Tuo per sempre

Forse è stato il tracollo de The General a far sì che questo film, immediatamente successivo, fosse qualcosa di più in linea con le attese del pubblico del tempo. Una storia molto lineare che segue una falsariga classica. Lui ama lei, lei ci starebbe ma c'è qualcosa che non le va, c'è un terzo incomodo che si mette in mezzo, ma alla fine l'amore trionfa.

In questo caso Lui (Buster Keaton) è uno studente delle superiori che ama lo studio e rifugge l'attività sportiva. Lei (Anne Cornwall) gli vuole bene, ma trova la sua presa di posizione per la cultura fuori luogo e impopolare, e lo avverte che solo mostrandosi atletico potrà conquistare il suo cuore.

Si passa all'università (da cui il titolo originale, College), lei sceglie di andare alla Clayton, ateneo noto, con gran disdoro del suo rettore, più per la prestanza dei suoi atleti che per il rigore negli studi. Lui la segue con l'intenzione di riscattarsi dedicandosi ad ogni possibile sport.

Purtroppo non sembra esistere alcuna disciplina sportiva in cui Lui non sia negato. Mentre prova la corsa, ad esempio, viene superato da due marmocchi che stanno litigando fra loro. I suoi catastrofici tentativi vengono notati da Lei (alla di Lui insaputa) che mostra di essere comunque colpita dalla sua perseveranza, ma anche dall'assenza di risultati accettabili.

In aggiunta al problema sportivo, deve anche affrontare altre faccenduole. Non ha soldi per mantenersi negli studi, ad esempio, e quindi deve cercarsi un lavoro, ma non vuole che Lei lo sappia, il che complica ulteriormente la cosa. Gli altri studenti, considerandolo un cocco dei docenti per la sua fama di studioso, lo prendono di mira e lo lanciano in aria facendolo rimbalzare su di un telo. Il che è una scusa per dare spazio ad un effetto speciale sorprendente, almeno per i tempi. Cambiando la velocità di ripresa, si crea l'illusione che Lui resti sospeso in aria ben più a lungo del lecito, facendo finta che un ombrello gli faccia da paracadute.

Il rettore, che contava su di lui per riscattare il nome dell'istituto, lo convoca per chiedergli ragione dei suoi magri risultati scolastici. Lui spiega che amore lo spinge a trascurare gli studi per l'atletica. A sorpresa il rettore gli dice che fa bene, anche lui è passato per qualcosa del genere, ha preferito gli studi e adesso è scapolo. Dunque gli trova un posto come capovoga nell'otto con che sta per affrontare una compagine rivale.

Nonostante una lunga serie di avversità la barca vince, e Lui si aspetta che Lei sia lì per festeggiarlo. Ma non c'è. Però l'assenza è giustificata, essendo stata bloccata dall'Altro, che mira a comprometterla in modo da farla espellere e forzarla a sposarlo. Lei però riesce fortunosamente ad avvertirlo, e dunque lui parte al salvataggio. E' piuttosto lontano, e deve arrivare prima degli altri, ma non si perde d'animo, parte come una saetta, saltando siepi e fossati e, mostrando ora di essere capace in tutte le attività sportive in cui prima aveva miseramente fallito. Riesce a far scappare l'Altro e riconciliarsi con Lei.

Bizzarro il finale in cui viene mostrato il susseguente "vissero felici e contenti" in una maniera invero piuttosto demoralizzante.

Come vinsi la guerra

Considerato da molti il miglior film di Buster Keaton, il miglior film muto, o anche tra i migliori film in assoluto, ai tempi fu invece un disastro economico, il che spinse la Metro Goldwyn Mayer a rinegoziare il contratto che gli originariamente concedeva una grande libertà produttiva. Fatto che, combinato con l'introduzione del sonoro, causò un rapido declino della stella keatoniana.

Johnnie Gray (Buster Keaton) ha due grandi amori, la locomotiva a cui bada e conduce (e si chiama The general, da cui il titolo originale), e Annabelle (Marion Mack). Tutto sembrerebbe andare per il meglio, se non che scoppia la guerra di secessione americana, e quella guerrafondaia di Annabelle vuole che il suo Johnnie si unisca alle truppe sudiste. Johnnie, che le è decisamente succube, corre con entusiasmo al reclutamento, ma viene scartato perché è più utile col suo lavoro. Un equivoco però fa sì che padre e fratello di Annabelle capiscano male la faccenda, e di conseguenza Johnnie cade in disgrazia.

Un anno dopo la guerra infuria e i nordisti pensano di rubare una locomotiva sudista nel corso di una azione militare poco ortodossa. Non solo si tratta de Il generale, ma per una bizzarra casualità l'unica persona a bordo del treno al momento dell'attacco risulta essere proprio Annabelle. Johnnie, che non sa della sua bella, rincorre la sua amata (locomotiva) e ritrova pure la fidanzata.

Nel ritornare dietro le linee amiche riuscirà anche a far saltare un piano di attacco delle giubbe blù, diventando così l'eroe del giorno.

L'evento narrato ha una base storica, anche se è stata stravolto dalla sceneggiatura. Decisamente insolito che la vicenda sia narrata dal punto di vista degli sconfitti. Perché, checché ne dica il titolo italiano, i confederati la guerra l'hanno persa.

Transcendence

Le idee alla base della sceneggiatura non mi sembrano male, però non mi pare che Jack Paglen non abbia avuto la forza di svilupparle al meglio. Forse sarebbe stato meglio chiedere il supporto di qualcuno con una maggiore esperienza nel campo. Come pure per la regia, affidata a Wally Pfister, che per dirigere questa sua prima pellicola non ha potuto seguire Christopher Nolan in Interstellar. Spero che la lezione gli sia servita e torni alla fotografia, che è certamente la cosa che sa fare meglio. O almeno affronti progetti meno ambiziosi.

Will Caster (Johnny Depp) è tra i massimi esperti americani di Intelligenza Artificiale. Il suo centro di ricerca indipendente, che dirige assieme a sua moglie Evelyn (Rebecca Hall), ha bisogno di soldi, e dunque si organizza un evento a cui partecipano potenziali investitori e interessati all'argomento. Tra cui gli esponenti di un gruppo terrorista di stampo luddista che ha ai suoi vertici Bree (Kate Mara).

Costoro sfruttano l'occasione per infettare mortalmente Will e, nello stesso giorno, effettuare un attacco a tutti i principali centri di ricerca IA americani. Per puro caso si salva Joseph Tagger (Morgan Freeman), altro luminare, che da tempo lavora per il governo. Per qualche motivo poco chiaro né la moglie di Will, né il suo migliore amico, Max (Paul Bettany), sono presi a bersaglio. Forse Max viene risparmiato perché da sempre è il più prudente nelle ricerche ma, visto che questo non è il modus operandi di organizzazioni paragonabili, mi sembra più che altro un artificio richiesto da sviluppi successivi della storia.

Grazie ai recenti studi di un ricercatore (che se ho capito bene è perito nella serie di attacchi) Evelyn decide di giocare il tutto per tutto e tentare di salvare l'intelligenza di Will in formato artificiale. Max è perplesso, ma contribuisce all'opera.

Dunque Will trascende la condizione umana e diventa una IA superpotente. Ci si chiede: è davvero Will, che era un bonaccione, o è diventato qualcosa d'altro, di cui è meglio diffidare? Hanno ragione i luddisti? Fa bene Joseph a puntare su una via militare per risolvere il problema? E altre cose in questa direzione.

Contrariamente a produzioni del genere, non è facile dire chi abbia ragione e chi torto. Le cose sono molto pasticciate, e di certo c'è solo che tutti quanti commettono una mostruosa serie di errori. Difficile quindi per lo spettatore immedesimarsi con un qualche personaggio. Ed è forse questo uno dei motivi per cui il film non ha ottenuto un risultato esaltante nemmeno al botteghino.

Un altro motivo sta certamente nella debolezza di svariati passaggi di sceneggiatura, sin già dall'inizio del racconto. Vedasi ad esempio l'attentato a Will. Un terrorista gli si para davanti e gli spara un proiettile praticamente a bruciapelo, ferendolo solo di striscio, indi si fa saltare le cervella. Ma Will è spacciato lo stesso perché la pallottola è stata contaminata con polonio. Si vede lontano un miglio che è solo l'esigenza di tenere Will in un periodo di sospensione tra la vita e la morte a dare un senso a questo passaggio. Procurarsi polonio è complicato, usarlo pure, e non se ne vede alcun vantaggio in questo caso. Meglio sarebbe stato costringere l'attentatore a fare più pratica, e convincerlo a usare tutto il caricatore sulla sua vittima.

Come uccidere vostra moglie

A ben vedere la storia non è molto diversa da quella narrata in È ricca, la sposo e l'ammazzo, film di soli sei anni dopo che però fa sembrare questa sceneggiatura roba di svariati decenni prima. Anche la regia (Richard Quine) non è particolarmente ispirata. A salvare la baracca il notevole cast.

Stanley Ford (Jack Lemmon) fa una vita da nababbo in una splendida casa a New York, grazie al successo della sua striscia sulle avventure di un agente segreto pubblicata su moltissimi quotidiani. E' scapolo, decisamente contrario al matrimonio, e accudito da un maggiordomo inglese (Terry-Thomas) tuttofare. In una notte di bagordi incontra una bellissima italiana (Virna Lisi) che esce seminuda da una torta (scena mitologica). Essendo lui ubriaco fatto e lei non parlando inglese, c'è un certo livello di fraintendimento che si conclude in un matrimonio che lei sopravvaluta e lui rimpiange sin dal suo risveglio.

Incapace di crescere, Stanley subisce più che apprezzare la routine matrimoniale, al punto che quando i due fanno sesso l'immagine sfuma sui mugugni di lui che sembra patire l'iniziativa di lei. La mutata condizione del disegnatore si riflette anche nella sua creatura a fumetti che, come Stanley, si sposa, perde la forma fisica e diventa pantofolaio.

Comprendendo infine che qualcosa non va, Stanley decide di partire al contrattacco e, con l'aiuto del fido ex-maggiordomo, con cui è rimasto in buoni rapporti che pur essendosi questi dimesso perché anch'egli avverso al matrimonio, ordisce una trama per uccidere la moglie. La moglie del personaggio a fumetti, si intende. Ma siccome Stanley è un perfezionista, tutto quello che accade nei fumetti deve essere prima verificato nella realtà.

Purtroppo la sceneggiatura ci tiene a farci capire subito che nella realtà non c'è alcun omicidio, e quindi la seconda parte del film ha molta meno tensione di quanto avrebbe potuto avere. Comunque Stanley droga veramente la moglie, prosegue il piano con un manichino e, quando è soddisfatto del risultato, trasforma in fumetto la sua malefatta.

La moglie, che per tutto il film è chiamata solo Signora Ford, quando si sveglia, trova Stanley addormentato sulle tavole completate, vede la storia, se ne raccapriccia, molla tutto, compreso l'anello matrimoniale, altro particolare significativo - solo lei lo ha, e se ne va come è arrivata. Portandosi dietro in più solo un petulante cagnoletto.

Non essendoci l'habeas corpus nessuno potrebbe accusare Stanley di nulla, ma qui si fa un'eccezione. Si imbastisce in fretta e furia un processo e Stanley è sull'orlo di finire male. Se non avesse un colpo di genio. Constatato che la giuria è composta da soli uomini di mezza età, ricusa il suo avvocato e si fa da sé l'arringa finale, in cui fondamentalmente sostiene che l'uxoricidio è lecito.

Nel finale si mette una pezza a questo orrore mostrando il ritorno della moglie e la ritrovata intesa familiare.

Doctor Who 8 Speciale di Natale - Last Christmas

Non è necessario, ma è meglio aver già visto Alien, Inception, e magari anche Videodrome.

Meno natalizio del solito, nonostante la presenza di Babbo Natale in persona (Nick Frost), questo speciale deve essere stato espressamente pensato da Steven Moffat per chiudere i punti lasciati aperti dal finale di stagione, e rivelarci finalmente quello che è il vero destino della coppia Dodicesimo Dottore (Peter Capaldi) - Clara Oswald (Jenna Coleman).

Clara viene risvegliata la notte di Natale da strani rumori. Sale sul tetto e scopre che Babbo Natale si è incagliato con la sua slitta tra i suoi camini. E' lì che cerca di spiegare a Babbo Natale che lui non esiste quando arriva il Dottore, e a questo punto diventa difficile per Clara spiegare come lei non creda più a storie improbabili. Ma non c'è tempo per discutere, il Dottore vuole che Clara viaggi ancora una volta con lui nella TARDIS.

