, tra cui spicca il ruolo interpretato da Ali Larter.

Se il passaggio dal primo al secondo episodio era relativamente curato, si salta dal secondo al terzo a piedi pari, lasciando alcuni anni di iato che vengono raccontati in poche battute, lasciando intendere, piuttosto che spiegare, quello che è successo.

Resident evil: Apocalypse

Facile dare un parere sul secondo episodio della saga di Resident Evil - solo per fan del genere. Più difficile spiegare quale sia il genere, qualcosa del tipo: film tratto da videogioco a tema orrorifico (con zombie) / fantascientifico.

Il titolo sarebbe dovuto essere Nemesis ma sono stati bruciati dall'episodio di Star Trek uscito due anni prima di loro.

Notevole la dotazione del DVD, mi sono divertito di più a guardare il making of che il film. Ci sono anche una serie di commenti al film ma proprio non me la sono sentita di vedermi RE2 più di una volta.

Motivo che ha spinto la produzione a fare RE2 è che RE1 ha fatto incassi notevoli pur essendo costato (relativamente) poco. Per farlo hanno deciso di spendere molto, pensando che questo ne facesse un film migliore. In realtà è venuto fuori un film più noioso.

Evidentemente non ci si può aspettare molto dalla storia, e quindi stendo un pietoso velo. Non male la coppia delle protagoniste Milla Jovovich e Sienna Guillory.

Reign over me

Film scritto diretto e interpretato (in un ruolo minore) da Mike Binder. La storia è quella di un tale (Adam Sandler) che ha perso moglie e figlie l'11 settembre e, a seguire, il ben della ragione. Si parte da alcuni anni più tardi quando un suo vecchio amico (Don Cheadle), dentista con un buon reddito ma con svariati problemi, lo incontra e si mette in testa di recuperarlo alla "normalità".

A complicare il tutto intervengono una paziente (Saffron Burrows) che vuole circuire il dentista, i suoceri del ammattito, che lo vorrebbero più presentabile, una amica psicologa del dentista (Liv Tyler) che gentilmente si rifiuta di fare analisi da strada (letteralmente) allo stesso.

Sembra una trama da film comico, ma in realtà lo sviluppo è più sul lato drammatico. La storia non è male, ma avrebbe meritato una riscrittura. Non è chiaro, ad esempio, il ruolo della Tyler, piccolo ma determinante nell'alchimia della scena. E nemmeno quello della Burrows che, seguendo un percorso imprecisato, passa dal goffo tentativo di sedurre il suo dentista ad una cotta per il suo amico disadattato.

Piccola parte molto ben recitata per Donald Sutherland.

Belle le riprese di New York con la camera che spesso insegue Sandler nel suo vagabondare per la città su di una buffa motoretta.

Buoni i contenuti extra del dvd.

Il buio oltre la siepe

La storia è modellata sull'infanzia di Harper Lee, che aveva scritto un romanzo semiautobiografico, adattato subito dopo per lo schermo. Il tema dell'infanzia, dei rapporti con il mondo degli adulti, dell'importanza del modello comportamentale degli adulti, si mescola a quello del razzismo, allora imperante negli USA, soprattutto in un piccolo paesino del sud, e anche quello del rapporto con la malattia mentale.

Un filmone non semplice, dunque, che si direbbe più adatto ad un pubblico europeo che americano. Eppure risulta uno dei più amati oltreoceano, soprattutto se si parla di gente che abbia già una certa età. Merito certamente della storia originale e della convincente interpretazione di Gregory Peck, nel ruolo del protagonista, Atticus, un avvocato molto alla mano a cui, a quanto dice una vicina, è toccato in sorte il destino di fare un lavoro che è necessario ma nessuno vuol fare.

I tempi sono un troppo lenti, al metro corrente, ma ciò è giustificato sia dall'età della pellicola, mezzo secolo, sia dall'ambientazione, il placido e sonnacchioso midwest.

Il titolo italiano è stato scelto, come spesso accadeva soprattutto in passato e, ahimè, anche ai nostri giorni, a pera. L'originale To kill a mockingbird (uccidere un tordo) è una delle principali chiavi interpretative del film, mentre Il buio oltre la siepe allude a una cupezza e a una chiusura che non ha un gran riflesso sull'opera.

Da notare la presenza di Robert Duvall, al suo primo ruolo significativo sul grande schermo (a dire il vero appare per pochi minuti, e ha il ruolo del demente - che però è quello che permette il lieto fine) e il fatto che, essendo basata sull'infanzia dell'autrice, uno dei caratteri è basato su un noto amico della Lee, Truman Capote. La cosa viene accennata anche in Infamous.

Parnassus

Incogruamente sottotitolato nella versione italiana L'uomo che voleva ingannare il diavolo, mentre il titolo originale sta più sul tema (The Imaginarium of Doctor Parnassus - L'immaginario del dottor Parnaso). In realtà è il diavolo che per tutto il film si fa beffe del povero Parnassus.

Tipico film di Terry Gilliam, che lo ha scritto e diretto, e che quindi potrebbe non essere apprezzato da chi si fa prendere in contropiede dal suo immaginario che è, beh, molto immaginifico.

Il dottor Parnassus (Christopher Plummer - visto a fumetti in Up) ha un migliaio d'anni, da quando il diavolo (Tom Waits a suo agio nella parte) ha finto di perdere una scommessa che gli ha dato l'immortalità (che, come ha potuto scoprire, è una gran lagna). Manca poco al sedicesimo compleanno della figlia di Parnassus che, in quella data, gli dovrà essere consegnata (per un'altra scommessa). I fatti si complicano perché Anton, che lavora con la famigliola Parnassus in un braraccone che offre un viaggio nell'immaginario del dottore, è innamorato della giovinetta, inoltre incappano in Tony (Heath Ledger), un tale che, nonostante sia stato impiccato sotto il ponte dei frati neri, riesce a sopravvivere grazie ad un trucchetto.

La storia sembra già abbastanza complicata così, eppure siamo solo all'inizio. Inoltre è successa pure una catastrofe nel mondo reale, con la morte di Heath Ledger nel corso delle riprese. Per completare il film si è deciso di riscrivere parzialmente la sceneggiatura per rendere accettabile il fatto che Tony si trasformi in Johnny Depp, Jude Law e Colin Farrell.

Forse questo per qualcuno potrebbe essere fin troppo, e non ho parlato dei viaggi nell'immaginario del dottore, che sono a tutti gli effetti viaggi nell'immaginario di Gilliam.

Tutta la vita davanti

Commedia molto godibile, ma dal retrogusto amaro, come è nello stile di Paolo Virzì che l'ha scritta e diretta. Buona la colonna sonora, che accompagna a dovere l'azione.

Protagonista è Isabella Ragonese (premiata con il Biraghi a Venezia - assieme a Luca Argentero, Valentina Lodovini e Andrea Miglio Risi - per questo suo primo ruolo importante; già vista in una particina nel Nuovomondo di Crialese) affiancata da un cast di lusso con Massimo Ghini e Sabrina Ferilli, momentaneamente strappati ai cinepanettoni e che mostrano di essere in grado di reggere personaggi di uno spessore superiore a quelli che purtroppo gli sono normalmente affidati di questi tempi; Valerio Mastandrea sempre bravo; Elio Germano un po' sottotono (meglio rivederlo in Mio fratello è figlio unico; Laura Morante c'è ma non si vede - in quanto voce narrante; Edoardo Gabbriellini in un ruolo minimo.

Oltre alla Ragonese, per questo film sono stati premiati Virzì e la Ferilli (entrambi sia Globo d'oro che Nastro d'argento), molte le candidature che non si sono concretizzate, anche perché è stato un buon anno per la cinematografia italiana, e i David sono stati monopolizzati da Gomorra e Il divo, che hanno lasciato poco spazio per tutti gli altri film.

La Ragonese è una palermitana trapiantata a Roma per ragioni di studio, si laurea 110 e lode in filosofia per scoprire che non c'è nessun lavoro che la attende. Del resto nemmeno il fidanzato, che ha una laurea teoreticamente più facile da spendere sul mercato del lavoro, ha trovato un lavoro decente, e se ne vola negli USA in cerca di maggior fortuna. Lei finisce a lavorare in un call-center che ha lo scopo di tirar fregature alla casalinghe, a cui viene venduto ad un prezzo spropositato un apparecchio praticamente inutile. Ma dato che i soldi del diavolo van tutti in crusca, a guadagnarci non sono le centraliniste, non sono i venditori, e neanche il management dell'azienda (Ferilli caposala e Ghini proprietario) che semplicemente sperperano tutto in idiozie fino al finale tragicomico.

Notazione linguistica: brava la Ragonese a usare la sua cadenza palermitana solo quando va a trovare la madre (Mary Cipolla - brava, particina) per utilizzare invece un italiano più standard quando è a Roma - da contrapporre a Gabbriellini che non si riesce proprio a staccare da una pronuncia marcatamente toscana, neanche a cercare di strappargliela con le tenaglie (vedasi Io sono l'amore).

