Innocenza colposa

Produzione per il grande schermo della London Weekend Television che, come si può agevolmente capire dal nome, è più a suo agio nel mondo televisivo. E il risultato potrebbe essere considerato una buona produzione per la TV o una poco convincente per il cinema, a seconda dei punti di vista.

Curioso il rimescolamento di generi. Si parte come film poliziesco, poi diventa un noir da investigatore privato (traslato a Brighton, nella provincia inglese), registro su cui si mantiene fino alla fine, con l'esclusione di una parentesi per lo svolgimento di un processo - che viene sbrigato fin troppo velocemente, lasciandomi l'impressione che forse sarebbe stato meglio eliminare del tutto questa parentesi.

Lavoro tutto sommato passabile di Simon Moore, sceneggiatura originale e regia, un po' sonnacchioso nella parte centrale ma che si riscatta nel finale con una serie di sorprese che ribaltano più volte l'andamento della vicenda. Il punto forte è rappresentato dal protagonista, Liam Neeson, che regge bene la parte di un poliziotto poco affidabile, che diventa investigatore privato ancor meno raccomandabile, viene implicato nel doppio omicidio di moglie e cliente, e si innamora della principale indiziata (Laura San Giacomo).

Notevole la scena finale, in cui troviamo un personaggio che apparentemente ha ottenuto quello che voleva dalla propria vita, ma scopre che ha sbagliato bersaglio.

The IT Crowd - seconda serie

Altre sei puntate da una ventina di minuti, non ci sono differenze sostanziali rispetto all'impostazione della prima serie.

1 - The Work Outing. I tre IT vanno a teatro dopo lavoro, grazie all'invito di uno spasimante di Jen. Scoprono sul posto che si tratta di un musical molto gay dal titolo "Gay!".

2 - Return of the Golden Child. Funerale del boss aziendale, con umorismo molto britannico sull'avvenimento.

3 - Moss and the German. Per vari motivi Roy non riesce a vedere un DVD prodotto da Tarantino (un film sudcoreano di zombi) oltre allo spot iniziale antipirateria - in una spassosa versione ancora più estrema del solito. Jen ha ripreso a fumare, e patisce l'ostracismo nei confronti dei fumatori. Moss decide di incontrare altra gente, e finisce a casa di un cannibale tedesco che se lo vorrebbe cucinare. Nel finale quel young fine cannibal (come lo chiama Moss) esegue la sigla del programma al violoncello.

4 - The Dinner Party. Sembra che Jen abbia trovato l'uomo per lei, Peter File. Nome che pronunciato rapidamente suona in modo molto imbarazzante.

5 - Smoke and Mirrors. Moss inventa un comodo reggiseno che però ha qualche piccolo problema di surriscaldamento.

6 - Men without Women. Il nuovo capo, che ha cercato di agganciare Jen dalla 3 puntata, la promuove a sua assistente personale.

Limitless

Film dopato inneggiante al doping. Primo lavoro solo diretto da Neil Burger (i suoi tre precedenti erano stati anche scritti da lui) mi pare che sia deludente proprio dal punto di vista della sceneggiatura (Leslie Dixon, che ha adattato il romanzo di Alan Glynn cambiandone il senso e il finale).

Spererei che si tratti solo di una sbandata nella carriera di Burger, ma vedo che il suo prossimo progetto dovrebbe essere quello di convertire in film un videogioco, e mi vien da temere che la storia raccontata qui sia una rappresentazione del suo percorso. Con la differenza che a fargli ottenere il successo non sia stata la chimica ma la decisione di accettare di dirigere sceneggiature scelte da altri.

A New York un giovinastro, tale Eddie Morra (Bradley Cooper), vorrebbe far lo scrittore ma proprio non ci riesce, almeno finché non entra in possesso fortunosamente di una scorta di una misteriosa droga che migliora strepitosamente alcune funzionalità del suo cervello. Usa questi superpoteri per conquistare donne, fare soldi, acquisire potere. E per attirarsi addosso una serie di guai persino peggiori. Alla fine i nodi vengono al pettine ma lui riesce (incongruamente e inaspettatamente) a trovare una via d'uscita.

La parte migliore del film è il doping che Burger somministra alla pellicola (usando effetti ed effettacci di tutti i tipi - le impossibili carrellate per le strade di New York mi hanno fatto pensare alla streetview di google) per rendere visivamente gli effetti della droga su chi la assume. Ma come sempre accade, il troppo stroppia. Il protagonista si spara pastigliette una dietro l'altra, e ad un certo punto la soggettiva del film si sposta pure su un altro personaggio che assume questa droga. Lo spettatore viene perciò bombardato dal doping visuale ottenedo, almeno nel mio caso, l'effetto di saturare la capacità di assorbimento e, in fin dei conti, di annoiare.

Deludente Robert De Niro, sottoutilizzato nel ruolo di un magnate che richiede i servigi di Morra.