I due si recano al Polo Nord dove, in una base scientifica, si trova uno smilzo e improbabile gruppo dedito a non si capisce bene che tipo di ricerca. Una di loro, Shona (Faye Marsay), viene mandata non si capisce bene perché nell'infermeria, dove giacciono quattro umani con la faccia coperta da alieni che ricordano clamorosamente gli Alieni del film omonimo in versione face-hugger, come fa notare uno scienziato. Al che il Dottore, come scopre che Alien è un film su alieni cattivi che terrorizzano gli umani, dice di iniziare a capire gli alieni che per ritorsione vogliono invadere il nostro pianeta.

Questi alieni, vagamente simili a granchi, sono dei predatori che si pappano il cervello delle loro vittime, e per tenerli buoni gli raccontano una favola, ovvero inducono uno stato di sogno che li tranquillizza mentre il loro cranio viene trapanato.

Il problema dei sogni è che non è poi così facile capire di esservi dentro. E qui siamo nella parte Inception dell'episodio. Si capisce che tutti quanti sono in uno di questi sogni mortali, e Babbo Natale, che di tanto in tanto appare, non è altro che l'ultimo disperato tentativo del subconscio dei predati di avvertire che la situazione non è reale. Scopo dell'allegra brigata sarà quello di svegliarsi per davvero, prima che sia troppo tardi.

Sui titoli di coda ci viene rivelato il titolo del primo episodio della nona stagione, L'apprendista stregone, e chi interpreterà il ruolo del Dottore (facile questo) e chi il companion.

Pride

Mark (Ben Schnetzer) è un giovane e combattivo gay che non ha nessuna voglia di nasconderere le sue tendenze sessuali. E già questo, nella Londra thatcheriana dei primi anni ottanta, non sembra fosse facilissimo. Però lui pensa in grande e, notando come la pressione della polizia sulla sua comunità sia diminuita in relazione alla crescita di un problema più urgente, lo sciopero dei minatori, decide di creare un comitato a supporto della lotta di questi ultimi.

Il ragionamento di Mark è simile a quello che Martin Niemöller illustra nella sua poesia Als die Nazis die Kommunisten holten, ovvero che girarsi dall'altra parte quando vediamo un sopruso rivolto ad altri non è una politica che paga. Dunque, pur essendo il tema del giorno il gay pride londinese del 1984, lui inizia a raccogliere fondi per i minatori.

La sua storia si incrocia con quella di John (George MacKay), gay ancor più giovane, e non dichiarato. Partecipa alla marcia con gran titubanza, cercando di apparire il meno possibile, e finisce forse più per caso che per altro ad associarsi alla causa gay pro minatori. Lo scopo di questo personaggio è evidentemente quello di offrirci un punto di vista altro rispetto a quello dei due principali poli dell'azione.

Alla fine della giornata un piccolo gruppetto di gay, che include anche la coppia formata da Jonathan (Dominic West) e Gethin (Andrew Scott) decidono di proseguire nell'attività. Visto che c'è anche una lesbica, Steph (Faye Marsay), il nome scelto per l'associazione è Lesbians and Gays Support the Miners, anche se loro preferiscono farsi chiamare LGSM. Che sembra un po' il nome di una band in stile Frank.

I nostri scoprono che raccogliere i soldi è relativamente facile, il difficile è riuscire a darli ai minatori. Non riuscendo a stabilire un contatto ufficiale con l'organizzazione nazionale dei minatori, cercano una via traversa, e la trovano in Dai (Paddy Considine) che rappresenta un paesino gallese che vive sul lavoro in miniera. L'interazione tra le due comunità non è, ovviamente, tra le più semplici. Tra i gallesi c'è chi, per motivi personali, apprezza l'aiuto ma con imbarazzo, come Cliff (Bill Nighy), chi scopre una propria capacità politica come Siân (Jessica Gunning), chi cerca in tutti i modi di ostacolare la relazione.

Sceneggiatore (Stephen Beresford) e regista (Matthew Warchus) stanno ben attenti ad evitare eccessi gay e anti-thatcheriani e preferiscono mantenere un atteggiamento leggero, tra il disincantato e l'umorismo di stampo inglese, anche quando gli avvenimenti prendono direzioni non particolarmente gioiose. Occorre ricordare infatti che lo sciopero finì malamente, con una brutale sconfitta dei minatori, e tra AIDS e conservatorismo nemmeno gli LGSM se la passarono benissimo. Eppure quelli che sono a tutti gli effetti dei perdenti non sembrano prendersela poi troppo, perché hanno trovato un riconoscimento reciproco ben poco scontato. E a ben vedere, seppure a lungo termine, la loro sconfitta è stata solo temporanea.

Anche per questo credo si debba sconsigliare la visione ad omofobi e fan della Lady di ferro, che ovviamente viene fatta oggetto di epiteti non troppo riguardosi nel corso del film.

Colonna sonora in stile, molto anni ottanta quindi, con Smiths, Bronsky Beat e tutto quant'altro ci si può aspettare. In più, c'è anche una versione della toccante Bread and roses che si può ascoltare su youtube col contorno di alcuni fotogrammi dal film:

Io e la boxe - Se perdo la pazienza...

Inutile girarci tanto attorno, Alfred Butler (Buster Keaton) è un debosciato, un po' come Rollo ne The Navigator. Straricco di famiglia, non fa nemmeno la fatica di scrollare la cenere dalla sigaretta. Alle trivialità della sua vita ci pensa il suo valletto (Snitz Edwards - che era l'avvocato in Le sette probabilità).

Costretto dal padre a passare qualche tempo sulle montagne, incontra una giovane donna (Sally O'Neil) che gli dà finalmente l'occasione di uscire dal suo torpore esistenziale. Senza esagerare, si intende.

Succede però che padre e fratello della bella, rudi montanari, non vedano di buon occhio che un damerino di città entri nella loro famiglia. Il valletto decide perciò di spacciare una innocente menzogna. Esiste infatti un altro Alfred Butler, detto Battling Butler (da cui il titolo originale del film), che sta per combattere per un titolo dei pesi leggeri di pugilato. Lascia credere quindi che si tratti della stessa persona.

Come spesso accade, il sassolino diventa rapidamente una valanga, e in men che non si dice l'Alfred Butler sbagliato si troverà ad allenarsi per un incontro con un pugile che si fa chiamare l'assassino dell'Alabama.

Io e la vacca - Andate al West

In originale Go west, da non confondersi con l'omonimo titolo dei fratelli Marx di quindici anni dopo, che non sembra avere molto a che fare con questo film di Buster Keaton, ma l'estro trasformista di Groucho & company lascia sempre poco spazio alle certezze.

Qui si narra di un tale (Keaton) che ha così poco successo presso l'umano consesso da essere indicato come Friendless (senza amici) nei titoli. Lascia il suo paese natale vendendo tutte le sue proprietà per un tozzo di pane, e va nella grande città, che poi sarebbe New York, dove resiste per circa dieci minuti. Troppa confusione, non fa per lui. Decide dunque, come da titolo, di andare ad ovest.

Finisce per caso in una fattoria nel mezzo del nulla e si improvvisa cow-boy, con risultati non eccessivamente positivi. La bella figlia del fattore non sembra del tutto insensibile al suo (ben nascosto) fascino, ma lui certe cose proprio non le afferra. Capisce però che una manzetta, anche lei non particolarmente fortunata con la sua specie, ha per lui una certa simpatia, e i due si mettono a fare coppia fissa.

Il destino dei bovini è segnato, e giunge il giorno della partenza per un lotto che include pure l'amica del nostro eroe. Vorrebbe riscattarla ma, povero com'è, non gli è possibile. E allora decide di accompagnarla nel suo ultimo viaggio. Succede però che un vicino di fattoria non veda di buon occhio questo trasporto, e faccia di tutto per sabotarlo. Finisce che a San Francisco l'unico cow-boy che arriva è proprio lui, e dovrà guidare l'intera mandria al macello attraversando la città, causando una serie di problemi alla popolazione.

Credo che la scena più famosa sia quella in cui Keaton è costretto a sorridere, sotto minaccia di pistola, da un altro mandriano. Niente da fare, prova pure a forzare un sorriso spingendo gli estremi della sua bocca con due dita, ma senza risultato.

Le sette probabilità

James (Buster Keaton) è un broker finanziario molto timido con le donne. Ama Mary (Ruth Dwyer) ma non riesce a dirglielo. Forse anche perché non è sicuro dal punto di vista economico, visto che lui e il suo partner (T. Roy Barnes), apprendiamo subito, sono sull'orlo del tracollo. Succede però che quel burlone di suo nonno muore lasciandogli in eredità ben sette milioni, ma a patto che che lui risulti sposato prima delle sette della sera del suo ventisettesimo compleanno, che è ovviamente il giorno stesso in cui James riceve la notizia.

Sembrerebbe una benedizione caduta dal cielo, James ha un argomento sostanziale per rompere il ghiaccio e dichiararsi alla sua Mary. Purtroppo, riesce invece a mettere le cose in modo tale da far imbizzarrire la sua amata che, con gran disdoro, gli nega la sua mano.

Partner e avvocato lo convincono, a fatica, a trovare una soluzione di ripiego, sposare una qualunque tra le donne che conosce. Ma l'incapacità di James, e una buona dose di sfortuna, riesce a far fallire anche questo progetto. Sette sono le donne possibili (da cui il titolo del film, Seven chances), nessuna di queste ha la minima intenzione di sposarsi con lui. A questo punto, si passa al piano disperato. Mentre James si dichiara ogni donna che incontra (e anche a due uomini, un travestito e uno scozzese), il partner mette un annuncio sul giornale convocando chi si voglia maritare presso una data chiesa.

Una torma di donne si presenta all'appuntamento e, pensando di essere vittima di uno scherzo, si mettono ad inseguire James per la città, requisendo tram, abbattendo muri, travolgendo squadre di rugby, mettendo in fuga poliziotti. Un vero flagello biblico.

Nel frattempo, Mary è riuscita a recapitare a James un bigliettino, in cui lo perdona. Dunque il nuovo obiettivo di Lui è riuscire a scappare dalla folla inferocita per raggiungere la sua amata in tempo. Infatti, nonostante sia ormai chiaro che dei milioni ai due non importa nulla, senza quei soldi James sarebbe rovinato, e non se la sentirebbe di trascinare Mary in una esistenza così insicura.

La storia è più in linea con le aspettative del pubblico cinematografico del tempo, probabilmente per esigenze commerciali, dopo il flop di Scherlock Jr, e la stravaganza di comprarsi una intera nave per girare The navigator. Da notare l'uomo di fatica della famiglia di Lei sia di colore e caratterizzato come sciocco e indolente, luogo comune evitato nei precedenti lungometraggi keatoniani. O anche come sia segnalato come ridicolmente assurdo anche il solo pensare ad un matrimonio misto, non solo con una donna di colore, ma anche con una ebrea.

Muppets 2 - Ricercati

Il risultato sotto le aspettative negli USA ha spinto la nostra distribuzione a tirare per le lunghe, e alla fine dirottare la premiere direttamente in televisione. E in effetti, pur essendo i Muppets sempre uno spettacolo imperdibile (almeno per i fan come il sottoscritto), in questo caso la sceneggiatura ha lati più deboli del solito (non che le sceneggiature degli altri film muppettiani brillino per la solidità) e tiene una piega blandamente sciovinistica che non mi ha fatto fare salti di gioia.

La storia inizia proprio dove finiva il reboot del 2011, i Muppets si sono riuniti e si chiedono cosa faranno ora. Ovviamente un sequel, visto che è quello che a sempre si fa a Hollywood quando un film va bene, anche se non viene mai bene come l'originale. L'unico problema è che ci vuole una trama, si verificano alcune ipotesi e poi si sceglie per la tournée internazionale, che va sempre forte. Questo non lo dico io ma lo cantano i Muppets, nel primo numero musicale del film.

Kermit, ben conoscendo i limiti dello show, propenderebbe per un approccio molto soft, ma un impresario che si spaccia per francese e risponde al nome di Dominic Badguy (Ricky Gervais), li convince a partire per l'Europa, prima tappa Berlino. In realtà, il suo scopo è di permettere al suo socio nel malaffare, Constantine, la rana più pericolosa al mondo che è appena rocambolescamente scappata dal gulag siberiano diretto dalla ferrea Nadya (Tina Fey), di sostituirsi a Kermit (che verrà così spedito nel gulag al posto suo), e usare lo spettacolo dei Muppets come paravento per le loro losche attività che li porteranno a Madrid, Dublino, e infine a Londra.