Dalla storia escono male quasi tutti. Il mondo universitario è rappresentato da una tavolata di vecchi barbogi (d'altronde s'è mai visto un giovane barbogio?) e dall'assoluto disinteresse per i giovani che vengono formati. Il fidanzato non ci pensa due volte a mollare la protagonista per seguire la sua carriera, dicendole solo all'ultimo momento dell'offerta che ha ottenuto. I compagni di corso si trovano lavori approfittando delle parentele (e chi non ha il parente piazzato al posto giusto si attacchi). Il mondo culturale e i sindacati mostrano un interesse distratto, di facciata, ai problemi del mondo reale. Il call center è una sorta di universo parallelo, in cui tutto sembra andare bene (anche se ogni tanto qualcuno scompare nel nulla, se non riesce a portare a casa i risultati attesi) finché i nodi non vengono al pettine e questo paradiso di plastica scoppia come una bolla di sapone.

Nonostante questa catastrofe, che fa male anche solo a pensarlo ma è molto realistica, il finale lascia almeno una speranza, con una tavolata con quattro donne che forse riusciranno a vivere una vita migliore (come non pensare a Speriamo che sia femmina di Monicelli?). La bambina che, richiesta cosa vuol fare da grande, risponde "la filosofa" strappa un ultimo sorriso.

Banlieu 13

Primo film diretto da Pierre Morel, più noto per la fotografia, cha ha curato, tra l'altro, in Danny the dog e The transporter. In anni più recenti ha diretto Io vi troverò e From Paris with love. I titoli citati dovrebbero rendere chiaro che si tratta di persona usa a lavorare con Luc Besson, e infatti sulla copertina del DVD si fa direttamente il nome di Besson, che ha scritto la sceneggiatura, e non quello di Morel.

Regia non memorabile, in effetti. Storia molto americana, come tradizione di Besson, ritmi molto tesi, accompagnati da una colonna sonora appropriata.

Notevoli le scene di parkour (quella disciplina in cui si corre in ambiente urbano, saltando come molle), non per niente un protagonista è proprio David Belle, tra gli inventori del genere. Considerando che l'altro protagonista è Cyril Raffaelli, più noto come stuntman che come attore, ci possiamo immaginare bene come si svilupperà l'azione.

Ambientato nel futuro prossimo (al tempo della produzione, si specifica come data un 2010 che per fortuna non è come viene dipinto), una strana coppia, sbirro e galeotto, che devono compiere una missione apparentemente impossibile: recuperare una sorta di bomba atomica prima che esploda. In mezzo c'è un supercattivo che tiene pure in stato di schiavitù la sorella del galeotto.

C'è un substrato socio-politico appena accennato alla vicenda, infatti si suppone che le banlieu parigine siano diventate una sorta di enclave in cui il potere statale abbia abdicato il controllo, e ci si interroga se questo sia giusto. Ma bisogna fare molta attenzione per accorgersene.

Il labirinto del fauno

Guillermo del Toro lo conoscevo come regista di Mimic, un film, ad essere gentili, scarsotto - dove certi insettazzi, a causa dell'intervento dei soliti scienziati disattenti, finiscono per diventare predatori degli umani, film che ha il suo più grosso punto di interesse nella presenza di Mira Sorvino (meglio nota per La dea dell'amore di Woody Allen) nel ruolo principale e di Giancarlo Giannini che fa quello che schiatta subito perdipiù in modo orribile.

Dati i precedenti, non ero molto ben disposto nei suoi confronti. Ma Il labirinto del fauno è davvero tutt'altra storia. A dire il vero sono due storie, meglio una storia narrata da due punti di vista opposti. Una bambina vive una esperienza tragica, ai tempi del finire della guerra civile spagnola. Si rifugia in un mondo di favole in cui avrà un lieto fine a sorpresa, dopo averne passate di tutti i colori, come ben si addice al genere. Nel mondo reale le cose, ohimé, vanno a finire meno bene.

L'immaginario mostrato nella parte fantastica è decisamente sorprendente e affascinante. Ottima regia, complessivamente buona recitazione, una colonna sonora davvero bella.

Se ho capito bene, dovrebbe essere il film in spagnolo che ha incassato di più in assoluto; di sicuro ha preso una montagna di premi, tra cui tre oscar e, naturalmente, innumerevoli goya.

Curioso che in italiano si sia rispettato il titolo originale spagnolo, El laberinto del fauno, mentre in francese, inglese e tedesco il fauno sia diventato Pan, chissà perché.

Il mattatore

Sceneggiatura evidentemente scritta (anche da Ettore Scola) in funzione di Vittorio Gassman, che già aveva interpretato capolavori come I soliti ignoti e La grande guerra, per la regia di Dino Risi che, dopo aver diretto un capolavoro (lo so che mi sto ripetendo, ma non è colpa mia se in quei tempi felici il cinema italiano sfornava un capolavoro dietro l'altro) come Pane, amore e ... era incappato nella serie dei Poveri ma belli. I due si incontreranno poi per darci film come Il sorpasso, La marcia su Roma, I mostri ... fino a Tolgo il disturbo nel 1990.

Questo è un pelino sotto i lavori migliori della coppia, ma resta una commedia all'italiana estremamente godibile, grazie anche al buon cast che affianca il protegonista indiscusso: Dorian Gray nei panni di una truffatrice figlia d'arte (e meno male che non ha preso dalla madre, ci tiene a specificare); Annamaria Ferrero una ballerina che cerca di portare il mattatore sulla retta via; Peppino De Filippo truffatore con famiglia numerosa a carico, inclusa madre di età indefinibile, cieca e sorda; Mario Carotenuto truffatore di lungo corso; Alberto Bonucci truffatore specializzato nella simulazione di preti (nome d'arte Gloria Patri) eccetera eccetera.

La storia, a dire il vero, è poco più di un pretesto per dare modo a Gassman di fare sfoggio delle sue capacità camaleontiche di attore, ma già questo basterebbe a rendere il film interessante. Gerardo vorrebbe fare l'attore, ma i risultati sono miserevoli. Un amico lo coinvolge in una truffa, in cui dovrebbe fare una particina secondaria ma che scopre poi essere quella del capro espiatorio. Beccato, si fa qualche mese di galera. La prigione gli dà modo di recitare il Giulio Cesare di Shakespeare ai galeotti (contando sul fatto che non possono andarsene) e di conoscere gente del ramo. Uscito, inizia a praticare quel modo diverso di recitare. Segue un elenco di truffe, finché non si trova, praticamente a sua insaputa, sposato. Ma non dura molto, tra matrimonio e vita truffaldina finisce per scegliere la seconda. E il film finisce mentre cerca di far sparire i gioielli della corona inglese.

Sherlock Holmes

Guy Ritchie sembra essersi ripreso dallo shock Madonna ed è tornato a fare il suo mestiere di regista mettendoci un certo impegno.

Mi pare di aver capito che film in questione ha ottenuto commenti negativi da chi si aspettava una interpretazione più aderente al personaggio originale, come creato da Conan Doyle un secolo fa. Pretesa evidentemente peregrina, anche se c'è da dire che la muscolarità dall'azione è sembrata a tratti eccessiva pure a me. Meno effetti speciali avrebbero giovato al film.

Altre critiche sono rivolte al fatto che la storia è un po' balenga ma, a dire il vero, in quanto al rimescolio di temi diversi, oscillanti tra il romance e lo spiritismo, mi è sembrata adeguatamente in linea con le storie originali che, per l'appunto, non si facevano problemi di mescolare tutto il mescolabile.

Piacevole la regia, con alcune trovate che non sono fini a sé stesse e caratterizzano il film. I due protagonisti Robert Downey Jr. (Holmes) e Jude Law (Watson) sono in parte e si bilanciano bene.

Un po' troppo lunghetto. La parte centrale avrebbe potuto, a mio parere, essere alleggerita.

Se non ci si aspetta una edizione critica dell'opera originale, e si ha in mente chi è Ritchie, Downey (Iron Man) e Law, si dovrebbe restare soddisfatti dallo spettacolo.

Mio fratello è figlio unico

Storia di un fratello minore (Elio Germano) che ha la sventura di avere come fratello maggiore un personaggio che può essere interpretato con verosimiglianza da Riccardo Scamarcio.

Come se non bastasse, la madre (Angela Finocchiaro) preferisce il maggiore, rendendolo ancora più insicuro. Il padre (Massimo Popolizio) è tutto sommato assente.

Cerca allora un appoggio nella fede, andando in seminario ma restando deluso da una religione non totalizzante come vorrebbe lui (Ascanio Celestini ha una particina come prete). Esce, vorrebbe andare al liceo ma, oltre al fratello maggiore che già ci va, anche la sorella (Alba Rohrwacher, particina minuscola) fa una scuola senza sbocchi lavorativi, "tanto poi lei si sposa e trova qualcuno che la mantiene".

Conosce un fascistone (Luca Zingaretti) che lo introduce al mito di Mussolini. L'amico fascista finisce in galera e lui diventa l'amante della di lui moglie (Anna Bonaiuto) e si prende una cotta per la fidanzata del fratello (Diane Fleri).

Molla i neri e si avvicina ai rossi, ma non trova nemmeno lì solidità che vorrebbe. L'amico cornificato fascista esce di galera e, mentre lo mena, si fa venire un infarto che lo lascia secco.