I difetti più grossi mi pare che siano nella sceneggiatura. Lascio perdere quanto poco plausibile sia l'idea di un tale incremento prestazionale del cervello umano, e trascuro pure di notare che un tale aumento dell'attività richiederebbe necessariamente una fonte di energia aggiuntiva, e dunque Morra dovrebbe consumare cibo (zuccheri, probabilmente) in quantità impressionanti. Faccio finta di accettare che la pastiglietta miracolosa modifichi bizzarramente il metabolismo di chi la ingurgita. Però come è possibile che una persona che si reputa superintelligente finisca per mettersi nelle mani di un mafioso? E che accetti di pagarlo con le medesime superpillolette che, ragione vuole, non dovrebbe dare a nessuno?

Si potrebbe superare le difficoltà indicate introducendo un dubbio: ma la pilloletta, poi, funziona davvero? Non è che chi la assume pensa di essere diventato un genio, mentre invece è il solito imbecille? Questa curiosa interpretazione funziona in almeno una scena, quando Morra parla in italiano al ristorante per impressionare la sua ex (che riconquisterà - potenza del nostro bel linguaggio). Da vedere in originale, ovviamente, per restare basiti da come la cameriera sia riuscita a capire qualcosa da quell'oscuro balbettio. Peccato non sapere che cosa abbia poi portato in tavola ai due piccioncini.

The assassination

Visione consigliata da Seconda serata.

Si tratta di un film anomalo per la cinematografia statunitense, potrebbe essere visto in abbinata a Permette? Rocco Papaleo di Ettore Scola con Marcello Mastroianni, semmai. Nel confronto Scola batte senza fatica Niels Mueller, soprattutto registicamente parlando, e Mastroianni oscura il pur valido Sean Penn. Anche come protagonista femminile Lauren Hutton distanzia Naomi Watts, ma in questo caso valgono più delle capacità personali il fatto che Papaleo è stato girato nei favolosi anni settanta (insomma, si può ammirare della Hutton molto più di quanto viene concesso della Watts).

Onore al merito per Penn, che interpreta un ruolo difficilissimo per un attore americano, quello di un fallito senza speranze, tale Samuel Bicke. Narrato in flash back a partire dal momento in cui sta registrando un nastro dove spiega i suoi motivi per il gesto che sta per cercare di compiere (e che fallirà), ci mostra per la prima ora una serie di suoi fallimenti che alla fine lo fanno definitivamente uscire di testa. Il povero diavolo non avrà nemmeno la soddisfazione postuma di essere uscito col botto. Finirà invece dimenticato e ignorato da tutti.

Oltra al danno la beffa, persino i distributori italiani del film si accaniranno contro di lui cambiando inesplicabilmente il titolo originale che avrebbe potuto essere tranquillamente tradotto e lasciato intero: L'assassinio di Richard Nixon.

Non mi è sembrato un film semplice da vedersi, anche per come viene mostrata la vicenda. Per tutta la prima ora, in pratica, si ribadisce che Bicke è incapace di relazionarsi propriamente con le altre persone, che non riesce ad adattarsi alla realtà, e che ha aspettative irrealistiche dati i suoi talenti piuttosto limitati. D'accordo, è un punto importante, ed è illustrato bene da Penn, ma mi pare lo si tiri troppo per il lungo. Forse sarebbe risultato più intrigante mettere prima la mezz'ora finale, e poi tornare indietro in una sorta di indagine retrospettiva per recuperare i motivi di quel comportamento.

In ogni caso si tratta di un lavoro interessante, anche se prima di ammetterlo ci ho dovuto dormire sopra. Per come la vedo io, lo spettatore dovrebbe essere portato a chiedersi cosa si sarebbe potuto fare per evitare il tragico epilogo della vicenda, e scoprire che in realtà non ci sarebbe voluto poi molto. Una migliore educazione, probabilmente; un servizio sociale decente che si facesse carico di seguire persone che hanno problemi di integrazione, certamente.

Nel corso della visione, mi sono venute in mente altre pellicole che però, ripensandoci bene, ora mi pare che c'entrino come i cavoli a merenda. Giusto per divertimento li elenco a seguire:

La ricerca della felicità: Se Penn qui interpreta un poveraccio che ha qualche problema caratteriale che non riesce a trovare nessuno che lo capisca e lo aiuti, lì Will Smith interpreta un imbecille che confonde la felicità con il denaro. Si potrebbe cadere nell'equivoco di paragonarli perchè qui si cita Dale Carnegie con un accento molto critico, mentre quel (non)senso della vita è molto vicino a quello veicolato dal film di Muccino. In realtà in The assassination questo aspetto è secondario. A Bicke dei soldi importa davvero poco, sarebbero solo un mezzo per ottenere la sua versione di felicità, che sarebbe vivere con la sua famiglia e lavorare con un suo amico.

Taxi driver: il tassista di De Niro non è un perdente. Ha grossi problemi, nessuno se lo fila ma, in un modo o nell'altro, alla fine riesce a ottenere quello che voleva.