In parallelo, seguiremo anche l'attività investigativa di Jean Pierre Napoleon (Ty Burrell), dell'Interpol, che viene affiancato da Sam l'aquila in rappresentanza dell'FBI. Questa è certamente la parte che funziona peggio. Non solo per colpa di Burrell, che messo in un ruolo che ricorda troppo quello dell'ispettore Clouseau fa una ben magra figura al confronto con Peter Sellers.

Molto divertenti invece i pezzi musicali, uno dei quali vede Piggy duettare con addirittura Céline Dion nel ruolo della sua fata madrina.

Interstellar

Cooper (Matthew McConaughey) voleva pilotare astronavi nello spazio profondo. E stava per farcela ma, proprio mentre stava per superare il limite dell'esosfera, un incidente lo ha riportato a terra. Nel frattempo la Terra aveva perso il suo precario equilibrio e, una dopo l'altra, le specie animali e vegetali si estinguevano. Chiusa la NASA, morta la moglie, Cooper si trova a dover fare l'agricoltore e badare ai suoi due figli, Tom e Murph (ancora ragazzini, ma da grandi diventeranno Casey Affleck e Jessica Chastain).

Gli anni passano, e il granoturco è l'ultima specie vegetale che riesce a crescere. La sopravvivenza è diventata l'unica aspirazione per il genere umano, e tutto ciò che non riguarda direttamente l'agricoltura è visto come pericoloso. Scopriamo anche che i libri scolastici sono stati riscritti per negare i passati voli spaziali. Per non dare false speranze ai giovani, ci viene lasciato intendere.

Strani episodi, che sembrano legati ad una anomalia gravitazionale, turbano la curiosa Murph, che pensa ad un poltergeist. Il razionalista Cooper decide di tenere i fenomeni sotto controllo assieme alla figlia, in modo da mostrarle come procede il metodo scientifico. Il risultato è imbarazzante quanto inatteso, sotto forma di coordinate relative ad un misterioso posto, relativamente poco lontano, che si rivela essere niente meno di una sede segreta della rediviva NASA, ufficialmente in disgrazia (i vertici dell'Agenzia si erano rifiutati di agire militarmente in una pagina oscura relativa alla crisi alimentare), segretamente attiva sotto il comando del professor Brand (Michael Caine) in seguito alla scoperta di un wormhole apparso dalle parti di Saturno, con conseguenti nuove speranze di una possibile migrazione di quel che resta della nostra specie.

Impossibile che il wormhole sia frutto del caso. Chi lo ha generato e perché è uno dei punti chiave della storia.

Dodici astronauti (uno è Matt Damon) sono già stati mandati in avanscoperta, alla ricerca di un possibile pianeta abitabile. Una nuova missione deve verificare il risultato. A Cooper, che è l'unico astronauta che abbia una reale seppur limitata esperienza di volo, viene offerto il comando. Lo smilzo equipaggio include anche la figlia di Brand, Amelia (Anne Hathaway).

Il nemico principale alla riuscita della missione, oltre all'uomo stesso (e come diceva quel tale, quando dico uomo intendo abbracciare anche tutte le donne), è il tempo, dato che i viaggi interstellari implicano necessariamente distorsioni tali da creare situazioni bislacche. Avremo così, fra l'altro, che Cooper potrà vedere Murph diventata molto più anziana di lui (interpretata da Ellen Burstyn).

Stranamente per la sceneggiatura si era scelto subito Jonathan Nolan, ma non si era pensato a suo fratello Christopher per la regia, bensì a Steven Spielberg. E' stato solo un colpo di fortuna (storie di soldi) a riunire i due Nolan. E ovviamente Chris ha finito per mettere il becco anche nella fase di scrittura.

Visualmente il legame con 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick e Arthur C. Clarke è molto forte, e anche la bella colonna sonora Hans Zimmer (pur essendo questa completamente originale, mentre quella era una raccolta di brani classici) sostiene il parallelo. Altri elementi, invece, mi hanno fatto pensare a 2002: La seconda odissea (che in realtà non ha nulla a che fare con 2001, si tratta del solito titolo fuffa della distribuzione italiana, in originale era Silent running) di Douglas Trumbull, e alle classiche saghe della Fondazione di Isaac Asimov e di Dune di Frank Herbert per gli aspetti sociologici della vicenda.

La mia principale rimostranza è che le due ore e tre quarti della pellicola riescono solo a coprire una parte della storia. Ci vorrebbero almeno altre sei ore per avere un quadro complessivo della vicenda.

Nel parlare con amici che avevano già visto il film, ho scoperto che c'è un piccolo partito avverso alla pellicola. Lasciando da parte le inconsistenti diatribe sul versante scientifico, ho notato come a dar fastidio sia il fatto che oltre ad esplorare le difficoltà umane nel comprendere come spazio, tempo, gravità interagiscano tra loro quando la scala in gioco è troppo lontana dalla nostra esperienza di tutti i giorni, si accenni anche alle nostre difficoltà nel comprendere come l'amore sia una componente fondamentale nelle relazioni umane, sia all'interno di una coppia romanticamente intesa, sia all'interno di una famiglia, sia, più in senso lato, come forza coesiva all'interno di una comunità.

Che dire. Secondo me hanno ragione i Nolan. L'umanità si può salvare solo se riesce a usare ragione e sentimento. Pensare che una delle due componenti sia superiore all'altra è, a mio parere, un errore. E non porta ad altro che danni.

Jimmy's hall - Una storia d'amore e libertà

Credo che l'intenzione del sottotitolo italiano sia quella di strizzare l'occhio a Terra e libertà, il film che, sempre per la regia di Ken Loach, fece incetta di premi un po' in tutta Europa una ventina di anni fa. E non sarebbe male vederli uno dopo l'altro, per notare come il modo di girare di Loach sia cambiato col cambiare del secolo e credo pure con l'arrivo di Paul Laverty alla scrittura. La collaborazione tra i due risale proprio al successivo La canzone di Carla.

Qui la sceneggiatura parte da una piece teatrale firmata da Donal O'Kelly, a sua volta basata su fatti relativi alla vita di James "Jimmy" Gralton. Come si può ben immaginare, il doppio passaggio di scrittura ha ridotto di molto l'intento biografico, se mai c'è stato, anche se i punti principali, sono andato a controllare, corrispondono con i fatti storici.

Direi che il punto della premiata ditta Laverty-Loach sia mostrare come è difficile essere moderati. Il loro Jimmy (Barry Ward) è stato un capetto di uno sparuto partito pre-comunista irlandese costretto alla fuga in America dopo la fine della guerra di indipendenza irlandese (inizio anni '20). Dopo aver passato dieci anni a New York, sente il richiamo della sua terra, e decide di tornare al paesello, sapendo bene che dovrà volare basso ed evitare ogni attività politica se non vorrà avere guai.

C'è però un aspetto del suo passato al quale non ha cuore di rinunciare. Aveva infatti gestito un centro culturale che, oltre a servire per diffondere il verbo comunista, aveva fatto da centro di aggregazione per quei paesani che non avevano altro modo di impiegare il proprio tempo libero. Alle nuove giovani generazioni, ben poco interessate alla politica, che hanno un ricordo per sentito dire di quella lontana esperienza, piacerebbe avere un posto dove ballare, imparare a cantare e suonare, o magari anche praticare la nobile arte del pugilato. E lo spingono a riaprire la sua "hall".

La cosa sembra funzionare, ma c'è un problema. I settori più retrivi del clero, rappresentati da padre Sheridan (Jim Norton), vedono l'esistenza di una alternativa culturale come fumo negli occhi e, pur capendo che ha uno scopo puramente ricreativo, la osteggiano qualificandola come un'opera del demonio.

D'altro canto, gli antichi compagni politici di Jimmy vorrebbero un suo maggiore coinvolgimento nella loro lotta, e riescono anche a fargli fare un discorsetto pubblico, che finirà per essere usato come pretesto contro di lui dalle autorità.

Jimmy dà fastidio, ma non ha fatto niente di penalmente perseguibile. Però ha anche un passaporto americano, dunque viene arrestato in quanto agente provocatore straniero ed espulso dalla sua natia Irlanda, per essere rispedito a New York. Senza nemmeno passare davanti ad un giudice.

Gli estremismi hanno vinto, e chi voleva seguire una via di mezzo ha perso. O almeno sembra. Un briciolo di speranza ci rimane.

L'amore bugiardo - Gone girl

Il matrimonio tra Nick (Ben Affleck) e Amy (Rosamund Pike) è in crisi profonda, come Nick confida a Margo (Carrie Coon), sua sorella gemella. Non si aspetta però che Amy sparisca nel nulla, lasciando alle sue spalle solo un tavolino rovesciato e un ferro da stiro acceso.

Chiama la polizia e la detective Boney (Kim Dickens) vede subito una serie di piccoli indizi che fanno capire subito che c'è sotto qualcosa di truculento. Già, ma che cosa? Siccome il film è percepito principalmente come thriller, eviterei di aggiungere altro. Però, a mio parere, la trama gialla è solo il tramite usato dalla sceneggiatura di Gillian Flynn (suo anche il romanzo originale) e dalla regia di David Fincher per veicolare altri temi. E dunque qualcosa da scrivere c'è, e senza rischiare di rovinare l'effetto a chi non abbia ancora visto il film.

La struttura della narrazione è in tre tempi. Nel primo si segue prevalentemente il punto di vista di Nick, mostrando nel contempo in flash back la storia con Amy, come si sono conosciuti a New York, come la crisi abbia causato loro un duro colpo, come si siano trasferiti nel Missouri, nel paese natale di Nick, e come tutti questi cambiamenti abbiano influito negativamente sulla loro unione. Il punto chiave di questa prima parte è capire cosa sia effettivamente successo. Nella seconda parte lo spettatore sa quasi tutto, e l'interesse sta nello scoprire cosa faranno ora i personaggi principali, quali saranno le loro mosse per arrivare ognuno al suo obiettivo. La terza parte chiude il cerchio, raccontando come va a finire, senza indulgere in spiegoni.

Il primo film che mi è venuto in mente mentre seguivo lo svolgimento è Martha, di Rainer Werner Fassbinder. Che elimina tutta la componente poliziesca e lascia solo la polpa della storia, sviluppando meglio la relazione psicologica distruttiva tra i personaggi principali. Da notare che in entrambi casi a pagare il prezzo più alto è un personaggio secondario che, in pratica, passava per caso di lì. E poi anche Maps to the stars di David Cronenberg, anche in quel caso niente investigatori e maggior focalizzazione sui temi principali, ovvero di come i figli si possano trovare ingabbiati in comportamenti deviati che si trovano ad ever ereditato dai genitori, e sulla spettacolarizzazione della vita.

Il navigatore

Essere l'erede di una fortuna non ha fatto bene a Rollo (Buster Keaton), ingabbiato in una esistenza dorata ma vuota. Un giorno guarda fuori da una finestra e vede una coppia appena sposata (dettaglio strano, sono di colore, e negli anni venti se non eri bianco, possibilmente di origine inglese, non avevi una gran visibilità sulle pellicole made in Hollywood, se non come buffo o cattivo, vedasi anche il finale di questo film) che sembra molto felice. Decide dunque di sposarsi anche lui. Unica candidata che gli viene in mente è Betsy (Kathryn McGuire), che ha il suo medesimo status sociale, probabilmente l'unica donna di sua conoscenza che potrebbe fare al caso suo.

All'oscuro di come funzionano le cose nel mondo reale, Rollo assume che Betsy accetterà senza indugi la sua proposta di matrimonio, e compra i biglietti per una luna di miele in nave ancor prima di comunicare le sue intenzioni alla sua amata. La quale ovviamente gli dice di no. Magari anche solo per verificare quanto Rollo fosse realmente interessato. Fatto è che si tratta probabilmente del primo no che Rollo sente da tempo immemorabile, e il nostro non sa proprio come reagire. Finisce per decidere di farsi da solo la luna di miele senza moglie.

Una serie di bizzarre circostanze fa sì che Rollo e Betsy si trovino da soli su di una nave da crociera, The navigator (da cui il titolo), lasciata alla deriva. I due dovranno ingegnarsi per sopravvivere in un ambiente pieno di risorse ma senza servitori. Non è chiaro se l'avventura faccia maturare i due protagonisti, però almeno viene mostrata una loro evoluzione. Inizialmente incapaci di fare alcunché, alla fine li troveremo, sempre pasticcioni, ma inventivi.