Lui si spaventa e passa in latitanza - anche se nessuno lo cerca. Resta a galleggiare nel nulla, finché, in un modo drammatico, l'ingombrante fratello scompare di scena e lui può finalmente cominciare a vivere una vita realmente sua.

Ottimo film, solida sceneggiatura, basata su Il fasciocomunista di Pennacchi ma da cui si distingue con decisione in molti punti, scritta (anche) da Daniele Luchetti che ha curato anche la regia. Ottima anche la prova del cast. Molti i premi e, in generale, buona accoglienza da parte di critica e pubblico.

David a Elio Germano (e nomination agli European Award), molto bravo nel rendere un personaggio complesso; altri David al montaggio, alla sceneggiatura, al suono e all'ottima Anna Finocchiaro.

Deacons for defense

Per la versione italiana gli hanno appiccicato anche un sottotitolo: lotta per la libertà.

Si tratta di un film per la televisione che ha il suo punto forte nella presenza di Forest Whitaker come protagonista.

Si tratta, ahimé, di una storia "vera", come si intendono al cinema, ovvero basata su un contesto storico abbastanza realistico sul quale viene ambientata una vicenda di fantasia.

I "Deacons for defense" (decani per la difesa) sono effettivamente esistiti, e si trattava di una organizzazione armata che si contrapponeva al Ku Klux Klan ai tempi dei duri scontri razziali negli anni '60.

La vicenda effettivamente narrata si prende alcune libertà, facendo finta che il personaggio intepretato da Whitaker abbia inventato i Deacons in seguito ad una presa di coscienza nei confronti della questione razziale, dopo aver passato tutta la vita a fare il "buon negro". Si parte da una situazione di segregazione, si segue la lotta nel paesino di Bogalusa (dove davvero i Deacons furono attivi) che porterà alla sconfitta del KKK locale.

Regia di Bill Duke, esperto regista di serie televisive, non particolarmente entusiasmante. Bianco e nero che diventa colore per far pensare al passaggio da materiare di archivio a fiction; rallenty a sottolineare - in genere non ho capito perché - alcune scene.

Un qualche interesse dal punto di vista storico ma, tutto sommato, non una delle pellicole più interessanti che ho visto. E il DVD è pure molto spartano.

Il papà di Giovanna

Melodramma dai toni sfumati scritto e diretto da Pupi Avati. Non un capolavoro, ma con aspetti interessanti. Storia ambientata attorno alla seconda guerra mondiale, come spesso accade nelle storie di Avati. Un padre (Silvio Orlando) si dedica ossessivamente a Giovanna (Alba Rohrwacher), figlia - brutto anatroccolo, trascurando la moglie (Francesca Neri), che del resto sembra non essersi mai veramente innamorata di suo marito ed è invece vagamente attratta, ricambiata, dall'amico di famiglia (Ezio Greggio).

Lo sfasamento tra le aspettative paterne e la realtà dei fatti, portano Giovanna a sbarellare. Il padre capisce di aver compiuto un grave errore e dedica il resto della sua vita a cercare di rimediare.

Buona la prova degli attori, anche se mi pare che la regia sia stata incostante. Scene ben girate si alternano ad altre tirate un po' via.

Silvio Orlando ha ottenuto la coppa Volpi, tutto sommato meritatamente, David a Alba Rohrwacher, molto brava a rendere un personaggio decisamente difficile, nastro d'argento a Francesca Neri, che ha alcuni bei momenti. Meno convincente mi pare il nastro d'argento a Ezio Greggio. Altri premi e nomination hanno rallegrato il cast.

La colonna sonora segue bene lo svolgimento dell'azione.

Nel DVD c'è un making of e alcune scene tagliate.

Bobby

Film relativamente a basso costo - dati gli standard americani e il cast coinvolto - che vale la pena di vedere anche solo per l'approccio molto particolare con cui affronta l'argomento.

Si parla di Robert Francis Kennedy, noto semplicemente come Bobby, e del suo ultimo giorno di vita. Lo si fa, però, praticamente senza quasi mai mostrarlo direttamente, se non in filmati di repertorio. La trama segue infatti gli avvenimenti di quel giorno dal punto di vista di un gruppo di persone che, per un motivo o per l'altro, gli saranno vicini nel momento fatale.

Grazie al cielo si tratta di storie inventate, gli agganci con la realtà sono minimi. Lo scopo non è quello di documentare cosa è davvero successo quel giorno, ma darci una sensazione dei fatti. Si tratta di un film sulle emozioni, dunque.

Le varie storie che si intersecano (alla Robert Altman) servono per farci entrare nella storia, starà poi a noi reagire emotivamente al finale. Il fatto che le storie che abbiamo seguito per un paio d'ore sono solo strumentali alla scena principale, è confermato dal fatto che dopo l'attentato, in pratica, si passa ai titoli di coda. Il film non ha più niente da aggiungere, sta alla nostra sensibilità elaborare la situazione e tirare le conseguenze.

Emilio Estevez, che ha scritto e diretto il film, dice che si tratta dell'opera dalla sua vita. E in effetti un opera del genere giunge inaspettata nel suo curriculum. Personalmente lo conoscevo per Il giallo del bidone giallo - una simpatica commediola senza molte pretese del 1990 - e per poco altro. E' figlio di Martin Sheen (presente in Bobby) e dunque fratello di Charlie Sheen.

Stupefacente il cast che è riuscito a raccogliere. Difficile riuscire a credere che in un film solo si trovino, oltre a Sheen senior, personaggi come Harry Belafonte, Anthony Hopkins (che è stato anche produttore esecutivo), William H. Macy, Elijah Wood, Sharon Stone, Demi Moore e Laurence Fishburne.

A nessuno di loro è dato lo spazio che meriterebbero, naturalmente vien da dire, dato che il vero protagonista è Bobby, che brilla per la sua assenza.

Buona la colonna sonora, in cui è inclusa anche una canzone appositamente scritta da Bryan Adams e interpretata in modo eccezionale da Aretha Franklin, "Never Gonna Break My Faith".

Buono il Making of del film compreso nel DVD.

Il maledetto United

The Damned United, un film dannatamente inglese, buono, ma che avrebbe potuto essere anche molto meglio. L'idea del film era nata a Stephen Frears leggendo il libro omonimo di David Peace (edito in Italia dal Saggiatore), una biografia di Brian Clough, allenatore di calcio molto noto in Gran Bretagna, centrata sui 44 giorni in cui è stato allenatore del Leeds United, il maledetto del titolo.

Il problema del film è che Frears s'è allontanato dal progetto prima che si cominciasse a girare, causando la non semplice ricerca di un sostituto dell'ultima ora. Non è facile sostituire Frears in assoluto, figuriamoci in queste condizioni. La scelta è caduta su Tom Hooper, regista fino a quel momento prettamente televisivo. E' appena uscito un suo altro lavoro su grande schermo, The King's speech, che, dal poco che ho visto, sembra decisamente interessante. In questo caso, l'incolpevole Hooper si è trovato a saltare su di un treno in corsa di cui sapeva ben poco. Ha fatto del suo meglio, ma c'è qualcosa che manca, che lascia insoddisfatti. Verrebbe voglia di smontare tutto e rifarlo da capo. Il problema è che si tratta di una vaga inquietudine difficilmente definibile, deve essere più o meno la sensazione che ha spinto Frears a mollare la regia. La storia c'è, ed è anche interessante, ma non tutte le tessere del mosaico vanno al loro posto.

La sceneggiatura è di Peter Morgan, coinvolto nel progetto da Frears, con il quale aveva fatto l'ottimo lavoro di The Queen (La regina), e che sta vivendo un'ottima stagione sia come scrittore teatrale che di sceneggiature cinematografiche. Ha messo insieme le due attività nel caso di Frost/Nixon. Ha anche scritto la sceneggiatura de L'ultimo re di Scozia, lavoro non eccezionale ma molto noto.

Il protagonista, l'allenatore Clough, è interpretato da Michael Sheen, che è stato un convincente Blair in The Queen e Frost in Frost/Nixon.

Un team affiatato, dunque. Un vero peccato che Frears non sia riuscito a sbrogliare la matassa.

Il nocciolo della storia è che Clough è un allenatore capace, ambizioso, che tende ad avere uscite estemporanee. E che odia il Leeds United e il loro modo di giocare. Colmo dei colmi, gli viene offerta proprio la panchina di quella squadra, dato che il suo arcirivale, Don Revie (interpretato da Colm Meaney) viene chiamato ad allenare la nazionale.

Il suo collaboratore Peter Taylor (Timothy Spall, noto caratterista inglese, Wormtail in Harry Potter) cerca di dissuaderlo dall'accettare, ma senza successo - i due litigano e prendono direzioni opposte.

Come si può intuire, c'è molta carne al fuoco: il mondo calcistico inglese, e quello del calcio in generale; la difficoltà di fare la scelta "giusta", e come fare a dire che una scelta è giusta o no; il valore dell'amicizia, eccetera eccetera.