Un giorno di ordinaria follia: al personaggio interpretato da Michael Douglas è andata bene per un bel po' di tempo, poi le cose hanno preso una piega balorda. Lui perde il lavoro pur essendo perfettamente inserito nel sistema - è il sistema non ha più bisogno di lui. Bicke il sistema non riesce nemmeno a capirlo.

Benvenuti al Sud

Un paio di risate me le ha strappate, ma non la definirei una commedia riuscita. Sceneggiatura di Massimo Gaudioso (vedi Matteo Garrone) basata sull'originale francese (Giù al nord) scritto, diretto e interpretato da Dany Boon. A dirigere qui è invece Luca Miniero che non è che mi abbia poi convinto. Le star sono Claudio Bisio (che ha fatto di meglio) e Angela Finocchiaro (malamente sprecata).

Alcuni dicono che l'originale francese sia meglio, altri dissentono. Prima o poi verificherò di persona. Fatto è che il successo che ha ottenuto questa commedia mi sembra ingiustificato. Che sia dovuto al traino dato dalla popolarità del protagonista maschile?

L'idea di base non è malaccio. Un tale (qui Bisio) è costretto a trasferirsi lontano da casa, in un posto che i pregiudizi locali danno come terribile. Arrivato sul posto si accorge che gli avevano raccontato storie, si vive bene pure lì. Anzi, a ben vedere scopre di trovarsi meglio nel nuovo posto di quanto stesse a casa. Per aggiungere una vena romantica c'è pure una trama secondaria, in cui un nativo (Alessandro Siani) cerca di riconquistare la sua bella (Valentina Lodovini) che non sopporta il di lui attaccamento alla madre.

Lo sviluppo, però, non mi pare fatto nel migliore dei modi. L'adeguato cast artistico mi sembra che sia stato lasciato troppo solo, come se a tratti si fosse girato mentre il regista non c'era. E la sceneggiatura gioca troppo sugli stereotipi. La cosa funziona nella prima parte, quando si illustra la paura del contatto con lo sconosciuto, e vengono messi in mostra i pregiudizi più sciocchi. Molto meno nella seconda, dove il protagonista dovrebbe verificare la realtà dei fatti.

In pratica qui viene confrontato un spot pubblicitario per la Lega con uno spot pubblicitario per Castellabate (che del resto sembra proprio un delizioso paesino nel salernitano). Avrei gradito una maggiore profondità.

L'ottavo giorno

Mi verrebbe da dire che è un tipico film di Jaco Van Dormael (scritto e diretto), se non fosse che di lungometraggi il buon Jaco ne ha fatti solo tre, (Mr.Nobody e Toto le heros gli altri due titoli) e su numeri così piccoli non è che abbia molto senso di parlare di tipicità.

È una buddy story tra un down (Pascal Duquenne - presente i tutti e tre i lavori di Van Dormael) e un manager bancario esperto di tecniche motivazionali (Daniel Auteuil). Inizialmente i due vengono presentati come se fossero assolutamente antitetici. Il down è pura emozione, il manager insegna a usare la razionalità per fingere empatia con i clienti.

Scopriamo invece, assieme a loro, che sono molto simili. Entrambi sono colmi di amore e nessuno dei due lo riesce ad esprimere adeguatamente, sia per loro limiti sia per problemi contingenti.

Dopo un incontro drammatico, e un accostamento tempestoso in cui vediamo (edulcorato, certo, ma il senso è chiaro) quanto sia difficile gestire un rapporto con un down, abbiamo modo di valutare quanto sia vero anche il contrario. Quando il manager riesce a incontrare la ex moglie (Miou-Miou) va praticamente fuori da matto, e vediamo che è il down qui a prendere in mano la situazione e, trattandolo come sa che vanno trattate le persone in questi frangenti, riesce a riportarlo alla ragione.

Sono dunque due pari, che si aiutano a vicenda in un momento difficile delle loro esistenze.

Molte le scene memorabili, grazie anche ad una regia spericolata che non si fa problemi di far cantare un topo o di seguire il volo di una coccinella. Una, che mi pare una citazione di Oltre il giardino, mi è sembrata divertente. Il manager ha portato a casa sua il down. È sera, il secondo è in giardino, si avvicina alla piscina, supera il bordo e cammina sull'acqua. Fa anche alcune evoluzioni prima di uscire, camminando come niente fosse. Il manager, non visto, lo ha seguito nel suo percorso con lo sguardo stupefatto. Si avvicina anch'egli alla piscina e si accorge che giusto sotto il pelo dell'acqua c'è una sorta di coperchio galleggiante, di cui evidentemente si era dimenticato l'esistenza. Niente miracolo, questa volta.

The IT crowd - prima serie

Dopo aver visto Frequently Asked Questions About Time Travel ho cercato qualche informazione sui protagonisti, che mi erano totalmente ignoti.

Chris O'Dowd è uno dei protagonisti della sit-com di cui parlo qui, che sta riscuotendo relativamente un buon successo sull'inglese channel 4.