Uno dei migliori film di Keaton. Peccato solo per il pre-finale dove i nostri due incontrano una popolazione indigena di presunti cannibali che potrebbe reggere solo in una barzelletta.

La palla n° 13 - Calma, signori miei!

Il catastrofico risultato delle proiezioni in anteprima spinse a tagliare la pellicola fino alle dimensioni con cui la conosciamo oggi, circa tre quarti d'ora. Ohimè.

Un timido e gentile proiezionista (Buster Keaton) coltiva il sogno di diventare detective, da cui il titolo originale Scherlock Jr., e finisce per far male entrambe le cose. E' anche innamorato di una bella fanciulla, in competizione con un brutto ceffo che non si fa problemi a rubare l'orologio del padre di Lei per fare alla figlia un regalo che lo metta in buona luce, e che inoltre fa in modo di far ricadere la colpa della malefatta sul nostro eroe.

Tornato al lavoro, si assopisce al proiettore mentre sullo schermo va un polpettone tra il mystery e il romantico d'alta classe. E qui il suo subconscio lascia il suo corpo per entrare nella pellicola. Trasformatosi in un dandy investigatore, dopo svariate fantasmagoriche trovate e peripezie - spettacolare la folle corsa in motocicletta seduto sul manubrio - risolve un caso che ricorda molto la sua vicenda.

Nel frattempo Lei risolve il caso reale, e lo va a trovare al cinema per spiegargli l'accaduto. L'estrema timidezza di Lui rischierebbe di rovinare il finale, ma per fortuna il finale del film nel film gli suggerisce come comportarsi, anche se gli rimane qualche perplessità sul quello che ne consegue.

Il deplorevole risultato economico credo sia da imputare alla modernità del racconto, decisamente in anticipo sui tempi. Pensare al sogno come rielaborazione dei fatti vissuti è una cosa che pare normale a noi. Cento anni fa non veniva così spontaneo e non credo che nessun altro l'abbia messo sullo schermo. Inoltre, si noti come Lei non sia in passiva attesa che Lui risolva il problema, ma si dia da fare in prima persona, dimostrandosi all'altezza della situazione.

La legge dell'ospitalità - Accidenti, che ospitalità!

Anche questo film di Buster Keaton è noto da noi con due nomi, a fronte dell'originale che in questo caso è Our hospitality. Stesso anno di The three ages, mostra una decisa evoluzione rispetto alla comica in due rulli. Qui la sceneggiatura è più corposa, i personaggi non sono semplici macchiette intercambiabili, ma seguono uno sviluppo ben preciso. Il risultato comico, però, paga pegno di questa impostazione più solida ma non ancora ben definita. Insomma, ho riso meno.

Si racconta di una faida ottocentesca in una piccola cittadina tra i monti, a poca distanza da New York. Da tempo immemorabile i Canfield e i McKay si ammazzano a vicenda. Per salvare l'ultimo erede dei McKay, Willie, la madre si trasferisce in città (anche se il termine è eccessivo, nella pellicola si ride del vertiginoso sviluppo newyorkese mostrando come un secolo prima anche la Broadway non fosse altro che una fangosa pista nella campagna) col pargolo. Passano un paio di decenni, e Willie è diventato un giovanotto (Keaton) a cui un avvocato scrive per comunicargli che è diventato erede della tenuta dei McKay.

Willie dunque parte, su di un ridicolo treno che viaggia così lentamente che il cane di Willie arriva a destinazione prima del padrone. Il viaggio si velocizza solo quando la locomotiva (chiamata Rocket) si stacca, e dunque le carrozze possono finalmente procedere più liberamente verso la loro meta. Il lato positivo del viaggio è che Willie incontra una leggiadra fanciulla (Natalie Talmadge al suo ultimo ruolo, aveva sposato Keaton da un paio d'anni) e i due si piacciono quasi immediatamente. Solo più avanti avremo la conferma della coincidenza che sembra quasi naturale, ovvero che si tratta di una Canfield.

Un po' come in Romeo e Giulietta, babbo Canfield e i due fratelli di Lei non saranno per niente contenti, e Willie dovrà faticare e rischiare parecchio prima di riuscire a sposare la sua bella.

Senti, amore mio - L'amore attraverso i secoli

Più noto in Italia con il primo titolo, che come spesso accade è abbastanza indifendibile, quando in originale era The three ages, illustrando più chiaramente quello che è lo scopo del racconto, ovvero mostrare, in modo molto scherzoso, come nulla sia cambiato nella psicologia umana, dalla preistoria ai nostri tempi (nell'ultimo secolo non è poi cambiato molto). Tranne alcuni piccoli particolari.

Curiosamente la stessa coppia di titoli è usata per un film ad episodi degli anni sessanta, firmato tra gli altri da Jean-Luc Godard e Mauro Bolognini. Lì il titolo originale era il ben più esplicito Le plus vieux métier du monde.

Buster Keaton, che già si era fatto un nome solido grazie alle precedenti comiche in due rulli, passa con questo titolo ai lungometraggi (aveva già partecipato a Lo sciocco - The saphead, ma solo come attore), iniziando una serie strepitosa che lo consacrerà come tra i maggiori geni comici del secolo scorso.

La stessa vicenda viene ripercorsa in tre periodi storici, l'età della pietra, la Roma imperiale, Los Angeles anni venti. Lui (Keaton) ama Lei, però l'Altro (Wallace Beery) sembra ai genitori di Lei un miglior partito. Lui non desiste, nonostante l'Altro sia in una posizione di forza e ne abusi per eliminare il concorrente. Fortuna e ingegno aiutano Lui, che alla fine vincerà la partita.

Trama piuttosto esile, dunque. Ma che viene ravvivata dal montaggio alternato tra le diverse epoche, e da strabilianti trovate che riescono far ridere ancora oggi. Interessante il parallelo con Preferisco l'ascensore, stesso anno, che ebbe allora molto più successo ma che oggi è quasi inguardabile.

Preferisco l'ascensore

Credo sia l'unico film di Harold Lloyd che è rimasto nell'immaginario collettivo (Safety last! in originale, come dire Non ci importa della sicurezza), e solo per la scena in cui Il ragazzo, così è indicato nei titoli, resta appeso alla lancetta dei minuti di un orologio appeso al muro del palazzo su cui si sta arrampicando. Meglio così, perché il resto della pellicola è decisamente dimenticabile.

Eppure ai tempi Lloyd era tra i più fortunati attori comici americani, paragonabile a Charlie Chaplin e Buster Keaton. Dei quali aveva evidentemente assorbito l'influenza, in particolare del primo, di cui sembra a tratti la copia. La comicità espressa è puro slapstick, e per sonoro basta la musica di accompagnamento, le parole non sono essenziali, neanche in forma dei classici pannelli che riportano i dialoghi principali. Se nelle comiche di Keaton e Chaplin si percepisce il genio, per Lloyd mi sembra di vedere solo il frutto di studio e feroce applicazione. Come se Lloyd, non brillantissimo, si fosse messo in mente di ottenere comunque un risultato eccellente.

Harold lascia il paese natio per la grande città (Los Angeles) in cerca di fortuna. Lascia la madre e la fidanzata (Mildred Davis, i due erano coppia fissa anche nella vita) con l'accordo che lei lo raggiungerà quando lui avrà fatto successo. La brutale franchezza con cui lei lo avverte che non potrebbe tollerare una sua sconfitta, spinge lui a mentire, millantando una sua prodigiosa crescita sul lavoro, dove invece è un venditore qualunque. I fantasiosi racconti della vita di città spingono lei a recarsi di sorpresa a trovarlo, temendo che qualcun altra glielo soffi, visto che è diventato un buon partito.

Per non deluderla, lui escogita un piano che dovrebbe riempirgli le tasche e permettere quindi il matrimonio. Le cose non vanno esattamente come aveva immaginato, e per raddrizzare la situazione si vede costretto ad arrampicarsi su di un palazzo, trovandosi a combattere i numerosi e improbabili fastidi che lo disturbano nella scalata.

Il personaggio tipico di Lloyd era una rappresentazione dell'americano medio, piccola borghesia, bianco, protestante, di origini inglesi. Quello che in genere si indica con l'acronimo Wasp. Belloccio, senza particolari tratti distintivi, si dotò di occhiali tondi per essere in qualche modo riconoscibile, e venne per questo noto con il nomignolo di "occhialuto" (glasses). Decisamente imbarazzante il modo in cui il film si fa beffe di neri ed ebrei, che evidentemente non erano nel target del pubblico per cui era pensata la pellicola.

The rover

Eric (Guy Pearce) è il protagonista e ha tutta l'apparenza di un vagabondo. Il che spiega il titolo scelto da David Michôd per il suo secondo lungometraggio. Per capire come mai sia così attaccato alla sua macchina dovremmo invece aspettare l'ultima scena, che diventa fondamentale per dare il senso al film. Un po' come per The artist. Lo spettatore mantenga la sua calma e attenzione, se non vuole uscire dal cinema con l'impressione di aver seguito l'avventura di uno sciroccato.

Non che Eric sia del tutto a posto con la testa, ma un certo grado di insensatezza è ben ammissibile in un mondo in cui nulla sembra più avere senso. La storia è ambientata in un possibile futuro prossimo, nell'outback australiano, il che crea un ovvio legame con Mad Max, non lasciamoci però distrarre, che la parentela tra le due vicende è puramente incidentale. Qui a creare il crollo della società sembra essere stata una crisi economica di immani proporzioni. L'Australia sembra si sostenga sull'estrazione di minerali, che però pare essere controllata dalla Cina. Forse c'è un residuo di civiltà nelle grandi città sulla costa, nell'interno vale invece la legge della giungla (o del Far West), e nemmeno l'omicidio è considerato crimine particolarmente efferato, se non dà troppo fastidio.

La scintilla che fa partire il racconto è l'incontro fortuito tra Eric e una banda di delinquenti, guidati da Henry (Scoot McNairy), in fuga dopo un colpo. Nella fretta del momento, costoro scambiano il loro pick-up con la macchina Eric, facendo sì che questi si svegli dal suo torpore e parta per una violenta e incomprensibile (almeno fino al finale) caccia per recuperare il maltolto.

Ad aiutarlo interverrà Rey (Robert Pattinson), fratello stonato di Henry che era stato data per morto e lasciato indietro dai compari. Inizialmente trattato da Eric come un mero espediente per raggiungere Henry, tra i due nascerà una forma, se non di amicizia, di mutua collaborazione e accettazione. Almeno fino alla catastrofe finale.

Maps to the stars

David Cronenberg avrebbe voluto dirigere questa sceneggiatura di Bruce Wagner già qualche anno fa, tra La promessa dell'assassino e A dangerous method. Ma la storia aveva fatto sollevare più di un sopracciglio agli investitori, e non se ne era fatto nulla. Si è dovuto aspettare che Wagner la convertisse in un romanzo, Dead stars (2012), e che questo, ottenendo un buon successo, permettesse di sbloccare il progetto. Investire i propri soldi in un film di Cronenberg non deve essere cosa per animi (e portafogli) delicati. Nonostante si tratti uno di quei registi che non fa certo fatica a trovare grossi nomi da piazzare nel cast, il suo scarso interesse nel rendere vendibile la pellicola rende difficile anche il cammino distributivo del film. Ad esempio, Maps to the stars non è stato uscito negli USA, quando ormai ha già fatto il giro del mondo.

In questo caso il racconto si centra su una famiglia parecchio disfuzionale, i Weiss, che vivono e lavorano a Hollywood. Stafford (John Cusack), è uno psicologo/personal trainer/santone di gran successo, sposato con Christina (Olivia Williams) ha un figlio, Benjie (Evan Bird) star cinematografica minorenne.

Tra i clienti di Stafford spicca Havana Segrand (Julianne Moore), attrice dal glorioso passato che però sembra in declino, anche, e forse soprattutto, per il rapporto con la madre, morta da tempo, ma con cui lei non è riuscita a chiudere i conti. Una cosa che la fa impazzire (letteralmente) è che la madre è rimasta giovane (Sarah Gadon), continua a rivederla nei suoi vecchi film, e se la fa apparire nei momenti più impensati per subirne anche adesso le sue reprimende.

L'equilibrio è già molto precario, e ci penserà il ritorno a Los Angeles di Agatha (Mia Wasikowska), figlia dei Weiss, a scardinarlo del tutto. Scacciata dalla famiglia per quello che ha combinato anni prima (ancora bambina, ora è appena maggiorenne), si trova un lavoro come assistente personale di Havana (in originale viene usato il termine informale chore whore, realmente utilizzato per descrivere il ruolo in quel mondo, e tanto basti per qualificarlo), e fa amicizia con l'autista di limousine (Robert Pattinson) che la scarrozza per Holliwood il giorno del suo arrivo. Il suo scopo sembra essere quello di ricucire i legami con la famiglia, ma pare chiaro che abbia pronto sin dall'inizio un piano B.