Credo che sia il problema che si incontra quando si vuole fare un film partendo dalla realtà. La vita reale è molto complessa, un film non lo può essere più di tanto, perché deve dare qualcosa di soddisfacente al pubblico in poco tempo. Risuscire a trovare il bilanciamento corretto non è semplice, alla coppia Frears - Morgan questo è riuscito ottimamente in The Queen. Qui il risultato, pur sempre di buon livello, è un gradino sotto.

Ballistic: Ecks vs. Sever

Film di azione, con evidenti rimandi ai fumetti del genere, per la dimensionalità dei caratteri, e ai videogiochi, per l'insensatezza dell'azione (ma supportata bene dalla colonna sonora). Direi che è solo per gli amanti del genere, ma visti i risultati catastrofici al botteghino, forse neanche quelli.

Produzione da 70 milioni di dollari che se ne sono andati gran parte in spari, esplosioni, incidenti e disastri vari.

Cast non disprezzabile, Antonio Bandera e Lucy Liu protagonisti, ma evidentemente il regista, il tailandese Wych Kaosayananda, era più preso dalla gestione degli esplosivi che da quella degli attori. Beh, anche gli scontri diretti (stile wire fu) hanno la loro parte.

Direi di vedere prima Matrix e Desperado (ancora con Banderas protagonista) e passare a questo film solo se non si trova altro di meglio - per i propri gusti, si intende.

Non male i contenuti extra nel dvd.

Chiedi alla polvere

Sceneggiatura e regia non particolarmente brillante (Robert Towne, poche regie, molte sceneggiature, tra cui Chinatown e un paio di Mission Impossible) ma basata su un romanzo molto solido (Ask the dust di John Fante) che riesce a mandare dei brillii tali da salvare il film.

Da notare anche un cast molto soldo, con Colin Farrell nel ruolo di Arturo Bandini (protagonista ed alter ego di John Fante), Salma Hayek (Camilla) e Donald Sutherland in una particina secondaria.

Storia ambientata a Los Angeles negli anni '30, dove Arturo (italoamericano quando non era molto alla modo esserlo) in cerca di successo incontra invece Camilla, cameriera messicana (e quindi considerata persino un gradino più in basso di Arturo). Entrambi hanno un pessimo carattere e tensioni che li portano altrove, nonostante che si capisca da un miglio che sarebbero destinati a stare assieme.

Vivono una breve ma intensa storia da amore, con finale tragico. Nel libro, a dire il vero, finisce anche peggio.

Finalmente un DVD con qualche bonus degno di menzione, tra cui le interviste ai due protagonisti, al regista, e a un paio di comprimari.

Viene anche passato un corto, che nulla ha a che fare con Chiedi alla polvere. Si tratta di Dediche d'amore, scritto e diretto da Alessandro Merluzzi nel 2005. Una commedia lampo in cui il protagonista è alle prese con un regalo da fare alla sua amata. Molto premiato in tutto il mondo, come si può leggere su pacio.it.

Oltre il giardino

Il titolo italiano sottolinea l'evento chiave del film, quando Chance (Peter Sellers) lascia quello che è stato il suo universo per tutta la sua vita - il suo amato giardino - per affrontare il mondo. Ma dato che questo cambiamento di prospettive, che avrebbe sconvolto la maggior parte dei possibili soggetti, non ha praticamente alcun impatto su Chance, risulta più appropriato il criptico titolo inglese "Being there", Essere lì.

Ottima regia di Hal Ashby (Harold & Maude) per un film completamente diverso dalla normale produzione di Peter Sellers, si ride poco o niente, due decessi per anzianità scandiscono inizio e fine dell'azione; il protagonista ha l'età mentale di un bimbo, una acuta teledipendenza, e un certo interesse per il giardinaggio. Ma quello che lo salva è una purezza d'animo decisamente inattesa anche una trentina di anni fa. Sellers se la cava molto bene e, come si vede sui titoli di coda, il suo grosso problema nel corso delle riprese era quello di restare serio nel dire le stralunate battute del suo personaggio.

Bravi anche gli altri attori, in particolare Shirley MacLaine e Melvyn Douglas (oscar per questo ruolo, a Sellers "solo" una nomination ma s'è rifatto con un golden globe e altri premi minori).

Lord of war

Film di denuncia sul traffico d'armi, tutto sommato ben scritto e diretto da Andrew Niccol (più noto per Gattaca e per la sceneggiatura di The Truman Show).

Non sono propriamente un fan di Nicolas Cage, ma qui funziona bene. Meglio di Ethan Hawke (già con Niccol in Gattaca), che è nei panni del suo avversario e a volte mi pare poco credibile, e Jared Leto, forse giustificato da un ruolo non eccezionale (in una battuta del film Cage gli dice che beh, qualcuno deve pur prendersi quella parte).

Cage è nei panni di un ucraino trasferitosi negli USA con genitori e fratello ancora ai tempi dell'Unione Sovietica, spacciandosi per ebrei. Scoprono ben presto di essere passati da una situazione miserevole ad una paragonabile. Sono infatti a Little Odessa, ovvero Brighton Beach - Brooklyn, New York, ai tempi zona molto poco raccomandabile come racconta bene un'altro film, titolato per l'appunto Little Odessa del 1994, con protagonista un convincente Tim Roth.

Per uscire da quella situazione decide di diventare mercante di armi. Abbiamo così modo di seguire tutto il suo percorso che lo porta a diventare uno dei personaggi più importanti nel suo mondo.

Il tema non è dei più leggeri ma, nonostante gli inevitabili ammazzamenti e tragedie varie, Niccol riesce a tenere il racconto in bilico tra azione e umorismo nero.

La fiamma del peccato

Il titolo originale non è melodrammatico come quello scelto (chissà da chi) per il mercato italiano, ma molto asciutto, come del resto è il film: Double Indemnity. Doppia indennità, che sarebbe poi una clausola assicurativa che raddoppia il premio in caso di morte particolarmente improbabile.

Ottima regia di Billy Wilder, che ha curato la sceneggiatura, assieme a Raymond Chandler, basata sul romanzo breve di James M. Cain che in italiano si intitola La morte paga doppio - più noto per Il postino suona sempre due volte (utilizzato come base anche da Visconti per Ossessione). Con un tal pool di cervelli dietro non ci si può aspettare che un risultato eccellente, e infatti abbiamo a che fare con uno dei prototipi del film noir. La donna fatale (Barbara Stanwyck), l'inghippo orchestrato in combinazione con il ganzo che si crede superastuto (Fred MacMurray), le cose che sembrano andare come previsto, ma poi tutto va a ramengo, anche grazie all'intervento di chi ne sa una più del diavolo (Edward G. Robinson - il migliore dei tre, a mio parere).

Ma non ci si può aspettare da Billy Wilder la mera enunciazione di uno schema classico. Infatti lo sovverte, dicendoci sin dall'inizio che il piano è fallito, e lasciando che sia l'assassino a raccontarci in flash back tutta la vicenda. Ricorda niente? Ma certo, Il viale del tramonto, sempre di Wilder, sei anni dopo, con la vicenda raccontataci addirittura dal morto.

E non è questo il solo aspetto bizzarro della vicenda. I protagonisti sembrano guidati nella vicenda più da una pulsione autodistruttiva che da un vero interesse per quelli che sono normalmente i temi classici del genere (soldi e sesso). I due si vedono, si capiscono, e organizzano la trama che li porterà alla distruzione, ma anche quando sembra che tutto vada per il meglio, entrambi agiscono come se non fossero poi particolarmente interessati ai presunti obiettivi dichiarati.

Addirittura sembra che la vera coppia del film sia quella rappresentata da Robinson e MacMurray, con il primo che vorrebbe che il secondo seguisse le sue orme e dimostra una fiducia in lui evidentemente mal riposta. D'altra parte il secondo dimostra di nutrire per lui una profonda stima, ma di essere trascinato da chissà che verso la propria distruzione.

Play Time

Noto in italiano con il titolo tradotto Tempo di divertimento; scritto, diretto, interpretato da Jacques Tati, fu ai tempi una colossale catastrofe.

Probabilmente l'insuccesso fu causato anche dal momento storico, ma bisogna dire che soprattutto la prima parte del film non risulta progettata al meglio.

Meglio vederlo in originale, dato che i colloqui non sono poi molto importanti, ed è molto più divertente assistere alla confusione tra francese, inglese, un pizzico di tedesco e persino una spruzzata di italiano.

E' stato girato su pellicola da 70mm, e andrebbe quindi visto in un buon cinema, in modo da poterlo apprezzare appieno. La storia, come è tipico nelle avventure di Hulot, è un dettaglio marginale. Una comitiva di turisti americani arriva a Parigi, passa una giornata a visitare i sobborghi moderni, la sera in un ristorante, e il giorno dopo vanno a riprendere l'aereo. Il loro percorso si intreccia con quello di M. Hulot, che al mattino ha un appuntamento in un caotico e disumano ufficio di una multinazionale e alla sera si trova a passare dalle parti del ristorante e ne viene risucchiato dentro. C'è una sorta di simpatia tra Hulot e una turista, ma non se ne fa niente.