Atmosfere vagamente pitoniane, per una ambientazione molto geeky & nerdy. I personaggi ricordano molto Dilbert.

Queste le sei puntate, da una ventina di minuti l'una, della prima serie.

1 - Yesterday's jam. Vengono presentati i personaggi principali. Il capo (tendenzialmente imbecille) di una mega-azienda, una tipetta (Jen) che viene assunta come capo dei servizi informatici senza che sappia praticamente niente della materia, e i due IT, Roy e Moss. Sentiamo i due che, lagnandosi del fatto che i colleghi parlano con loro solo quando hanno bisogno, e come ottengono il servizio tornano a ignorarli. Moss dice che li considerano come la marmellata del giorno precedente (da cui il titolo della puntata) - una pessima analogia, fa notare Roy, in quanto la marmellata si conserva pressoché indefinitivamente. I due inizialmente non accettano Jen, ma poi scoprono (a) che il capo è un maniaco del concetto di team, e licenzia l'intero quarto piano e la sicurezza perché non sono abbastanza solidali (b) Jen è capace di trattare con le persone - caratteristica che la rende utile al dipartimento.

La maglietta di Roy riporta le lettere RTFM - read the fucking manual - tipica risposta scurrile da IT in rotta col resto del mondo. Interpretabile come: invece di fare domande sceme, leggi prima il fottuto manuale.

Da catalogo anche la risposta che viene data a tutti quelli che telefonano al reparto (che si trova nel fatiscente scantinato di un lussuoso grattacielo londinese): "hai provato a spegnere e riaccendere?"

2 - Calamity Jen. Moss guarda uno spot televisivo (decisamente pitonesco) in cui annunciano che il numero da chiamare per le emergenze cambia in 0118 999 881 999 119 7253. Una vecchietta rotola dalle scale e giunta al fondo telefona per chiedere aiuto, seguendo un allegro motivetto che scandisce il lunghissimo numero.

I due temi che animano lo svolgimento sono un corso aziendale per la gestione dello stress e l'acquisto da parte di Jen di un paio di scarpe troppo piccole per il suo piede. Inoltre Jen fa saltare un merge aziendale, e scoppia un incendio nel ufficio IT.

3 - 50-50. Roy esce una sera con una centralinista e non combina nulla, anzi fa una pessima figura. Il giorno dopo Jen lo prende in giro e lui afferma che il problema è che le donne cercano bastardi. Per dimostrare il suo punto mette un annuncio online che sembra fatto da un serial killer, e riesce a rimediare un appuntamento. Nel contempo Jen cerca di far colpo su una guardia della sicurezza (il titolo della puntata deriva dal fatto che il tipo si sta allenando per partecipare a Chi vuole essere milionario, e le fa domande con due possibili risposte). Le due coppie finiranno nello stesso ristorante (consigliato da Moss).

Chi telefona all'IT ora si trova a parlare con un nastro registrato: ("hai provato a spegnere e riaccendere?" "sei sicuro che il cavo è attaccato?")

4 - The red door. Una sala macchine presidiata da un inquietante figuro.

5 - The Haunting of Bill Crouse. Moss alle prese con la necessità di dire menzogne.

6 - Aunt Irma Visits. La sindrome premestruale si abbatte sull'intero reparto IT. Moss ha una relazione con la psichiatra, da cui deve andare in seguito alle conseguenze dell'episodio precedente.

La maglietta di Roy ha la risposta alla domanda fondamentale (per un buon autostoppista galattico).

Black Rain - Pioggia sporca

Una Osaka che ricorda la Los Angeles di Blade Runner è la cosa meglio riuscita del film, che per il resto ha deluso le mie aspettative - che pure non erano altissime. Colpa della sceneggiatura così implausibile da essere indisponente, direi, mentre la regia (Ridley Scott) e il cast tecnico e artistico in generale sarebbero all'altezza di un risultato ben superiore.

In una tipica New York anni '80, un tipico poliziotto americano (Michael Douglas) di quel periodo (divorziato, poco avvezzo a seguire le regole, magari pure un po' corrotto) con un suo collega pseudo italoamericano (Andy Garcia - l'anno dopo sarà nel Padrino 3, dall'altra parte della barricata) si trova ad avere a che fare con un regolamento di conti della Yakuza (mafia giapponese). Il tizio che arrestano per aver ammazzato un paio di suoi colleghi viene però estradato in Giappone (ah ah ah - figuriamoci può succedere mai una cosa del genere) e ad accompagnarlo saranno proprio i due che l'hanno arrestato. Appena arrivati a Osaka, però, se lo fanno scappare, causa di un trucco irrealistico. Seguono altre vicende impensabili, tipo una barista di Chicago (Kate Capshaw) trapiantata in Giappone che ne sa più lei della Yakuza che la polizia locale, o un astuto tranello ai danni di Andy Garcia approfittando di un suo modo di fare e della sua passione per i propri abiti che mi pare impossibile che i mafiosi giapponesi potessero conoscere, che permettono al protagonista di togliere di scena la spalla americana e fare spazio a quella giapponese (Ken Takakura) per dare luogo al solito buddy-movie con due personaggi molto diversi ma che alla fine impareranno ad apprezzarsi.