Lo squallore che permea dalle vite dei personaggi principali lascia senza parole. Basti ricordare la scena in cui Havana rimbalza da uno stato depressivo ad una gioia infantile quando scopre che avrà il ruolo che aveva tanto agognato, grazie al fatto che alla sua concorrente è morto il figlio di pochi anni, annegato nella piscina.

Se il bersaglio immediato del film è Hollywood e il relativo star system, è evidente come non sia altro che uno specchio, che distorce e magnifica lo stile di vita della nostra società.

Magic in the moonlight

Alles Schwindel, canta Ute Lemper in persona ancora nelle prime fasi del film, quando l'azione, è ancora a Berlino, prima di muoversi nel sud della Francia, dopo aver fatto una rapida puntatina a Londra. Tutto è truffa dunque. O, per dirla con Boito e Verdi nel Falstaff, Tutto nel mondo è burla.

Siamo negli anni venti e la storia ce la racconta Woody Allen. Entrambi i fattori sono ben marcati, conviene quindi che chi abbia problemi con la Weltanschauung alleniana e del periodo non perda il suo tempo con questa pellicola. Si noti anche che è del 2014, e che Allen difficilmente si ripete. Dunque non ci si aspetti un bis rispetto a Blue Jasmine, Midnight in Paris, o ad qualche suo titolo del secolo scorso. In questo caso, i toni sono da commedia, ma si ride poco, il lato romantico è solo accennato (colpa del carattere del protagonista, tetragono ai sentimenti), e il ragionamento punta tutto al filosofico.

Svariati i riferimenti e le citazioni in ambito culturale. Restando sul cinematografico, abbondano i riferimenti ad Hitchcock. Come non pensare a Caccia al ladro quando Stanley (Colin Firth) e Sophie (Emma Stone) girano, su una stupenda Alfa Romeo 6C 1750 d'epoca, sulle belle e tortuose strade della Costa Azzurra? E c'è pure un po' di Vertigo, anche se non posso dire in che senso, per non spoilerare troppo. Dato il periodo, ci sta anche il riferimento a Il grande Gatsby, in particolare per la grandiosa festa con gran spreco di abiti e gioielli in stile.

La storia in breve. Stanley è un perfetto gentleman inglese, famoso in tutto il mondo come Wei Ling Soo, illusionista apparentemente cinese capace di far scomparire un elefante sotto gli occhi del pubblico pagante. Inoltre, da buon razionalista quale egli è, ha l'hobby di smascherare le chiaroveggenti (uso il femminile perché era attività tipicamente, ma non esclusivamente, appannaggio del gentil sesso). Cosa che gli riesce molto facile, visto che, sostanzialmente, operano con gli stessi strumenti.

Howard, suo collega e amico (Simon McBurney), gli chiede aiuto per smascherare Sophie che è stata presa a ben volere da una ricca famiglia americana alla quale offre i suoi servigi, e di cui il rampollo si è perdutamente innamorato. Stanley nicchia, ma Howard riesce facilmente a vincere le sue perplessità, facendo leva sul narcisismo e la curiosità del suo amico.

Pur sembrando ovvio che Sophie stia recitando (e pure male) la sua parte di chiaroveggente, con di fianco una madre (Marcia Gay Harden) evidentemente interessata al modo di estrarre più soldi possibile per mezzo della figlia, Stanley non riesce a scoprire alcun trucco. Nonostante questo, o forse proprio per questo, tra i due sembra nascere una passione. Anche se è difficile riuscire ad intravvederlo nel comportamento di Stanley, vecchio trombone che ha speso una vita a nascondere la sua sensibilità dietro un massiccio scudo di razionalità.

Per fortuna Stanley ha una zia (Eileen Atkins) a cui è molto legato che vive in Provenza e che ha i suoi modi per penetrare la scorza del suo amato nipote. Strepitoso sarà il duetto tra i due nel pre-finale, in cui lei, praticamente senza dir nulla, riuscirà a far dire tutto da lui.

Apes revolution - Il pianeta delle scimmie

Fortunato seguito, almeno al botteghino, del reboot del 2011, ha a suo vantaggio una buona regia (Matt Reeves) che riesce a coniugare agilmente gli effetti speciali, che ovviamente spadroneggiano, con una trama che, facendo i dovuti distinguo, in certe parti potrebbe essere quasi definita shakespeariana. Oltre che il solito strepitoso Andy Serkis che si conferma un mago nel riuscire a far passare la sua mimica facciale dalla digitalizzazione senza perdere espressività.

Prodigi del cinema, i tre anni reali che sono passati dal primo episodio diventano dieci nella finzione, cosicchè dovremmo essere nel 2020 circa. Nel frattempo l'umanità è stata strapazzata alla Contagion dal virus narrato in precedenza, ed è ridotta ad una esistenza post-catastrofista alla Mad Max, Resident evil, Codice: Genesi, roba così.

Una piccola comunità ha trovato a San Francisco la sua stabilità sotto la guida di Dreyfus (Gary Oldman), che per le faccende più avventurose cede volentieri il controllo a Malcolm (Jason Clarke). Il problema del momento di costoro è che hanno bisogno di elettricità, dunque Malcom mette assieme una piccola spedizione e vanno all'interno alla ricerca di una centrale idroelettrica che farebbe al caso loro. In questo modo si giunge al contatto con la comunità delle scimmie (le altre scimmie intendo, quelle pelose), scappate in precedenza dalla "civiltà", e che si stanno creando una loro società.

Cesare (Serkis) ha già la sua bella serie di problemi. In particolare il rapporto col figlio, schiacciato dalla debordante personalità paterna, e quello con Koba, luogotenente che scalpita nel suo ruolo troppo limitato per le sue ambizioni. Il contatto con i "diversi" causa notevoli frizioni in entrambe le comunità. La sceneggiatura indaga meno sugli umani, che comunque hanno un comportamento speculare, e più sulle scimmie più comunemente dette. Koba si comporta seguendo il manuale del buon vice che pensa che il suo capo si sia rammollito, ed imbastisce quindi una sua trama per mettere le cose a posto.

Segue parapiglia generale, con umani e scimmie che si dividono in fazioni e si alleano o scontrano, secondo i gusti, con gli altri.

Divertente il ribaltamento di punti di vista, seguendo il quale sono ora le super-scimmie di Cesare in cima all'albero evolutivo, e dunque dimostrare umanità (nel senso degli aspetti più deteriori associati alla nostra specie) viene considerato come un dimostrarsi di livello inferiore. Ovviamente, il presupposto stesso seguito dalla sceneggiatura, è estremamente datato dal punto di vista scientifico. Roba che si poteva pensare nel tardo settecento. Succedesse qualcosa del genere nel mondo reale, difficilmente Cesare e i suoi seguirebbero la stessa via percorsa dagli umani, si creerebbero piuttosto un loro proprio modello di società e cultura completamente diverso dal nostro.

A parte questo, per quel che mi riguarda, il principale difetto della sceneggiatura è che mena il can per l'aia. Un po' come si era già fatto nel primo capitolo, si lasciano quante più porte possibili aperte. Lo scopo principale sembra essere quello di lasciare quanta più libertà possibile a chi scriverà il prossimo episodio. Ad esempio, pare che si sia sull'orlo di un epico scontro tra umani e (altre) scimmie. Però magari non è vero, visto che ci è stato detto che sono in arrivo dei militari, ma non abbiamo nessun riscontro diretto in materia. Magari ci hanno mentito (ci starebbe, motivi tattici), magari la guarnigione è limitata a tre guardie forestali. E che farà Cesare? Si è convinto che aveva ragione Koba, dopotutto, O che Koba ha incasinato a tal punto la situazione che l'unica via percorribile rimasta è quella? Tutte cose che staranno decidendo gli sceneggiatori adesso.

Si alza il vento

Storia di forti contrasti, come si allude già nel titolo, tratto da Le cimetière marin di Paul Valéry:

Le vent se lève! ... il faut tenter de vivre!

Racconta la vita di Jirō Horikoshi che, sin da ragazzino aveva la passione dominante del volo. Impara l'inglese per poter leggere le riviste specializzate, e di notte fa sogni tra il magnifico e l'inquietante di aerei che vorrebbe pilotare. Ahimé, la sua miopia sembra precludergli ogni possibilità. Succede però che gli appaia in sogno il conte Caproni, suo idolo, che lo convince di quanto progettare aerei sia ancora meglio che pilotarli, in quanto il progettista traduce il sogno di volare in realtà.

Anni dopo, Jirō sta andando in treno a Tokio per studiare ingegneria aeronautica. Un colpo di vento gli fa incontrare una simpatica ragazzina, Nahoko Satomi, e un tremendo terremoto li avvicinerà ancor di più per un momento, per poi allontanarli. Jirō si getta quindi a capofitto nello studio e, dopo la laurea, otterrà un lavoro per la Mitsubishi, dove cresce rapidamente nella considerazione dei suoi capi, al punto di essere assegnato ad una missione in Germania, dove avrà modo di incontrare, seppure a distanza, un altro nome mitico dell'aviazione, Hugo Junkers, pioniere nell'uso del metallo in un periodo in cui gli aerei erano di legno e tela.

Tornato in azienda, gli viene assegnata la progettazione del suo primo aereo, che Jirō trasforma in una palestra di moderna ingegneria aeronautica. Monoplano imbarcato ad ala bassa in metallo, cose che ai tempi in Giappone neanche si sognavano. Una sfida troppo impegnativa per i fornitori della componentistica, e il risultato fu catastrofico.

Per riprendersi dalla sconforto, Jirō si prende una breve vacanza in un albergo di montagna, in stile La montagna incantata di Thomas Mann, al punto che vi incontrarà pure un tedesco che dirà proprio di chiamarsi Hans Castorp. Ma soprattutto Nahoko, ormai sbocciata in una bella giovin donna, che però è lì in quanto colpita da tubercolosi.

Il nuovo progetto che gli viene assegnato viene preso da Jirō con l'intenzione di superare il suo primo progetto. Il problema principale che avevano gli aerei giapponesi era la scarsa potenza dei motori, e dunque Jirō punta tutto nell'alleggerimento di tutto l'alleggeribile, rinunciando anche al carrello retrattile per ottenere l'obiettivo. Nel frattempo Jirō e Nahoko restano in contatto, ma la malattia di Nahoko peggiora, al punto che lei viene costretta a recarsi in un sanatorio per cercare di migliorare. Poi, non si capisce bene, forse Nahoko si rende conto che le sue possibilità di guarire sono minime, decide di tornare a Tokio, anche solo per vedere il suo Jirō un'ultima volta.

I due decidono di restare assieme, il che sarebbe uno scandalo secondo la morale corrente, e dunque viene rapidamente organizzato un matrimonio casalingo tenero e straziante al tempo stesso, che permette a loro di accedere ad uno scampolo di vita in comune, anche se entrambi sanno che possono solo contare i giorni.

Jirō continua a lavorare al suo aereo, finché arriva il giorno del collaudo. Il prototipo si dimostra essere una meraviglia, elegante, stabile, maneggevole, velocissimo. Jirō sta seguendo le prove con grande attenzione, ma ad un certo punto qualcosa lo distrae, il suo sguardo si stacca dal suo aereo e si perde in lontananza.

Ultimo film di Hayao Miyazaki, riesce nell'impresa impossibile di mettere al centro di una storia romantica nel senso classico del termine un ingegnere aeronautico, accostando così questioni d'amore e discussioni su viti svasate, materiali estrusi, sezioni di lische di pesce. La figura del protagonista, poi, è ancora oggi estremamente discussa, essendo stato anche il padre del mitico Zero, il caccia che è stato la spina dorsale dell'aviazione militare giapponese nella seconda guerra mondiale. Fa un po' da metafora a tutta la storia del Giappone di quel periodo.

Nick Cave - 20.000 days on Earth

Pare che Nick Cave fosse restio a dare l'OK a documentari sulla sua ormai piuttosto lunga carriera musicale, finché Iain Forsyth e Jane Pollard gli hanno proposto questo bizzarro progetto in cui non si capisce bene cosa sia reale e cosa sia vero. Si finge di seguire la ventimillesima giornata sulla Terra di Nick Cave, narrandola come se lui stesso e tutti quelli che gli stanno attorno fossero interpretati da attori e non da essi stessi medesimi.