Il sobborgo parigino che vediamo nel film, chiamato amichevolmente Tativille, è stato costruito apposta per il film, secondo quello che Tati pensava fosse un possibile futuro globalizzato. E bisogna dire che ci è andato abbastanza vicino. In una scena ambientata in una agenzia turistica, si vedono manifesti di varie città, tutte rese ormai praticamente identiche. E come ridere amaramente al fatto che i turisti americani vadano a visitare una specie di fiera dove guardano con ammirazione prodotti che, viene detto, sono appena giunti dall'America.

La prima parte, che mostra una società "ottimizzata" ma disumanizzata risulta pesante. D'accordo che era proprio l'effetto desiderato - dirci quanto sia impossibile vivere in quel modo - ma Tati avrebbe dovuto anche mettersi nei panni del pubblico, e pretendere un po' meno. La seconda parte, invece, è più ottimista. La rigida strutturazione iniziale cade a pezzi, letteralmente, durante la serata al ristorante.

E' un film geniale, genialità che forse sconfina nella follia, e richiede molta attenzione da parte dello spettatore, anche perché spesso accadono molte cose nella stessa inquadratura ed è praticamente impossibile seguire tutto quanto.

I demoni di Sanpietroburgo

Basato su un'idea di Andrey Konchalovskiy, scritto e diretto da Giuliano Montaldo, premiato con due David e due nastri d'argento ma, mi pare, poco visto.

Buon film, anche se un poco troppo lento per i miei gusti. Basato sulla vita di Fyodor Dostoevsky, di cui viene anche rappresentato uno degli episodi più noti della sua travagliata biografia, quando venne condannato a morte, portato davanti al plotone di esecuzione e solo quando i fucili erano pronti a sparare gli è stato detto che stavano scherzando, i burloni. Era già arrivata la grazia da parte dello zar che commutava la sentenza capitale in "soli" dieci anni di lavori forzati in Siberia.

Si parla Dostoevsky e della sua esperienza intellettuale e politica, ma in un senso generale. Si racconta del rapporto tra l'intellettuali e il potere, da una parte, e la società civile dall'altra. Del rapporto tra progressismo moderato e rivoluzionario, e di come i rivoluzionari considerino i moderati (molto male). Ma anche di come spesso l'approccio rivoluzionario sia spesso slegato dalla realtà - mi pare che questo sia un tema da leggere in rapporto alla storia recente italiana.

Temi tosti, dunque, che giustificano un certo passo lento nel procedere.

Le vacanze di Monsieur Hulot

Scritto, diretto, interpretato da Jacques Tati. Ai tempi è piaciuto al punto da ottenere una nomination all'oscar per la sceneggiatura e una per il gran premio di Cannes (battuto da Vite vendute di Cluzot, mica paglia).

Le vacanze di Mr.Bean (2007) lo ricordano molto, pur nelle evidenti differenze.

La storia è molto flebile: Hulot va in vacanza al mare, con la sua improbabile vetturetta. Combina qualche disastro, crea un certo scompiglio tra i vacanzieri e i residenti, le vacanze finiscono e tutti ripartono per la città.

Il tutto è evidentemente un pretesto per dare modo a Tati di mostrarci Hulot all'opera. Potrebbe benissimo essere un film muto, data la bassa rilevanza del parlato, quello che conta è l'espressività di Hulot.

La ricerca della felicità

Non ho potuto vedere tutto il film perché il DVD (peraltro come extra è fornito solo il trailer) era rovinato. Come scusa suona debole, ricorda vagamente quella utilizzata per giustificare la mancata consegna di un compito a casa: me l'ha mangiato il cane.

In effetti avrei potuto chiedere la sostituzione del disco, ma poi mi sarei dovuto rivedere il film. Ho preferito fare a meno di qualche scena centrale.

Film d'esordio negli USA per Gabriele Muccino che ha colpito al cuore, e al portafoglio, del pubblico di oltreoceano, facendo un ottimo incasso, lasciando contenta buona parte degli spettatori, e riuscendo pure a guadagnare qualche premio e molte nomination (una all'oscar per Will Smith).

Tolta la buona prova di Will Smith, c'è poco da aggiungere. Storia abbastanza noiosa e prevedibile: a Will va tutto storto, e a ogni nuova scena è una nuova rogna che gli capita ma abbiamo come il sospetto che alla fine andrà tutto per il meglio.

Non mi è piaciuto per niente l'obiettivo del protagonista, per il quale è disposto a rischiare praticamente tutto: fare soldi. Si imbarca in una attività di vendita che gli fa perdere un mucchio di tempo e denaro, lasciando che la moglie faccia doppi turni in fabbrica per tirare a fine mese; arrivato all'orlo del tracollo finanziario, vede un broker in Ferrari, nota come tutti lì attorno siano sorridenti, e decide di candidarsi per uno stage non retribuito di sei mesi per diventare anche lui broker. Detto fra parentesi, guardarsi Wall Street di Stone potrebbe essere un buon contrappasso. La moglie, sfinita, lo molla. Lui insiste per tenersi il figlio, dicendole che certamente lei non avrebbe tempo per badare a lui - senza considerare che, non dovendo fare doppi turni per mantenerlo, forse ci sarebbe riuscita meglio di lui - e così se lo trascina in squallidi motel, quando va bene, in rifugi per senzatetto e persino a dormire in bagni pubblici (incredibilmente lindi) quando va male. Colpo di bacchetta magica, alla fine dei sei mesi prendono un solo stagista su venti, ed è proprio lui.

Prima dei titoli di coda ci confermano che il protagonista, dopo qualche hanno, si mette in proprio e fa soldi a palate. Felicità raggiunta.

Al confronto, Jersey Girl di Kevin Smith è un film di una profondità che fa venire le vertigini. Lì il padre (Ben Afflek) si trova a decidere tra un lavoro che ama, e avere il tempo per badare alla figlia, ed è proprio Will Smith nei panni di sé stesso a consigliargli di non far stupidate.

La famiglia omicidi

Pessimo il titolo italiano, forse con l'idea di alludere a Ladykillers (che a sua volta era sta tradotto erroneamente in La signora omicidi, e con il quale non ha ben poco a cui spartire), mentre il titolo inglese, Keeping mum, è un gioco di parole tra il significato idomatico di "to keep mum", fare silenzio, nel senso di tenere un segreto, e il senso letterale, tenersi la mamma.

Buon lavoro di regia da parte di Niall Johnson, che ha avuto l'indubbio vantaggio di avere a disposizione attori come Rowan Atkinson nei panni di un reverendo di paese con la testa fra le nuvole, Kristin Scott Thomas, sua moglie, stufa di essere trascurata, Maggie Smith, una pazza scatenata che entra nelle loro vite, Patrick Swayze, un giocatore di golf che vuole divertirsi con la moglie del reverendo, e una giovanissima Tamsin Egerton che dimostra di essere capace di tenere la scena in un cast che intimorirebbe i più.

Buona la storia, una tipica black comedy inglese (in effetti, da questo punto di vista il richiamo a Ladykillers funziona), in bilico tra efferatezza e comicità, con tante tazze di té a punteggiare l'azione.

Piacevole la colonna sonora, che segue l'azione con discrezione e belli e ben fotografati i paesaggi che servono a dare la giusta connotazione al racconto.

Si narra della famiglia del reverendo Goodfellow (Buonuomo, diremmo in italiano) che sta andando verso lo sfascio. Il reverendo s'è come distratto, e non si accorge che la moglie non ne può più di essere trascurata, e cerca consolazioni nell'aitante istruttore di golf americano; la figlia si "vendica" delle tensioni famigliari ruzzolando con una lunga serie di "fidanzati" che vengono rimpiazzati con una velocità impressionante; il figlio minore subisce le angherie dei bulli della sua scuola senza reagire. Fortunatamente arriva a questo punto la grazia, ovvero Grazia, una anziana signora chiamata per fare la governante. Sappiamo già che è una pazza scatenata e che una quarantina di anni prima aveva ucciso marito e la di lei amante senza che si rendesse conto che questa fosse una reazione sopra le righe. Il resto del film ci spiegherà cosa farà per la famiglia Goodfellow, come, e anche perché.

Ancora qualche parola sul cast. Rowan Atkinson, a mio parere uno dei più bravi attori comici in attività, purtroppo costretto dal successo di Mr.Bean a recitare quasi sempre lo stesso ruolo. Tra le rare occasioni che ha avuto per uscire dal suo ruolo-prigione ci sono i Quattro matrimoni e un funerale (particina, ancora un reverendo) e The tall guy (terribile titolo italiano "Due metri di allergia", anche qui parte secondaria, un crudele attor comico).
Kristin Scott Thomas (Paziente inglese, Gosford Park), qui signora Goodfellow, non deve dimostrare nulla, semplicemente recita come ci si può aspettare da lei; e lo stesso dicasi per Maggie Smith (anche lei in Gosford Park, oltre che nella saga di Herry Potter, Un té con Mussolini, ....).
Notevole l'autoironia di Patrick Swayze nel prendere il ruolo di questo film, lui che resterà noto per Dirty Dancing, Ghost e Point Break, ma c'è da dire che aveva già dimostrato di essere capace di interpretare personaggi a dir poco particolari in Donnie Darko.