Volendo, si potrebbe leggere il film anche come una metafora dei rapporti giappo-americani. Ma mi sembra una fatica sprecata.

Jeepers Creepers 2 - Il canto del diavolo 2

Niente da fare, a me l'horror proprio non mi attizza. Ogni tanto ne vedo qualcuno, così che i riferimenti fatti da L'alba dei morti dementi non sono caduti completamente nel vuoto, ma ad una frequenza molto bassa. In genere mi faccio attirare da un attore che mi interessa, tipo Julianne Moore in Shelter o Vera Farmiga in Orphan (per quest'ultimo ha avuto il suo peso anche la regia di Collet-Serra), ma difficilmente posso dire di aver apprezzato.

In questo caso non ci sono nomi che possano attirare (a parte niente di meno che !!! Francis Ford Coppola !!! tra i produttori - che ho interpretato come pura scommessa sul successo al botteghino del prodotto - che mi pare sia stata pure vinta) mi sono fatto traviare da seconda serata e mi sono visto il quarto d'ora iniziale, gentilmente postato nell'indicata pagina del blog.

Scritto e diretto da Victor. Salva Belle le inquadrature, bello l'uso della macchina da presa, ma scontata la sceneggiatura e il sonoro (sia gli effetti sia la musica - non male nel genere).

Il primo quarto d'ora si svolge in due scenari distinti. Da una parte vediamo padre e due figli agricoltori nel mezzo del nulla americano che si trovano ad avere a che fare con un satanico spaventapasseri che si piglia il più giovane e fugge in volo (lasciando il suo coltellaccio come souvenir involontario). Particolarmente scarsa la scena del distacco, con il padre che continua ad urlare "Billy!" e il figlio "papà... Aiuto... papà, papà ... aiuto" inutilmente a lungo. Dopodichè i due superstiti studiano il reperto e pare che decidano di fare qualcosa.

Dall'altra parte vediamo un pullmann scolastico (di quelli gialli, tipici, che sembrano risalire all'ottocento), occupato da una squadra di odiosi ragazzetti di ritorno da una partita evidentemente vinta. Nel mezzo del nulla si devono fermare per una ruota buca - foratura causata da un attrezzo da diabolico da quattro soldi. La radio del bus ci fa un riassunto di Jeepers Creepers 1, giusto per chi non sapesse di cosa si tratta (come il sottoscritto), i responsabili cercano di contattare via radio aiuti, perché mandino qualcuno a cambiare la gomma, e tutti si mettono in attesa.

Non occorre essere dei geni per immaginare quel che segue. L'essere diabolico farà cose terribili agli insopportabili ragazzetti sportiveggianti, ma ha sottovalutato il desiderio di vendetta del padre e fratello della sua giovane vittima iniziale.

Basta che funzioni

Sui titoli di testa sentiamo cantare l'inconfondibile voce di Groucho Marx e ci troviamo subito davanti a Boris, un tipo (Larry David) molto pieno di sé che apostrofa pesantemente i suoi amici dall'alto delle sue superiori conoscenze, non ha i baffi e se non cammina bene è colpa di un tentato suicidio andato male (o bene, a seconda dei punti di vista), ma il riferimento marxiano faremmo bene a tenerlo presente.

Anche perché, neanche il tempo di insultare pesantemente tutto il genere umano, e il protagonista cerca di convincere i suoi amici che ci sono spettatori (poco di buono anch'essi, certamente) che li stanno guardando. Gli amici sospettano che a Boris sia andato di volta il cervello, e noi dovremmo essere d'accordo con loro ma in realtà sappiamo che Boris ha ragione, dato che noi siamo gli spettatori citati. Dunque è Boris davvero l'unico che sa davvero come vanno le cose? Hanno ragione i suoi amici? Terza possibilità, Woody Allen ha messo una punta di vaudeville in questo film? Naturalmente le tre ipotesi non sono mutualmente esclusive.

Anzi, tutto sommato, direi che sono valide tutte e tre contemporaneamente. Questo personaggio cinico, dall'umorismo corrivo, incontra fortunosamente una fanciulla (Evan Rachel Wood) tutta cuore e niente cervello che scappa da una famiglia molto tradizionalista del profondo sud. L'incontro tra i due provoca una serie di eventi e di fulminanti battute da parte di Boris, fino ad arrivare ad un finale apparentemente felice - nonostante alcune traversie lungo il percorso.

Il titolo del film, Whatever works, cambia significato durante lo svolgimento. Inizialmente, come spiega il protagonista, andrebbe interpretato come un cinico "E chi se ne frega". Boris è appena uscito dall'ospedale dove lo hanno rappezzato dopo il fallito tentato suicidio, che ha avuto come conseguenza laterale il divorzio della moglie che, pur essendo bella, ricca, intelligente, innamorata di lui, non gli andava bene. Ora vive quasi in miseria (relativamente parlando), solitario, con pochi amici, campando dando tempestose lezioni di scacchi a bambini. E chi se ne frega. Per Boris, sostanzialmente, non è cambiato niente.