Gran parte del tempo Nick Cave parla di sé usando vari artifici, il voice over, una seduta dallo psicanalista, chiacchiere con i Bad Seeds mentre provano le canzoni del nuovo album, e pure con persone che sono state parte del suo passato e che vengono evocate come per magia mentre gira in macchina (tra cui Kylie Minogue).

Viene data anche una ricetta su come scrivere una canzone, sotto forma di metafora. Con me non ha funzionato, ma la riporto qui sperando che a qualcuno possa tornare utile. Metti in una stanza un bambino e uno psicopatico mongolo, e aspetti di vedere quel che succede. Poi mandi dentro un pagliaccio su di un triciclo, e torni ad aspettare. Se non basta, spari al pagliaccio.

Come è facile immaginare, i momenti migliori sono quelli dove Nick Cave suona e canta. Sia quando lo fa sul serio, eccellente l'esecuzione nel finale di Jubilee street dal vivo all'Opera House di Sydney, sia quando è più sullo scherzoso, come quando all'inizio sta provando una canzone che improvvisamente diventa una variante di All night long di Lionel Ritche.

S.O.S. Summer of Sam - Panico a New York

Forse l'eccessiva lunghezza della pellicola è dovuta al fatto che inizialmente la storia (Michael Imperioli e Victor Colicchio) avrebbe dovuto avere al centro Richie (Adrien Brody), ma nel corso dello riprese Spike Lee ha voluto approfondire il personaggio di Vinny (John Leguizamo), fino al punto da far diventare lui il protagonista.

Il lato curioso è che titolo e battage pubblicitario era tutto su Dave Berkowitz (Michael Badalucco) meglio noto come Son of Sam, o anche solo Sam, che invece è trattato di sfuggita, quasi solo come per mettere dei punti fermi alla narrazione principale.

Il Berkowitz è quel tale che realmente sul finire degli anni '70 si è messo a sparare con una calibro 44 contro coppiette e donne singole, finendo per totalizzare sei omicidi e sette ferimenti in un annetto di attività. Che, per le statistiche della delinquenza americana, è davvero poca roba. Soprattutto in quei tempi e a New York. Per qualche strano motivo, però, il serial killer attizza molto la fantasia popolare, finisce sulle prime pagine dei giornali, e dunque ottiene un impegno della polizia superiore ai casi "normali" che non hanno altrettanta visibilità mediatica.

Ben poco ci viene detto di lui nel film, si dà spazio solo alla versione dello stesso Berkowitz (poi ritrattata) secondo cui uccideva perché succube del labrador di un vicino, a sua volta posseduto da una presenza demoniaca. Più probabile che i suoi problemi fossero altri, ma evidentemente il figlio di Sam li riteneva ancor più disdicevoli.

Si parla invece di Vinny, tamarrissimo parrucchiere italo-americano, e dei suoi amici tutti della stessa etnia. Già, perché è il primo film di Spike Lee che non riguarda gli afro-americani newyorkesi, ma evidentemente il nostro non se la sentiva ancora di mettere da parte la tematica dei rapporti intracomunitari di quello strano posto che è New York, e ha semplicemente cambiato gruppo di riferimento.

Vinny è sposato con Dionna (Mira Sorvino) ma, pur amandola sinceramente, la tradisce in continuazione. Subito all'inizio la lascia sola in discoteca (puro stile Febbre del sabato sera) per accompagnare a casa, e fare altro, la di lei cugina (Lucia Grillo). Il suo problema è che gli piace molto il sesso, ma gli hanno insegnato che tra moglie e marito va fatto in modo "pulito", e dunque estremamente noioso. Per divertirsi ci sono le altre.

Il suo migliore amico è Richie, anche lui personaggio peculiare. Ha appena avuto una svolta punk, che accoppia ad un improbabile accento inglese. Ha un approccio piuttosto confuso con la sua sessualità, che vede come modo di incassare soldi in attesa di sfondare sulla scena musicale. La sua amicizia con Ruby (Jennifer Esposito), mezza sorella di Vinny, si trasforma in qualcosa di più profondo, nonostante (o forse proprio perché) anche lei sia malvista nel vicinato per la sua esuberanza.

Questo equilibrio precario viene fatto saltare, per l'appunto, dal killer della 44. La polizia pensa che Sam possa essere un italo-americano che viva nel quartiere dove colpisce (tutto sbagliato) e per mezzo di un detective (Anthony LaPaglia) chiedono la collaborazione del boss mafioso locale, Luigi (Ben Gazzara). Questi, a sua volta, gira la richiesta ai suoi picciotti, tra cui gli amici di Vinny, gente dal quoziente intellettuale piuttosto basso, senza contare gli effetti che droghe e alcolici hanno sul loro raziocinio. Costoro seguiranno una pista più balorda dell'altra, prima di convincersi che sia Richie, così diverso da loro, chi stanno cercando.

Vorranno dunque usare Vinny, che nel frattempo sta mandando a catafascio il suo matrimonio, come esca per catturare Richie e portarlo da Luigi.

A parte l'arresto di Berkowitz, manca una conclusione definita alla storia. Forse Vinny, dopo aver toccato il fondo, riuscirà a trovare un nuovo equilibrio. Forse Richie avrà modo di crearsi una nuova vita con Ruby. Ma chissà.

Nosferatu il vampiro

La scelta di appiattire il titolo originale, Nosferatu eine Symphonie des Grauens (una sinfonia del terrore), forse aveva lo scopo di chiarire che il Nosferatu, non-morto, del titolo è proprio il Dracula di Bram Stoker. Precisazione del tutto inutile, dato che solo in tempi relativamente recenti (vedi il Dracula di Francis Ford Coppola, 1992) l'immaginario collettivo ha rispolverato il romanzo originale, che era stato messo in ombra per decenni dalla potenza visuale di questa versione cinematografica di Friedrich Wilhelm Murnau.

Magari è stato proprio il timore di vedere l'opera del fu marito ricordata in una versione alternativa a spingere la vedova Stoker ad opporsi all'idea di Albin Grau di metterlo su pellicola, prodotto dalla sua Prana Film. Dovevano essere entrambi molto cocciuti, visto che Grau decise comunque di proseguire, semplicemente indicando allo sceneggiatore, Henrik Galeen, di cambiare un po' di nomi. E infatti abbiamo che il conte non è più Dracula ma Orlok. Gli altri cambiamenti nella storia, a partire dall'incompatibilità tra sole e vampiri, assente nella versione di Stoker, sono invece propri del team Grau-Galeen-Murnau, che avevano le proprie idee da veicolare con questo racconto.

La cocciutaggine della vedova Stoker la portò invece a far causa alla Prana Film, vincendola e ottenendo un rimborso principesco per violazione dei diritti d'autore che portò al tracollo la piccola casa di produzione tedesca. Non contenta, ottenne pure che tutte le copie del film venissero distrutte. Fortunatamente qualche pizza si salvò, e così oggi possiamo vedere qualcosa di abbastanza simile alla versione originale del '22. Esistono numerose versioni di Nosferatu, ed è praticamente impossibile dire quale sia la "migliore". La prima che vidi, qualche decennio fa, durava circa un'ora e non aveva alcun accompagnamento sonoro. Questa mia ultima visione raggiunge l'ora e mezza ed è dotata di una colonna sonora basata, per quanto possibile, sugli spartiti originali di Hans Erdmann.

La storia viene narrata seguendo prevalentemente il punto di vista di Hutter (Gustav von Wangenheim), un giovanottone non troppo brillante, sposato alla molto sensibile Ellen (Greta Schröder). Lavora per l'inquietante immobiliarista Knock (Alexander Granach, che poi sarà uno dei tre commissari russi a Parigi a fianco di Ninotchka), al quale i furbetti del quartierino gli farebbero un baffo. Costui ha infatti uno scambio epistolare con il conte Orlok (Max Schreck, nome vero, nonostante che in italiano suoni come Massimo Spavento) e questi gli ha appena comunicato, usando una lingua arcana, che intende trasferirsi dal suo castello in Transilvania alle sue parti (Wisborg, località inesistente nel nord della Germania). Hutter viene incaricato di andare dal cliente per sottoporgli alcuni possibili acquisti.

Nonostante l'apprensione di Ellen, Hutter parte felice per il lungo viaggio. Riderà pure delle perplessità dei paesani vicine del conte. Meno giulivo sarà quando giungerà al suo castello e avrà modo di passare qualche tempo in sua compagnia.

Orlok si pasce di Hutter, anche se non riesce a completare il suo fiero pasto a causa dell'intromissione di Ellen, che in qualche modo riesce a stabilire un contatto psichico col vampiro e allontanarlo dalla sua vittima.

La mezza sconfitta non distoglie Orlok dai suoi piani. Abbandona il suo castello e, portandosi in una mezza dozzine di bare un po' di terra maledetta, contaminata, e piena di topi, si mette in viaggio verso la sua nuova residenza. Approfitta dell'occasione anche per diffondere un morbo lungo il suo passaggio e succhiarsi l'intero equipaggio della nave su cui viene trasportato.

Nel frattempo, a Wisborg Knock non regge alla tensione che gli causa l'avvicinarsi del Maestro, e dà fuori di matto. Anche Ellen patisce per lo stesso motivo, pur essendo, diversamente da Knock, combattuta tra repulsione ed attrazione per "l'uccello della morte".

Hutter recupera a malapena le forze e riesce a giungere a Wisborg assieme al conte. E qui si scatena la battaglia finale attorno ad Ellen, alla quale parteciperebbe pure un uomo di scienza, quello che nell'originale stokeriano sarebbe Van Helsing, se non che il suo contributo risulterà essere del tutto trascurabile.

Nonostante trucco e effetti speciali molto datati, Orlok è estremamente impressionante. In effetti la scena più paurosa è quella dove non si vede nemmeno il personaggio, ma solo la sua ombra, sgraziata e distorta, che avanza nella notte verso la sua vittima.

Le differenze con il racconto originale sono sostanziali, riducendo la struttura all'osso ma dandole contemporaneamente una complessità maggiore, e usando i temi gotici trattati da Stoker in maniera molto personale, tra occultismo, legami paranormali e approfondimenti psicologici di notevole interesse.

Intervista col vampiro

Nonostante il buon successo di pubblico, ai Razzie Award non passò inosservata la chimica molto scarsa tra i due protagonisti, che vennero premiati come peggior coppia sulla schermo dell'anno. Anni dopo Brad Pitt ammetterà che aveva subito il ruolo subordinato nei confronti di Tom Cruise che, pur avendo meno spazio, era la star del film. Cercò anche di uscire dal progetto, ma un blindatissimo contratto lo costrinse ad arrivare fino in fondo.

Credo però che il difetto principale stia nella sceneggiatura che Anne Rice ha tratto dal suo stesso romanzo con lo stesso titolo. Ad una prima parte dal passo molto lento, segue infatti una seconda parte in cui accade fin troppo, in cui vengono rapidamente introdotti e fatti sparire personaggi senza lasciar loro il modo di superare lo stato di semplice bozzetto.

Per quasi tutto il tempo sembra che si racconti la storia di Louis de Pointe du Lac (Brad Pitt) possidente creolo basato dalle parti di New Orleans, a partire da quando, sul finire del settecento, l'incontro con Lestat de Lioncourt (Tom Cruise) lo ha trasformato in un vampiro. Il tutto viene narrato in un lungo flashback da Luis al giornalista Daniel Malloy (Christian Slater), in una sorta di confessione/intervista. Solo alla fine scopriremo che il vero protagonista è Lestat, un imprevisto colpo di scena che però non mi sembri che cambi nulla nei confronti di quello che ci è stato detto.

Come da tradizione, il vampirismo serve da metafora per la relazione sessuale, sembrerebbe dunque che Louis e Lestat formino una coppia gay molto aperta, con Lestat estremamente promiscuo e Louis più bloccato. La cosa però viene notevolmente ingarbugliata con l'entrata in scena di Claudia (Kirsten Dunst), una bambina che viene anch'essa vampirizzata. Inizialmente pare che sia un artificio di Lestat per evitare la rottura della relazione con Louis, un po' come in certe coppie si pensa di fare un figlio per superare una crisi, però il legame tra Louis e Claudia si rafforza al punto da prendere una piega da disturbo mentale conclamato. Anche perché i vampiri della Rice hanno la curiosa particolarità di restare bloccati col loro sembiante al momento della "nascita". Succede così che Claudia, col passare dei decenni, resti bambina ma maturi una consapevolezza più adulta. Che del resto è resa spaventosamente bene dalla Dunst che, pur essendo ai tempi ancora una bambina, aveva già una certa carriera alle spalle e una maturità attoriale già notevole.