Avrei preferito che venisse dato meno peso al ruolo di Maggie Smith, che risulta essere la dea ex-machina della storia, mentre penso che avrebbe avuto più senso se il suo apporto fosse stato più piccolo, ottenendo risultati per aver scatenato il cambiamento, più che per azione diretta. Avrei dunque dato meno peso al lato criminale della vicenda, e dato più spazio al versante comico e magari sentimental-familiare. Ma questo è gusto personale, la vicenda così com'è mi pare regga bene, e penso che il film avrebbe potuto ottenere un risultato migliore.

Maria Antonietta

In originale, Marie Antoinette. Uno dei film più noiosi che mi sia capitato di vedere negli ultimi tempi.

Se capisco bene, l'idea di Sofia Coppola (regia e sceneggiatura) sarebbe stata quello di riabilitare la figura di Maria Antonietta, famosa per aver letteralmente perso la testa per la rivoluzione francese.

In realtà, vedendo il film ho avuto l'impressione che la Coppola volesse farci vedere che, dato il cognome che porta, può fare quello che vuole nel mondo del cinema e ottenerne in cambio addirittura commenti positivi.

L'espediente di raccontare la storia introducendo evidenti errori temporali (a partire dalla colonna sonora infarcita di musica pop) in questo caso non mi pare che funzioni. Tutto sommato incolpevole il cast, tra cui Kirsten Dunst, come protagonista. Discorso a parte per Asia Argento nel ruolo della favorita del precedente re Luigi XV, che mi pare segua lo stesso percorso artistico della Coppola.

Oscar ai costumi (che in effetti ci sta), qualche altro premio e nomination.

Nel DVD ci sono un paio di scene tagliata e una featurette che potrebbe essere interessanti all'appassionato.

District 9

Strutturato come un mockumentary, ma evidentemente non si pretende che lo spettatore creda che si tratti di un vero documentario per più di pochi secondi, dato che racconta la vicenda di una astronave piena di extraterrestri che sembrano imparentati con i nostri crostacei e che, per motivi non chiariti, si "arena" sopra Johannesburg.

L'arrivo sarebbe successo nel 1982, gli alieni, malridotti, sarebbero stati portati in una specie di ghetto dove sarebbero rimasti per decenni, creando le tensioni e i problemi che ci si può aspettare.

L'azione parte quando l'organizzazione internazionale che si occupa del fenomeno decide di spostarli in un'area più periferica (si cita un episodio simile, sempre a Johannesburg, dove un intero quartiere - district 6 - venne sbaraccato per esigenze di mercato coperte da esigenze di ordine pubblico).

Vagamente il film può ricordare Starship Troopers (a mio avviso una delle cose peggiori di Paul Verhoeven e della fantascienza in generale) per la naturale antipatia che finiscono per sprigionare gli umani nei confronti degli "altri".

Il film ha ottenuto un buon successo di pubblico, quattro nomination agli oscar, molte altre nomination e qualche premio (minore). Francamente mi pare troppo. Non è malaccio, si lascia vedere, ha anche un qualche cosa da dire. Ma senza esagerare. Ad aiutare la sua accoglienza deve aver pesato la produzione di Peter Jackson.

Up

Nonostante che tema e l'ambientazione siano molto diversi, Up e Wall-e hanno molto in comune. Si vede che vengono entrambi da Disney-Pixar.

Pur essendo prodotti per il pubblico tipico di questa casa di animazione - molto giovane - non si ha paura di affrontare temi complessi. Ed evidentemente questo approccio paga.

Inoltre, entrambi i film sono caratterizzati da una lunga introduzione senza parlato - Wall-e è più estremo - Up si "limita" ad una decina di minuti, dopo il breve attacco dove conosciamo Carl ed Elly bambini, in cui ci scorre davanti agli occhi tutta la vita della coppia, fino alla morte di Elly, ormai vecchietta.

Curiosa la decisione di dare un aspetto "fumettoso" a Dug (il cane più simpatico) e Kevin, il misterioso volatile che ricorda vagamente beep-beep, mentre gli altri cani sono disegnati più realisticamente.

Il supercattivo ha la voce di (e anche una certa somiglianza con) Christopher Plummer.

Il divo

Bel film di Paolo Sorrentino che ha avuto un ottimo riscontro di pubblico e molti premi, tra cui spiccano il premio della giuria a Cannes (nella stessa edizione, il gran premio è andato a Gomorra), una sfilza di David di Donatello e svariati nastri d'argento e il premio europeo a Toni Servillo come miglior attore.

Il film narra la carriera di Giulio Andreotti (noto anche come il divo, per l'appunto), dandole un taglio da film d'azione quasi all'americana. La vicenda orginale è così lunga e complessa che non ci si può aspettare che venga trattata nei dettagli, ma mi pare che la narrazione riesca ad essere interessante senza risultare troppo dispersiva.

Star Trek

Simpatico prequel a Star Trek che interesserà prevalentemente, se non esclusivamente, ai fan della fantascienza in generale e a quelli della serie omonima in particolare.

Diretto e prodotto da JJ Abrams (Lost, Mission Impossible 3) mi ha colpito soprattutto per la cura con cui i personaggi principali (Kirk, Spock, McCoy, Uhura, Scotty, Sulu, Chekov) siano interpretati da attori che sono resi credibili rispetto a quelli che erano gli attori originali.

Storia non particolarmente interessante, pasticciata da viaggi nel tempo che permettono di inserire nella trama lo Spock originale, Leonard Nimoy, ma che garantisce tanta azione, voli stellari, botti e anche un po' di sesso (inconcepibile nella serie originale!).

A serious man

Tipico film di Ethan e Joel Coen. A volte riescono meglio, altre volte, e purtroppo questo mi pare il caso, no.

Non c'è un senso nella vita, non sono (necessariamente) i migliori ad aver successo, e proprio quando ti sembra che tutto stia andando bene, ti puoi aspettare che arrivi la catastrofe.

Ma, dato che la vita è fatta così, assurda e imprevedibile, l'unica cosa da fare è mantenere la calma e sperare per il meglio.

Cast composto da sconosciuti (almeno a me) ma capaci e ben diretti. Protagonista principale un insegnante ebreo a cui ne capitano di tutti i colori, alla Giobbe, oscillando di continuo tra la catastrofe e la possibilità di avere, finalmente, un po' di tranquillità. Intersecata alla sua vicenda seguiamo anche quella di suo figlio, che ha anch'essa il suo bell'altalenare.

A dare un'inquadratura alla vicenda (o meglio, a spiazzare lo spettatore), un prologo ambientato nell'Europa orientale di fine ottocento (credo) dove viene narrata una storiella yiddish - in lingua originale - a proposito di anime dannate e di donne che ne sanno una più del diavolo.

Il film si lascia guardare (due nomination all'oscar dovrebbe bastare a garantire una certa solidità del lavoro), ma non mi pare al livello della migliore produzione dei fratelli Coen, meglio guardarsene un altro, come ad esempio: Fargo; Il grande Lebowski; Fratello, dove sei?

Il padrino

Se si vuole trovare un difetto in The Godfather, si potrebbe aver da dire sulla sua durata: ben 3 ore. Meglio vederselo in lingua originale, nonostante la bravura dei doppiatori italiani che sono comunque all'altezza (elevatissima) del prodotto.

Eccellente la sceneggiatura di Mario Puzo, tratta dal suo romanzo omonimo. Ci sono alcune parti della storia che meriterebbero un approfondimento ma si capisce bene che non era pensabile fare un film più lungo di così. Non ci sono tempi morti, praticamente ogni battuta conta, e non c'è nemmeno un eccessivo sovraccarico per lo spettatore. Merito chiaramente anche dell'ottima regia di Francis Ford Coppola e del cast stellare (Marlon Brando - Don Vito Corleone, Al Pacino - suo figlio Michael, Robert Duvall - Tom Hagen, e Diane Keaton su tutti).

E certo non si può dimenticare la strepitosa colonna sonora originale scritta da Nino Rota. Questo il trailer:

E' uno di quei film che va visto, anche solo per capire modi di dire che sono entrati nel lessico collettivo ("gli ho fatto un offerta che non poteva rifiutare", "niente di personale, sono solo affari") e per l'influenza che ha avuto su molti film seguenti.

Si parla della storia di Vito Corleone, a partire dal punto in cui, boss affermato della Cosa Nostra newyorkese, inizia il suo declino. Gli ammazzamenti non sono il tema principale, si parla piuttosto della storia di una famiglia. Più che un film di mafia è un film sulla mafia. Vengono spiegati piuttosto bene alcuni meccanismi psicologici che sono probabilmente validi ancora oggi in quell'ambito.

Saturno contro

Ferzan Ozpetek è un bravo regista, ma le sue storie in genere in genere non mi appassionano. E questo vale anche per Saturno Contro.

Gli attori nel film sono all'altezza, soprattutto Margherita Buy (ammetto che sono molto di parte quando si parla di lei) e Stefano Accorsi. Ma anche Ennio Fantastichini, Milena Vukotic e Isabella Ferrari non se la sono cavata male, nonostante il poco spazio a disposizione.

Sento dire un gran bene di Ambra Angioini ma a me pare che sia sovrastimata, forse come reazione al suo passato. Visto quel che faceva di giovinetta, una buona recitazione di medio livello ha un effetto spettacolare.