Alla fine del percorso Whatever works assume il significato del titolo italiano. Boris, (abbastanza) rappacificato con il mondo, è ancora convinto che l'umanità sia composta in massima parte da cretini e scemi e che lui sia l'unico ad avere il quadro completo della situazione (e torna perciò a parlare in camera, mentre gli amici lo prendono in giro) però finalmente ammette che la cosa migliore da fare è cercare di vivere al meglio questa nostra vita. Dando e ricevendo amore, se possibile e per quanto possibile, senza stare a badare molto a quelli che sono i canoni comuni, ma cercando quello che funziona per il singolo.

Frequently Asked Questions about Time Travel

Per appassionati di fantascienza con una buona vena autoironica, in linea con la tradizione inglese degli autostoppisti galattici di Douglas Adams, riverberata anche in titoli come il recente Paul di Simon Pegg e Nick Frost.

Il bersaglio del film è l'incongruenza logica intrinseca nel concetto di viaggio nel tempo. Jamie Mathieson (che ha scritto e diretto il lavoro) ne tira le conseguenze creando una buffa storia ambientata quasi esclusivamente in un pub inglese con una distorsione temporale nei bagni.

Nel finale si accenna alla possibilità di una seconda puntata, con tema i viaggi negli universi paralleli, le cui possibili conseguenze vengono illustrate rapidamente sui titoli di coda (con battuta finale: "Le cose diventano un pochino troppo complicate").

Complimenti allo sceneggiatore-produttore Jamie Mathieson che è riuscito a scrivere una storia piacevole e divertente usando un budget evidentemente limitato. Credo che l'effetto speciale più costoso sia stato la partecipazione di Anna Faris.

La verità è che non gli piaci abbastanza

Si tratta di uno di quegli strani casi in cui il titolo non è stato rielaborato dalla distribuzione italiana seguendo logiche imprevedibili: He's just not that into you.

Consolatoria commedia romantica che credo sia stata pensata espressamente per un pubblico femminile ed è basata su quanto sia difficile capirsi nelle cose dell'amore. Bizzarria vuole che la sceneggiatura sia basata non su un romanzo, ma su uno di quei libri tra i faceto e il sociologico, che hanno un po' la stessa impostazione della serie televisiva di Sex and the City. Prevalentemente si esplora il punto di vista femminile, ma lasciando qualche finestra aperta anche su quello maschile. Ha dunque senso che pure il cast sia sbilanciato, con da una parte Scarlett Johansson, Jennifer Aniston, Drew Barrymore e Jennifer Connelly; dall'altra Ben Affleck e (in un piccolo ruolo) Kris Kristofferson. E questi sono solo i nomi principali, perché il film rischia quasi di diventare una collezione di sketch tanti sono i personaggi che vediamo in due ore.

Occorre non lasciarsi ingannare dai nomi che ho fatto, casomai si tenga conto del regista (Ken Kwapis) per immaginarsi come possa essere stato utilizzata tutta quella potenzialità. Ma tutto sommato, se non ci si aspetta molto, si riesce arrivare sani e salvi fino alla fine.

La diva Julia

Visto su suggerimento de il bibliofilo in seguito alla visione di Incontrerai l'uomo dei tuoi sogni, in relazione alla presenza in entrambi in film di Lucy Punch, qui antagonista di una splendida Annette Bening (brava anche in I ragazzi stanno bene, per restare in tema di agganci a film recenti).

Toni da commedia romantica per quello che, a ben vedere, è un dramma. Diretto da István Szabó che usa con maestria anche una bella colonna sonora, dove i brani non originali si innestano a perfezione nella vicenda, e le musiche originali (scritte e dirette da Mychael Danna) la commentano egregiamente.

Il nome di Szabó non può non farmi pensare a Mephisto, anche quello film sul teatro e i teatranti - con un Klaus Maria Brandauer in forma strepitosa. Lì però il tema e i toni erano decisamente più drammatici.

Qui, tutto sommato, ce la caviamo a buon prezzo. La storia è quella della maturazione della protagonista che per tutta la vita è stata attrice e ha finito per dimenticare di essere anche una donna. Meglio, perciò, il titolo originale Being Julia che sottolinea la conquista del suo vero essere, e non tanto il suo essere grande attrice, come fa il titolo italiano.

Buon lavoro di gran parte del cast, dove Jeremy Irons ha il ruolo del marito/impresario (più impresario che marito), curato anche nei ruoli minori, come quello di Juliet Stevenson (l'assistente di Julia), a cui è data una buona profondità [e mi sono dimenticato di citare Michael Gambon]. Merito dell'ottima sceneggiatura (Ronald Harwood - che tra l'altro ha scritto la sceneggiatura originale de Il servo di scena, sempre nello stesso ambito) basata su una novella di Somerset Maugham.