A semplificare (?) le cose ci avrebbe pensato l'incontro con Armand, vampiro che sembrerebbe francese ma è intrepretato dallo spagnolissimo Antonio Banderas, che si prende una cotta per Louis e cerca di rompere il malsano legame a suo vantaggio. Se avesse avuto pazienza, avrebbe potuto lasciare fare a Claudia che, in modo ancor più malato, decide di vampirizzare tal Madeleine (Domiziana Giordano, anche lei spacciata per francese) per lasciar libero Louis e trovarsi invece una madre adottiva (che però, proseguendo la metafora di base, è anche sua amante).

Ma, si sa, la gatta frettolosa fa i gattini ciechi. Qui invece è Armand che ha fretta, e fa sì che invece di guadagnarsi il bel Louis, resti con un pugno di mosche. Louis sceglierà una (non-)vita di solitudine, tornerà alla sua New Orleans e lì spenderà tristemente i suoi giorni, con l'unico diletto del cinema.

Tutto sommato mi è parso un pasticcio prodotto con lo scopo di scandalizzare, ma con moderazione. La cosa migliore mi è parsa la ricostruzione delle diverse epoche, affidata ai nostri Dante Ferretti e Francesca Lo Schiavo. Ah, c'è anche una piccolo spazio per Thandie Newton, che interpreta Yvette, servetta fedele di Louis, finché le è possibile.

22 Jump Street

Troppo difficile sostenere quasi due ore di commedia sul (quasi) niente, il giochino di prendersi in giro sul fatto che sia un sequel (di 21 Jump Street, ovviamente) è divertente ma tirato un po' troppo per il lungo, le gag à la Scuola di polizia sono fuori tempo massimo. Però, quando funziona, fa ridere davvero.

Squadra che vince non si cambia, e quindi tutti, regia (Phil Lord & Christopher Miller), sceneggiatura (Michael Bacall) e cast principale sono ancora tutti lì. E' arrivato qualcuno in più, in particolare Rodney Rothman (s'è fatto le ossa scrivendo per il David Letterman Show) nella scrittura, e Peter Stormare come nuovo cattivo da sconfiggere (con una sorpresa nel finale).

L'improbabile coppia di sbirri Schmidt (Jonah Hill) e Jenko (Channing Tatum), dopo aver clamorosamente fallito nell'arrestare Gost (Stormare), viene nuovamente assegnata alla squadra del capitano Dickson (Ice Cube), che ha cambiato sede, dall'altra parte della strada, dove tutto è più grosso e costoso, grazie al budget più elevato strappato alla produzione in seguito al successo del primo episodio - e ce lo dicono proprio i personaggi del film stesso.

Vengono quindi assegnati ad un caso fotocopia del precedente, però questa volta andranno in un college. Qui succederanno alcuni inghippi inattesi. Ad esempio il capitano s'era dimenticato di accennare al fatto che quello è proprio l'istituto che frequenta sua figlia Maya (Amber Stevens), il che gli darà modo di accrescere il dispetto nei confronti dei suoi due sottoposti.

Divertente il finale, quando viene raccontato in breve il futuro di Schmdt e Jenko, costretti dal sempre più arrabbiato Dickson ad una serie di missioni fotocopia, ognuna delle quali è ovviamente un ennesimo capitolo della saga Jump Street, fino a terminare con un 2121 Jump Street in cui i due verranno sparati nello spazio per vivere una loro personale odissea. Simpatiche le apparizioni a sorpresa di Anna Faris e Seth Rogen.

Lucy

Lucy (Scarlett Johansson), è una perdigiorno che piuttosto di lavorare ha preferito farsi pagare dai genitori un corso post-universitario a Taipei, Taiwan. Non la spaventa il non sapere una parola di cinese, scritto o parlato, e non perché sa dire in spagnolo che parla male quella lingua, ma perché spende il suo tempo in compagnia di altri occidentali che sono lì con lo scopo principale di divertirsi.

Non è però una ingenua, e così quando il tizio con cui esce da una settimanella le chiede di fare una consegna per conto suo, fiuta il pericolo e tenta di svicolare. Inutilmente. Viene così a conoscere un boss della delinquenza locale, Mr.Jang (il vecchio ragazzo Choi Min-sik), un tale che, fosse stato giapponese avrebbe potuto essere interpretato egregiamente da Takeshi Kitano, ama fare uso di violenza insensata (ma anche ascoltare Mozart) e sbarca il lunario gestendo un traffico di droga sintetica verso l'Occidente.

Convertita in corriere della droga, Lucy sarebbe destinata a tornare, seppur malconcia, a casa, se non fosse che un suo carceriere se ne avesse a male al di lei rifiuto di mostrarsi gentile causando, via una improbabile reazione chimica, la trasformazione della giovinetta sciocchina in una superdonna dagli immensi poteri ma dalla speranza di vita molto limitata. Un giorno o giù di lì.

Che fare in date circostanze? Lucy decide di contattare il professor Norman (Morgan Freeman) un luminare degli inesistenti e teorici studi su quello che sta capitando a lei, che insegna alla Sorbona. Organizza un incontro e parte, dopo aver sistemato alcune cosette. In particolare, rendendosi conto di aver bisogno di ingenti quantità della droga sintetizzata da Mr.Jang, fa in modo che il responsabile dell'antidroga francese, Pierre Del Rio (Amr Waked), arresti gli altri corrieri. Questo, ovviamente, fa uscire dai gangheri il suddetto Mr.Jang, anche perché, per estrargli le informazioni necessarie, Lucy si comporta da psicopatica almeno quanto avrebbe fatto lui e, oltre al danno la beffa, lo lascia pure in vita.

Ci si trova dunque tutti a Parigi e lì si scatena il pandemonio.

Per usare un eufemismo, non a tutti è piaciuto. E, in effetti, il regista-sceneggiatore Luc Besson (la produzione l'ha lasciata alla moglie, Virginie Silla) ha lasciato mano libera alla sua tendenza per l'eccesso e l'improbabile, senza curarsi troppo non dico della verosimiglianza, ma almeno della digeribilità di alcuni passaggi non secondari. In particolare, la faccenda che gli animali in genere, e gli umani in particolare, usino solo una minima parte del proprio cervello è una baggianata di proporzioni colossali.

Quel che è peggio, almeno dal mio punto di vista, è che molti tra coloro a cui è piaciuto film, hanno gradito proprio il mix di violenza, ipotesi insensate e l'adrenalina generata dalle scene di azione.

A me ha dato un po' fastidio che venga veicolata l'idea che un aumento delle facoltà intellettuali porti necessariamente ad un affievolimento delle capacità empatiche dell'individuo. Casomai penso che succeda il contrario, e che chi, per un motivo o per l'altro, abbia difficoltà a gestire il suo lato emotivo si rifugi nell'uso della ragione. Preferisco quindi l'evoluzione raccontata in Star Trek nella figura di Mr.Spock, che riesce a crescere quando scopre che la sfera affettiva non intacca quella razionale, bensì la completa.

Il riferimento principale di Lucy è verso 2001: Odissea nello spazio. Qui però non ci sono alieni, gli umani fanno tutto da soli. Si crea quindi un curioso paradosso teleologico in cui lo sviluppo della razionalità della nostra specie sarebbe stato finalizzato alla generazione di una Lucy capace di trascendere lo spazio e il tempo, in modo che possa dare la scossa evolutiva a partire dall'altra Lucy, l'Australopithecus afarensis correntemente considerato come il primo ominide di cui si abbia traccia, che generi la razza umana.

Meno necessario il riferimento a Limitless, se non per il motivo che anche lì si usa come motore della storia una droga che causa l'incremento delle capacità mentali. A vantaggio della versione bessoniana occorre notare che qui Lucy paga un prezzo esorbitante, e manco avrebbe voluto ottenere quei vantaggi, mentre là lo sforamento dei limiti naturali sembra essere solo un simpatico giochino che comunque si può tenere sotto controllo.

Stilisticamente, ma forse è solo un caso, m'è sembrato di notare una somiglianza in questa regia di Besson con l'impostazione tipica di Jaco Van Dormael. Vedasi ad esempio Mr.Nobody.

F come falso

Nel corso del film lo stesso Orson Welles accenna a come gli fosse difficile arrivare in fondo ad alcuni suoi progetti, perché nello scavare in una direzione spesso si trovano cose interessanti e inaspettate che stravolgono le idee originali.

In questo caso sembra che l'idea originale fosse quella di fare una specie di documentario su Elmyr de Hory, noto per aver riempito il mondo di falsi dipinti e disegni attribuiti a nomi come Matisse e Renoir. Già questo porta molto materiale su cui ragionare, a partire dal fatto che Elmyr (in realtà anche il suo nome era falso, si chiamava Elemer Albert Hoffmann) aveva guadagnato ben poco dalla sua attività, che aveva invece ingrassato galleristi, finendo per fare più comodo che danno al mercato dell'arte.

Ai tempi in cui Welles narra la storia, Elmyr si è ritirato ad Ibiza, non esercitava più, ed era diventato noto al mondo dopo che quello che ai tempi era uno scarso romanziere americano, Clifford Irving, aveva scritto un libro inchiesta su di lui. Fatto curioso, anche Clifford viveva ad Ibiza, e i due erano in buoni rapporti.

Ma c'è di più. Welles sta girando materiale su Elmyr quando si scopre che Clifford ha nel frattempo scritto una biografia di Howard Hughes che avrebbe dovuto essere autorizzata dallo stesso e che invece si rivela essere inventata di sana pianta. Già inizialmente non era ben chiaro cosa fosse vero e cosa falso, ora diventa praticamente impossibile.

La dichiarazione iniziale di Welles che avrebbe detto solo la verità per tutta l'ora che sarebbe seguita non è molto utile, sia perché è fatta mentre ci vengono dispensati trucchi da illusionista (classico e cinematografico), sia perché ci ha detto apertamente che tutti coloro che prendono la parola in questo anomalo documentario hanno un rapporto piuttosto complesso con la menzogna.

Welles ci spiega come anche lui stesso abbia iniziato la sua carriera di attore falsificando il suo curriculum. Era a Dublino senza un soldo e gli era sembrata una buona idea proporsi per il palcoscenico, inventandosi inesistenti recite oltreoceano. E come l'abbia proseguita creando quel falso reportage radiofonico, La guerra dei mondi, che molti scambiarono per vero.

Senza contare poi che la pellicola dura un'ora e un quarto, così che l'ultimo quarto d'ora cade fuori dal periodo garantito dall'autore.

A fare da cornice a questo rompicapo, c'è una performance di Oja Kodar che ha l'evidente scopo di distrarre lo spettatore lasciandolo ancor più confuso. Miss Kodar si esibisce all'inizio del film in una passeggiata per le vie di Roma che mi sembra essere stata di ispirazione a quel filmato virale che è stato recentemente di gran successo, dove si vede una giovin donna camminare per New York e venir tampinata da un numero incredibile di uomini. Anche nell'originale wellesiano la telecamera è nascosta, la differenza è che la Kodar è vestita espressamente per far girare la testa. E ci riesce molto bene.

Cagliostro

E poi mi lamento dei titoli italiani che i distributori affibbiano oggigiorno ai film stranieri.

La sceneggiatura è basata alla lontana su Joseph Balsamo, romanzo storico di Alexandre Dumas padre che parte dalla figura storica di Giuseppe Balsamo, più noto come Alessandro conte di Cagliostro (titolo inventato), e la trasfigura in un motore rivoluzionario che contribuirà al crollo dell'assolutismo francese. Se da noi Cagliostro è tuttora un nome noto, oltreoceano deve essere un emerito sconosciuto, per cui la produzione americana ha puntato su un titolo più pulp, Black magic. Gli italiani hanno invece preferito inizialmente un indifendibile e inesplicabile Gli spadaccini della Serenissima, per poi ripiegare sul titolo con cui è più noto al giorno d'oggi.

La sceneggiatura di Charles Bennett, che pure ha scritto cose come L'uomo che sapeva troppo, è inqualificabile. Per aggiungere danno alla beffa, viene presentata come se Alexandre Dumas padre raccontasse la storia che noi vediamo al suo omonimo figlio (interpretato da Raymond Burr), facendo sì che metta letteralmente la sua firma sul "The end" che conclude la narrazione.