Gli spunti interessanti non mancano, forse il problema è che restano solo spunti. Si cerca di raccontare la vicenda di un gruppo di amici, le singole storie restano tratteggiate e mancano, a mio gusto, di dettaglio.

Questo il trailer del film che, come spesso accade, non è che sia proprio indicativo di quello che sia il film vero e proprio.

Un gruppo di amici, alcuni omosessuali, alcuni straight, tutti con i loro problemi. Al pubblicitario gay viene un colpo, vegeta un po' in ospedale, poi muore. Il suo compagno ne risente, il padre del morto riesce nel frangente a superare lo shock del figlio omosessuale. E altre cose. Troppe altre cose, secondo me.

Avrei preferito meno temi e più di profondità.

Ma il film è piacevole e vale il tempo di vederlo. Evidentemente sconsigliato a chi abbia forti sentimenti anti omosessuali.

Fantastic Mr. Fox

Ne parlano tutti bene, sarà per il regista, Wes Anderson (Tenenbaum, Il treno per il Darjeeling), per il fatto che la storia è stata scritta da Roald Dahl, o per le voci (George Clooney, Meryl Streep, Bill Murray, Willem Dafoe ...). Fatto è che mi aspettavo molto da questa animazione in passo uno, e ne sono rimasto molto deluso.

Il paragone con Mary e Max, stesso anno, budget enormemente inferiore, a mio parere, chiude il discorso. Ma anche uno stop-motion che ho visto citato come confronto, Galline in fuga (2000), mi sembra decisamente fatto meglio.

Due nomination all'oscar, colonna sonora e animazione, battuto in entrambi i casi, e in questo caso sono d'accordo con l'Academy, da Up.

The island

Molto scarso. Se non l'hai ancora visto, continua così.

Dato il regista/produttore, Michael Bay, non è che ci si possa aspettare molto - noto per la serie dei Transformers, ma anche per i due Bad Boys, Armageddon, Pearl Harbor e persino The Rock. Roba di facile visione e molto rumorosa. Anche paragonato alla sua produzione normale, però, The island non regge al confronto.

Uno scienziato pazzo (Sean Bean) ha creato una specie di fabbrica sotterranea in cui, dietro cospicuo pagamento, crea e mantiene cloni dei clienti finché questi non hanno bisogno di pezzi di ricambio. Ai cloni si dice che è successa una catastrofe planetaria e loro sono gli unici superstiti in un ambiente controllato. Un clone (Ewan McGregor) inizia a fare troppe domande e stringe amicizia con un tecnico (Steve Buscemi) che, direttamente o indirettamente, finirà per fargli aumentare i dubbi. Un giorno una clone sua amica (Scarlett Johansson) vince la "lotteria" che le permetterà di lasciare quella specie di galera per andare su una fantastica isola incontaminata (questa è la favoletta che raccontano ai cloni per spiegare come mai ogni tanto qualcuno di loro sparisce). Lo stesso giorno il clone astuto scopre che non è vero niente di quanto avevano detto loro, e organizza una fuga per lui e la sua amica. Seguono inseguimenti, sparatorie, incidenti stradali, elicotteri che si schiantano finché i cloni non riescono a riprendersi la libertà.

Volontariamente o meno, sono citati film a bizzeffe. Matrix, anche se lì la contrapposizione era tra umani e macchine, qui i cloni nel loro bozzolo ricordano molto gli umani "addormentati" di quel film. Blade Runner, se vogliamo, per la storia dei cloni che si ribellano. Gattaca, per il discorso pseudo-etico sui diritti dei cloni. Persino Metropolis di Fritz Lang, per la rappresentazione della Los Angeles del futuro. Ma anche film di azione alla Arma Letale per parte del film dedicata all'inseguimento.

Per far funzionare il film si sarebbe dovuta prendere una decisione: o rendere i personaggi e la storia più realistica di quel che è; o puntare esplicitamente sull'azione, tagliando i molti tempi morti e tentativi (falliti) di dare uno spessore ad una storia che non ne ha.

Altro elemento che mi ha decisamente disturbato è stata la presenza veramente eccessiva della pubblicità. Alla faccia del product placement. Alcune scene sembrano girate con l'unico scopo di dare spazio ad un certo articolo.

Sul DVD non è male il making of incluso, dove si vede Michael Bay che si diverte un mondo a schiantare automobili, far precipitare un elicottero e a filmare gioiosamente tutte queste catastrofi. Da cui si deduce che almeno uno s'è divertito con questo film.

Notturno bus

Primo lungometraggio diretto da Davide Marengo, noto per la sua esperienza nei video musicali. La frequentazione di Marengo all'ambiente musicale - suo Craj del 2005, documentario sulla musica popolare pugliese - spiega la bella colonna sonora che si destreggia tra diversi stili.

Ottimo il cast, almeno nei ruoli principali. La storia non è niente di soprendente, ma viene giocata giocata con una buona ironia, appoggiandosi sulle atmosfere di una Roma notturna che risultano piacevoli.

Buon risultato complessivo, grazie agli ottimi ingredienti che ha avuto a disposizione, anche se il finale non mi ha soddisfatto. Un po' come se si fosse arrivati corti di fiato, dopo tutto il correre del film.

Giovanna Mezzogiorno ha il ruolo di una ladra che ha imparato sin da piccina a non fidarsi di niente e di nessuno e che tira dentro nella storia Valerio Mastandrea, autista di autobus tendente alla depressione e con un grosso debito di gioco da saldare. Ennio Fantastichini, sempre un ottimo cattivo, qui fa un agente dei servizi che sta cercando di mettere le mani su di un misterioso microchip, finito per caso nelle mani della ladra; dall'altra parte ci sono Francesco Pannofino, anche lui un convincente cattivo ma con una vena più comica, e Roberto Citran, una coppia di sbirri un po' pasticcioni e molto violenti. Una particina (nei panni della moglie del poliziotto interpretato da Pannofino) anche per la brava Iaia Forte.

I personaggi sono costruiti bene, ma non (mi) è chiaro il loro sviluppo. Il protagonista, ad esempio. Ha studiato, gli mancava un esame a laurearsi ma, per motivi imprecisati (una donna, pare) ha mollato tutto e si è adattato su un lavoro che chiede poco, e poco dà. Inoltre, in contrasto alla sua tendenza di non rischiare, ha la passione per il gioco d'azzardo, che lo porta verso la rovina, dato che non è capace di bluffare e non riesce a capire il gioco degli avversari. Ha un rapporto complesso con un suo amico che è anche il suo strozzino. Nel suo lavoro è capace, ma gli manca lo stimolo a fare quel di più che sarebbe alla sua portata. Parlando con la ladra viene fuori che il "segreto del bravo autista di autobus" è il guardarsi dietro, sapere usare gli specchietti retrovisori. La ladra lo interpreta nel modo negativo, ovvero nel fatto che lui non si sappia staccare dal passato (anche perché lei ha il problema opposto, non riesce a mantenere una relazione con il passato, è sempre in fuga verso qualcos'altro).

Un buon personaggio, dunque, ben caratterizzato. Lo vediamo usare il suo passato, la conoscenza di un deposito di stoffe, per riuscire ad sfuggire agli inseguitori. Lo vediamo usare anche le sue capacità di guida all'autobus in una scena di inseguimento (avrebbe potuto essere maggiormente spettacolarizzata - mi sembra che invece sia solo confusa), da cui però ne esce in un modo che sembra più fortunato che abile. Lo vediamo anche bluffare con successo e riuscire a stendere un avversario. Ma tutto questo ci viene mostrato senza dargli l'opportuna rilevanza, e sembra sempre che il personaggio sia sì cambiato, ma più accidentalmente che sostanzialmente. Come dire, non si vede bene la crescita del personaggio.

La scena topica risulta quella dove deve decidere se prendere una borsa contenente un paio di milioni di euro o abbandonarla. La ladra, esperta della faccenda, gli ha consigliato di lasciarla ed è scappata, ritenendo che due tra i presenti sul posto fossero poliziotti. A questo punto noi dovremmo vedere la sua transizione e vedere come agisce in questa situazione limite. Invece non vediamo niente. Stacco e passaggio alla scena successiva, quando lui si ricongiunge alla ladra. Non sapremo mai cosa è successo in quel frangente.

Titoli di coda con Daniele Silvestri che canta La paranza, e viene premiato con un David.

Peccato per l'assenza assoluta di bonus nel DVD.

Clerks 2

Clerks 2 è in linea con Clerks (Commessi - 1994). Chi ha visto il primo episodio, sempre scritto e diretto da Kevin Smith, dovrebbe avere più o meno le stesse reazioni alla vista del secondo.

I personaggi principali sono gli stessi: Dante (Brian O'Halloran) e Randal (Jeff Anderson) che "lavoravano" in una sorta di minimarket, adesso "lavorano" in un fastfood, ma non si sono riusciti a scrollare di dosso Jay (Jason Mewes) e Silent Bob (lo stesso Kevin Smith) che continuano a spacciare. A questi si aggiungono Rosario Dawson e Jennifer Schwalbach Smith (moglie del regista) che, incredibilmente, si contendono Dante.