Il centro dell'azione è Julia, attrice teatrale quarantacinquenne che viene colta da crisi di mezza età, pensa di risolversela invaghendosi di un giovinotto (Shaun Evans) che però la usa e la lascia. Il vero superamento della crisi avverrà quando riuscirà a conciliare la sua esistenza di donna e di attrice. Non c'è un vero e proprio lieto fine (grazie al cielo) se non la raggiunta maturità del carattere.

Molto brava la Bening ha rappresentare la mutevolezza di Julia, che sembra vecchissima quando è in crisi, una ragazzina quando è felice e, da vera attrice, riesce a passare dal pianto al sorriso in un attimo.

The Legend of Action Man

Il budget dichiarato è di duecento dollari, ma credo che la cifra sia approssimata per eccesso. Diretto da Andy Young, che lo ha scritto assieme a Derek Papa e prodotto dalla Dingoman, che sarebbero poi i due suddetti più James McEnelly, il protagonista del film stesso.

Storia di un supereroe senza superpoteri e, per dirla tutta, un poco scemo - il che fa pensare a Kick-ass, ma ambientata in una tranquilla cittadina texana e indirizzata decisamente verso il bersaglio della commedia sgangherata.

Con quel budget sarebbe stato difficile non aspettarsi errori tecnici e fattuali, e allora i dingomen hanno deciso di non curarsene del tutto, facendo del film anche una parodia dei film a basso costo. Così capita che un personaggio sia interpretato da uno scopone con un secchio rovesciato a far da testa, che si risponda al telefono parlando in una cucitrice o che gli sceneggiatori entrino allegramente in campo per discutere di una scena che uno trova scema e l'altro geniale. Da sottolineare anche uno dei peggiori effetto-notte che io abbia mai visto. La sceneggiatura zoppica vistosamente, e sono d'accordo con lo sceneggiatore che avrebbe evitato la puntata nel soprannaturale.

Nonostante tutto ciò, mi sono divertito.

Difficile pensare che qualcuno sia disposto a pagare per vedere questa opera prima, così hanno deciso di metterla online gratuitamente - forse sperando che la pepsi si impietosisca e paghi qualcosa per le numerose apparizioni del loro marchio, e per il trattamento riservato al loro arcirivale :D

Ecco il filmato integrale, in inglese ovviamente, e con una qualità piuttosto spregevole:

Dragon Trainer

Curioso che il titolo originale, How to train your dragon, una cosa tipo Come addestrare il tuo drago, sia stato "tradotto" con un altro titolo inglese. Ma questi sono i soliti strani percorsi della distribuzione italiana.

Bel lavoro, ottima sceneggiatura (basata molto alla lontana su una omonima serie di racconti per bambini), qualità del disegno, colonna sonora. Mancano i grossi nomi nelle voci originali dei personaggi (al massimo posso citare un Gerard Butler nel ruolo del padre del protagonista) a cui DreamWorks mi aveva abituato, ma dopotutto se ne può fare a meno.

Un ragazzetto vichingo (vichinghi molto di fantasia, per dirne una parlano con un forte accento scozzese, per dirne un'altra hanno come occupazione principale quella di combattere contro i draghi che infestano i loro paraggi - e perché non se ne vanno? Chiederà il nostro piccolo lettore. Perché sono dei gran testoni) vorrebbe diventare un vero vichingo (il che comporta l'uccisione di un drago) e far contenti tutti quanti, a partire da suo padre - capo del villaggio - e proseguendo con la bella ragazzina di cui si è innamorato (ovviamente di nascosto). Purtroppo è una mammoletta in una compagnia di colossi, e gli vien da usare il cervello prima dei muscoli, cosa incomprensibile al resto del villaggio.

L'astuto lettore avrà capito già come va a finire, vi sono però alcuni dettagli interessanti che ribaltano la solita logica in bianco e nero tipica dei cartoni della concorrenza. I supposti cattivi, come direbbe Ivano Fossati, poi così cattivi non sono, ma hanno semplicemente priorità che cozzano con quelle dei vichinghi. Anche il rapporto padre - figlio viene sviluppato in un modo non banale. E c'è pure la possibilità che succedano dolorosi incidenti anche ai buoni.

Il progetto è stato affidato (e diretto) da Dean DeBlois e Chris Sanders, transfughi Disney dove avevano diretto Lilo & Stitch - ecco perché il drago protagonista assomiglia così tanto a Stitch, mi sono detto quando l'ho scoperto. Altri riferimenti (voluti o non voluti che siano) portano ad Avatar per le sgroppate aeree mozzafiato e, volendo, per il rapporto conflittuale tra due comunità - anche se qui il tema viene sviluppato in modo più maturo; in Viki il Vichingo, serie di cartoni giappo-tedesca anni settanta, dove c'è lo stesso rapporto tra nerboruto padre e astuto figlio; e magari pure Hagar l'orribile, striscia di fumetti americana, che presenta anch'esso una bizzarra comunità pseudovichinga; e dimenticavo un imperdibile albo di Asterix, quello in cui incontra in Normanni, che sono rappresentati per l'appunto come una popolazione di simpatici e muscolosi zucconi che non hanno paura di nulla.