Dopo il quadretto iniziale con i due Alexandre, ci viene proposta una lacrimevole quanto campata per aria versione dell'infanzia del Balsamo, che sarebbe stato uno zingarello costretto ad assistere all'ingiusta impiccagione dei suoi genitori da parte del crudele visconte di cui si vendicherà nel proseguio della storia.

Passano gli anni, e il piccolo Giuseppe s'è incredibilmente trasformato in un omone (Orson Welles) dotato di un tal magentismo animale da attirare l'attenzione del dottor Mesmer (Charles Goldner), precursore degli studi freudiani sull'inconscio, che gli spiega quel che sa sull'argomento, sperando di coinvolgerlo nei suoi studi. Ma Balsamo ha ben altri obiettivi. Scoperta la sua potenza, cambia nome in Cagliostro, e si crea un aura misteriosa di guaritore. Con la compagnia di Gitano (Akim Tamiroff) e Zoraida (Valentina Cortese), gira l'Europa e fa fortuna, finché gli capita di passare per la Francia e di imbattersi nuovamente nel già noto visconte, che nel frattempo sta elaborando un complicato piano per far cadere in disgrazia niente meno che Maria Antonietta (Nancy Guild), non ancora regina, approfittando di tale Lorenza che le è estremamente simile.

L'idea di Cagliostro sarebbe quella di vendicarsi del perfido visconte, ma come vede Lorenza si innamora di lei, e decide perciò di attuare un piano ancor più complicato di quello del visconte, che dovrebbe addirittura portare lui e Lorenza sul trono di Francia. Se la trama non fosse già fin troppo complicata, aggiungiamoci che Lorenza è innamorata, ricambiata, del capitano delle guardie della regina.

Sarà il buon dottore (nel senso di Mesmer) ad impedire che il luciferino piano di Cagliostro abbia successo, rimettendoci però la pelle (forse, viene abbandonato dalla sceneggiatura con un proiettile in corpo ma ancora in vita).

Scontro finale sui tetti di una chiesa (memoria de Notre-Dame de Paris o di Metropolis?), con il bene che trionfa.

Se non fosse per la presenza scenica di Orson Welles, il risultato sarebbe disdicevole. Belli però i costumi d'epoca, vedasi in particolare la scena del ricevimento, a parte la curiosa mise di Cagliostro proprio in quella occasione, una specie di tenuta da gerarca fascista completa di fez coloniale, adornata da simboli dorati che vorrebbero essere esoterici.

Otello

La produzione è stata un incubo. Nell'immediato dopoguerra, Orson Welles era in Italia in quanto protagonista di Cagliostro. Basti dire che si era scelto di girare il film da noi perché il Messico era risultato troppo costoso per dare un'idea del pasticcio in cui il nostro si era ficcato. Già che si trovava lì, Welles attaccò discorso con Michele Scalera, produttore italiano sull'orlo della catastrofe a causa dei suoi trascorsi sotto il regime fascista, e lo convinse ad imbarcarsi in questa impresa. Entrambi pensavano di essere stati molto furbi, lo Scalera contava di rilanciarsi, Welles sperava di avere la tanto agognata libertà di azione.

La troupe va in Marocco (per spendere ancora meno che in Italia, immagino) per le prime riprese, e la Scalera Film fallisce. Ma ormai il meccanismo diabolico è partito e il progetto prosegue, anche se tra mille problemi. Ci vorranno tre anni, con scene girate a distanza di mesi e in Paesi diversi, per completare il lavoro. Mitica la scena in cui Cassio dovrebbe essere ucciso da Roderigo, che è stata girata in un bagno turco per ovviare al problema della indisponibilità degli abiti di scena, tenuti in pegno in attesa di un pagamento.

Seguendo la lettura classica, Welles affronta la parte di Otello in una bella tinta nera. In realtà non si sa bene cosa Shakespeare intendesse per Moro di Venezia quando scrisse la sua tragedia. Ai tempi era termine molto generico che copriva varie tonalità dal quasi-bianco nordafricano al nero profondo subsahariano. Senza contare poi che la Morea, per i veneziani, era il Peloponneso.

Credo che la storia che la conoscano tutti, e anche Welles era dello stesso avviso, al punto che la racconta in flash-back, partendo dai suggestivi funerali di Otello e Desdemona (Suzanne Cloutier), mentre il perfido Iago (Micheál MacLiammóir) viene letteralmente messo in gabbia.

Bravi tutti e tre gli interpreti principali, eccezionale la scena in cui Otello capisce di aver fatto un tragico errore da cui non c'è via d'uscita.

The fighter

Credo che la mancanza di una coesione interna nella storia narrata sia figlia di una lunga e complicata storia produttiva. La prima certezza è stata che Mark Wahlberg avrebbe interpretato il ruolo principale, quello di Micky Ward, di cui è amico. Tutto attorno è ruotata una serie di sceneggiatori, attori, registi, fino ad arrivare alla configurazione finale.

In particolare, Darren Aronofsky, che comunque ha mantenuto un ruolo produttivo, è stato l'ultimo candidato a dirigere questo film, prima di lasciarlo per The wrestler, un soggetto piuttosto simile, ma in mano ad una produzione più agile, che ha permesso ad Aronofsky di interagire più liberamente di quanto gli sarebbe stato qui possibile nella storia. E, almeno a mio gusto, il risultato ha giustificato la sua scelta. Si è finito con chiamare David O. Russell, che veniva da un lungo periodo di inattività, e non mi sembra fosse ancora in piena forma. In particolare, il rimescolamento tra un registro semi-documentaristico e uno più farsesco che viene utilizzato in un paio di occasioni mi è parso poco riuscito.

Si narra quindi di Micky Ward (Wahlberg), pugile del New England, seguendolo da un periodo particolarmente nero nella sua carriera fino alla conquista di un titolo della sua categoria. Numerose le libertà che vengono prese dagli scenggiatori, un po' per enfatizzare la fase luminosa, esagerando il buio iniziale, un po', temo, per semplice sciatteria.

Forse si voleva sostenere l'idea che la famiglia, per quanto disfunzionale, è il porto sicuro a cui l'individuo deve far riferimento se vuole ottenere il successo. Se questo è il caso, il risultato non è dei migliori, anche a causa di come è stata scritta la parte di Micky. Abbiamo infatti che Micky è costretto ai lati dell'azione da uno strabordante fratellastro, Dicky Eklund (un eccellente Christian Bale), da sette sorelle che non brillano per acume e sono limitate al ruolo di coro, e dalla terribile madre di tutti e nove, Alice (Melissa Leo). Micky troverà supporto in una esuberante barista, Charlene (Amy Adams), che cercherà di spiegargli come sarebbe opportuno per lui crescere e cercarsi di svincolarsi da quella compagnia di matti ma, non si capisce bene come, anche Charlene verrà attirata nel gorgo fatale. E tutti quanti assieme vanno verso il lieto fine. Che potrebbe anche starci, se non fosse che Micky, pur diventando campione, pur venendogli riconosciuto il suo teorico ruolo centrale, resta desolatamente in ombra.

Molto più interessante Dicky, ex pugile che ha avuto un attimo di gloria prima di sprofondare nella dipendenza da crack. Vuole evidentemente bene al fratellino, e gli potrebbe dare molto, ma non riesce a svicolarsi dal modello materno, che contrappone il desiderio che i suoi rampolli abbiano successo alla necessità di mantenerli subordinati a lei. Circostanze esterne (a blessing in disguise, direbbero gli anglofoni), ovvero la galera, lo allontaneranno da un ambiente asfissiante, lo costringeranno a ripulirsi fisicamente, e lo spingeranno a risalire dal baratro in cui si era ficcato. Bale eccelle nell'interpretare il carattere e vale da solo la visione del film.

Ecco, se si fosse potuto focalizzare la sceneggiatura su Dicky, sarebbe potuto venir fuori un film di livello molto superiore.

Decisamente brutto e inutile il finale, con il combattimento di Micky per il titolo. Falsificato storicamente per simulare un repentino colpo di scena con Micky sul punto di perdere che riesce invece ad avere la meglio sull'avversario, sembra avere l'unico scopo di creare un "cattivo", nel personaggio dello sfidante, che viene inutilmente connotato come tronfio e antipatico.

Guardiani della galassia

Molto connotato già dalla produzione (Marvel) e distribuzione (Walt Disney). Difficilmente lo spettatore che abbia una minima idea di cosa tratta il film ne uscirà completamente scontento. Al centro dell'operazione c'è James Gunn (sceneggiatura e regia), che ha preso il fumetto omonimo e lo ha rielaborato a suo gusto per farne il pilot di una serie ad alto budget.

Da Gunn mi sarei aspettato qualcosa di più interessante, conoscendolo per Super. Non mancano elementi curiosi, come la strana mescola tra cultura anni 70/80, un background da Guerre Stellari, azione alla Indiana Jones, spunti alla Riddick, Quinto elemento, altre produzioni Marvel come Thor. Mi pare però che manchi un filo conduttore solido. Sui titoli di coda m'è venuto da chiedere "e allora?". Qual'è il risultato delle due ore di spettacolo? Cosa mi dice la storia? Ben poco, in realtà.

Si narra in pratica di un avventuriero, Peter Quill (Chris Pratt) che per una serie di circostanze di trova a diventare il salvatore della galassia, mettendo assieme un bizzarro gruppo che include Rocket, un procione geneticamente modificato che fa da Bombadil ad una specie di Barbalbero (cfr Il signore degli anelli di Tolkien) di nome Groot; Drax (Dave Bautista), un tizio tutto muscoli e poco cervello; e Gamora (Zoe Saldana), bella aliena dalla storia piuttosto complicata.

Ronan (Lee Pace), il supercattivo, vuole un oggettino che gli è necessario per le sue supercattiverie, che però finisce nelle mani di Peter. Conseguentemente, tutti quanti cercano di mettere le mani addosso a Peter. In un modo fortunoso lui riesce ad evitare il peggio e finisce per sviluppare una certa vena eroica, qualità di cui inizialmente era del tutto assente.

Tra le debolezze del film c'è anche la scarsità di carisma di Pratt che, ahilui, si confronta con l'Han Solo di Harrison Ford.

Curioso, poi, come vi siano ammazzamenti a ritmo continuo, però negli scontri diretti raramente il nostro eroe uccida, preferendo invece armi stordenti. Credo si tratti di un modo di aggirare i limiti della censura ed ottenere truculenza senza perdere il pubblico molto giovane, che è il principale target di riferimento del prodotto.

Curioso anche che l'inizio della storia sia altamente drammatico. Anni ottanta, il protagonista è ancora bimbo e la madre sta morendo per un tumore. Lei consegna a lui un ultimo regalo con un biglietto di accompagnamento, e muore. Sconvolto, lui esce dall'ospedale e viene rapito dagli alieni.

Per intrattenermi nella prima ora del film, che ho trovato piuttosto noiosa e confusa, mi sono chiesto se tutta questa storia galattica non fosse nient'altro che la fantasia di un bambino che si trova costretto ad accettare l'inaccettabile, e si inventa un universo poco plausibile dove a tutti piacciono le canzoni che sua mamma gli aveva registrato su una cassetta, e dove riesce ancora a sentirle sul suo walkman a decine di anni di distanza. Senza nemmeno dover far la fatica di cercare le pile di ricambio. A proposito di ciò mi sono ricordato di come invece in Codice: Genesi Denzel Washington avesse problemi con il suo iPod.

Se le parti principali non sono occupate da attori memorabili - forse la Saldana è quella che se la cava meglio, ma deve fare i conti con un ruolo che è solo di puro supporto al fiacco protagonista - i ruoli secondari sono una miniera di brevi apparizioni di attoroni che avrebbero meritato maggior considerazione. Glenn Close è Nova Prime, una specie di leader civile che si contrappone al supercattivo; Benicio Del Toro è un collezionista che è disposto a pagare una enormità per l'oggettino in possesso di Peter; John C. Reilly è un poliziotto che fa da tramite tra la nostra banda di cattivi redenti e i buoni - da notare che Gunn avrebbe voluto Reilly come protagonista di Super, ma non era riuscito a convincere la produzione, che non lo riteneva un nome capace di attirare abbastanza pubblico; e persino Josh Brolin alla base del personaggio di Thanos (il capo del supercattivo Ronan, che è così deviato da sfuggire al suo controllo). Non è un nome così importante, ma gli whoviani avranno forse riconosciuto anche Karen Gillan, Amy Pond nella saga del Dottore, nell'interprete di Nebula, sorella di Gamora molto cibernetica e con un rapporto estremamente conflittuale con tutta la famiglia.

In inglese, poi, le voci del procione e dell'albero sono di Bradley Cooper e Vin Diesel.