Stesso spirito da commedia irriverente, in certi casi al limite del disgusto (e per qualcuno anche oltre), in entrambi i film.

Stessa ambientazione nel New Jersey, tipica anche di altri film di Smith, come Jersey Girl (che però è più rivolta ad un pubblico più tranquillo).

Se nel primo Clerks grosso peso avevano i clienti e entravano e uscivano dal negozio, qui la vicenda è più centrata sul dilemma di Dante: mollare il Jersey per la Florida o restare? Con tutto quel che ne consegue.

Tra le apparizioni dei clienti spiccano quelle di Ben Affleck (giusto un paio di battute) e Jason Lee (compagno di scuola di Dante e Randal che è diventato schifosamente ricco ma che ha un cetriolo nella sua memoria).

Divertenti le citazioni di altri film. Jay, ad esempio, cita il silenzio degli innocenti (e quale scena se non quella dove il rapitore pervertito si mette a ballar da solo mentre la vittima è in fondo al pozzo?).

Bel film, dunque. Fra l'altro, al contrario del primo, questo è quasi tutto a colori. Attenzione però ai temi trattati. Ad esempio: come addio al celibato Randal regala a Dante (a insaputa di questi, naturalmente) uno spettacolino erotico altamente disgustoso, naturalmente in tipico stile Randal.

L'ultimo re di Scozia

The last king of Scotland, regia di Kevin Macdonald, scozzese e più interessato ai documentari che alla fiction. Nonostante questo, grazie ad un tema decisamente interessante, la feroce dittatura di Idi Amin, e alla convincente interpretazione di Forest Whitaker il film ha avuto un ottimo successo, ratificato anche da una serie di premi tra cui spicca l'oscar a Whitaker.

C'è da tener presente che i fatti narrati hanno un'attinenza molto limitata alla realtà. Per dirla con schiettezza, il dottor Nicholas Garrigan (interpretato da James McAvoy, che ho apprezzato di più in Espiazione) è pura invenzione.

Mi pare che la storia regga solo fino a un certo punto.

Si potrebbe dire che si tratta di un racconto di formazione, dato che inizia con Garrison che si laurea e decide di andarsene di casa, stufo dell'aria di superiorità paterna. Sceglie l'Uganda a caso, fa un po' di sesso casuale, gioca all'inglese (pardon, scozzese) nel terzo mondo, tenta di sedurre la moglie del collega, finché incontra Amin i due si piacciono e lui molla il suo lavoro per diventare il medico del presidente. Fa un po' di bella vita, finché ad un certo punto inizia a maturargli qualche dubbietto sul suo amico Amin.

Fin qui tutto bene. Il dottore risulta essere un ragazzetto in fin dei conti di buon carattere (dopotutto sa fare il suo lavoro) anche se immaturo. A questo punto dovrebbe crescere e prendere delle decisioni. Invece traccheggia e si mette nei guai ancor più profondi. La sua passione per le donne sposate (ad altri) lo porta a legarsi ad una moglie di Amin, al punto da metterla incinta. Pur essendo poligamo e trattandosi di una moglie in disgrazia, la reazione coniugale è quella che ci si può aspettare, e fa a pezzi - letteralmente - la moglie.

E a questo punto siamo oltre la plausibilità. Diciamo che sia possibile che Amin perdoni il medico che gli ha soffiato una moglie, ma che si continui a fidarsi di lui è eccessivo. E solo quando il dottore pianifica di ucciderlo dandogli del veleno invece che pastiglie per il mal di testa, e il piano viene scoperto dall'astuto capo della sorveglianza, finalmente si decide di eliminarlo. Capita però che proprio in quel momento arrivi ad Entebbe l'aereo dirottato da palestinesi per cui, contro ogni logica, si decide di giustiziare il dottore all'aeroporto, utilizzando un sistema che non può che ricordare la prova del dolore a cui si sottopone il protagonista di Un uomo chiamato cavallo (1970). Ma il fortunato dottore riesce a scappare, seppur malridotto, grazie al sacrificio inspiegabile (come dice lui stesso) di un suo collega.

Ha imparato qualcosa il dottor Garrison dalle sue avventure? Non si sa. E forse non gliene può importar di meno a nessuno. Resta la notevole interpretazione di Whitaker e un film tutto sommato guardabile.

Wall Street

Il punto di vista di Oliver Stone sul turbocapitalismo anni ottanta, giusto prima del crollo dell'87 - che risulta stranamente simile alla stessa situazione che ha portato alla crollo di venti anni dopo. Dunque, probabilmente, invece di vedersi il seguito (Il denaro non dorme mai - 2010) tanto vale vedersi il primo episodio.

Charlie Sheen (non eccezionale) interpreta Bud Fox, operatore di borsa che, visto l'andazzo generale, vorrebbe arrichirsi, ma in realtà non riesce nemmeno a ripagare il debito contratto per prendersi la laurea. Anche perché vivendo a New York (Upper West Side - ci tiene a specificare) i soldi che guadagna se ne vanno solo per vivere. Come molti suoi colleghi ha il mito di Gordon Gekko (un superlativo Michael Douglas), uno squalo di Wall Street che fa montagne di soldi viaggiando in bilico tra lecito e illecito. Lo incontra, inzia a violare qualche regoletta, e conosce Darien (Daryl Hannah, ruolo che le è valso il Razzie Award come peggior attrice non protagonista) di cui si invaghisce, anche se lei mette bene in chiaro le sue priorità: soldi e cose costose. Bud fa una montagna di soldi facendo porcherie varie, che impegna in una casa dall'altra parte di Central Park (l'Upper East Side fa più figo), bizzarre opere d'arte e tutto quanto vuole Darien. Una nota simpatica: nel frigo della sua nuova casa si vede un cartone di Pomì, evidentemente considerato alla moda.

Il problema nasce dal fatto che Bud chiede al perfido Gekko di aiutarlo a comprare la compagnia area dove lavora il padre di Bud (interpretato da Martin Sheen, padre di Charlie - meglio del figlio, visto di recente in The Departed). Bud vorrebbe salvarla, Gekko lo asseconda ma vuole fare come al solito: farla a pezzi, liquidarla e farci sopra una gran plusvalenza.

A questo punto Bud decide di mollare Gekko, qualunque cosa dovesse costargli.

Storia non originalissima, ma che regge. Interessante anche perché, come si diceva all'inizio, a parte la tecnologia, poco pare che sia cambiato nel mondo della finanza da allora a oggi.

Chicago

Non sono un amante del musical, e Chicago è soprattutto per amanti del genere. C'è da dire che, persino a me, la partenza ha colpito al cuore con un numero davvero notevole, All that jazz interpretato da Catherine Zeta-Jones. Bravissima, davvero. Ho scoperto solo dopo, guardando il lungo e interessante "making of" incluso nel DVD, che la Zeta-Jones è praticamente nata come cantante e ballerina. Beh, lo dimostra a meraviglia nel film.

Mi chiedevo come mai le avessero dato il ruolo di Velma Kelly e non quello di Roxie Hart, la protagonista (Renée Zellweger, brava, ma non paragonabile). Ho scoperto poi che è stata lei a voler fare quel ruolo, perché voleva assolutamente fare, per l'appunto, il numero in iniziale. E come darle torto.

Altra stella del cast Richard Gere, nel ruolo di un estroso avvocato. Bravo, ma parte limitata. Buona prova di John C.Reilly nella parte del povero disgraziato che si era sposato la protagonista. Fra l'altro Really è uno di quegli attori che lo vedo e mi chiedo, "ma io questo dove l'ho già visto?", do un occhiata su imdb e scopro che l'ho visto in una dozzina di titoli.

La sceneggiatura è poco più di un pretesto per tenere assieme i numeri. Velma fa il suo numero e viene portata in galera, per aver ammazzato sorella e marito (colti sul fatto). Roxie era lì con un suo amico che pretendeva di avere agganci per introdurla nell'ambiente, quando lui si stuferà di lei, e le dirà la verità, Roxie lo fa fuori. Roxie e Velma si incontrano in galera, non vanno per niente d'accordo. Processo farsa di Roxie, con l'avvocato che la riesce a far assolvere; poi farà assolvere pure Velma. Finale con Roxie e Velma che, pur odiandosi, lavorano assieme (l'impresario aveva spiegato a Velma che un'assassina che balla e canta non fa più notizia, ma due assieme sì).

La trovata del film è che quasi tutti numeri sono immaginati da Roxie, come modo di evadere dalla realtà. Il problema (dal mio punto di vista) è che è la stessa trovata di Dancer in the dark (Lars von Trier - 2000) film, a mio avviso, superiore e premiato anche negli USA. Mi pare curioso, ma non ho trovato nessuno che abbia notato la cosa.

In maniera per me incomprensibile, Chicago è stato premiato con addirittura 6 oscar (sarebbe bastato quello alla Zeta-Jones, a mio avviso) e una montagna di altri premi. Come miglior film ha battuto Gangs of New York (anche lì c'era Reilly, tra l'altro) e Il pianista, secondo me ingiustamente. E se Il pianista s'è consolato con un gran numero di altri oscar, Gangs lo avrebbe meritato.