Ocean's Thirteen

Per questa ultima puntata della serie Ocean si torna a Las Vegas, e credo che l'ambientazione sia l'errore più grave commesso dalla produzione. Si fosse scelto Paperopoli la storia avrebbe guadagnato molto in verosimiglianza.

E a ben vedere il principale nuovo acquisto del cast, Al Pacino, viene fatto agire da Steven Soderbergh come un Paperon de' Paperoni in versione perfida che si presenta tradendo il partner (Elliott Gould) per mezzo di clausole ad hoc piazzate nel loro contratto.

Il resto del film è in linea con la tradizione paperesca disneyana, solo che a fumetti quelle trovate mi fanno ridere, viste in versione "reale" mi fanno sbadigliare.

L'alchimia tra i tre personaggi principali (George Clooney, Brad Pitt, Matt Damon) non raggiunge lo stesso risultato che si era ottenuto nel secondo, e soprattutto del primo, episodio. E dato che già inizialmente tutto si basava su ciò, il film perde gran parte del suo interesse.

Ocean's twelve

Dove finisce Ocean's eleven, riparte Ocean's twelve, con qualche personaggio in più e qualche idea in meno. La regia di Steven Soderbergh si fa più nervosa (autoriale, verrebbe da dire, se non fosse che questo è un film di puro intrattenimento e l'autorialità ci sta come i cavoli a merenda) e l'azione si appesantisce nel correre dietro a tanta, troppa, gente.

Se nel primo episodio Ocean (George Clooney) era riuscito a rinconquistare la propria ex-moglie (Julia Roberts) che torna a tutti gli effetti ad essere la signora Ocean, ora tocca al suo compare (Brad Pitt) trovare l'anima gemella, nelle improbabili sembianze di una affascinante poliziotta (Catherine Zeta-Jones) che, un po' come l'ispettore Clouseau è ossessionata da una sorta di pantera rosa (Vincent Cassel) che a sua volta ce l'ha a morte con la squadra di Ocean - per motivi che verranno spiegati da chi avrà la pazienza di guardarsi le due ore del film - al punto da rivelare al derubato proprietario del Bellagio (Andy Garcia) chi ha compiuto il colpo.

Dunque, come promesso, il biscazziere contatta tutti i ladri, compreso il ragazzo di bottega (Matt Damon), e li avverte che hanno due settimane di tempo per restituire il maltolto con gli interessi maturati. Un po' poco come vendetta, rispetto a quanto aveva annunciato in precedenza, a voler essere pignoli. Ma non è certo questa la più grossa incongruenza. La verosimiglianza non era particolarmente elevata neanche nella prima puntata, ma qui si esagera. Del resto si continua sulla stessa falsa riga, quello che conta è il cast e come interagiscono tra loro, piazzando anche scenette divertenti, ad esempio quella dove Bruce Willis appare in quanto sé stesso, ma con una minore fluidità di quanto visto in Eleven. Insomma, per dirla tutta ci sono momenti di noia e scene veramente brutte (Cassel che improvvisa un balletto per passare un sistema d'allarme) che spezzano il ritmo.

Girato principalmente in Europa (Amsterdam, Parigi, Roma, Villa Erba sul lago di Como), ha reso possibile la partecipazione di qualche attore locale in minuscole particine. Ad esempio Marina Stella ha la possibilità di spiaccicare poche parole in italiano in una apparizione lampo.

Ocean's eleven - Fate il vostro gioco

Steven Soderbergh alla regia in modalità blockbuster. La storia è un remake molto alla lontana dell'omonimo film anni sessanta (in italiano Colpo grosso, che vent'anni dopo passò ad essere associato ad un altro tipo di spettacolo) che aveva lo scopo di offrire uno spazio a Frank Sinatra e al rat pack. Viene cambiata radicalmente ma ne viene mantenuto lo spirito, ovvero la passerella per un gruppo di attori che recitano volentieri assieme.

Vicenda scontatissima, dunque. Ocean è un simpatico delinquente (George Clooney nel ruolo che era di Sinatra) che per un clamoroso errore giudiziario esce sulla parola di prigione. Parola che viene rotta immediatamente per correre a trovare il suo compare (Brad Pitt) a cui spiega il suo piano: derubare il caveau comune di tre casinò di Las Vegas, un colpo dal valore stimato circa pari a quello che sarà l'incasso del film - molto alto invero.

Il piano è praticamente impossibile, come spiega loro un sodale (Elliott Gould) che aveva gestito casinò lui stesso prima di essere fatto fuori da un pesce più grosso. Ma come gli spiegano che intendono colpire il Bellagio, accetta di entrare nel lavoro. Motivo? Il proprietario del Bellagio è proprio quel tipaccio (Andy Garcia) che l'ha fatto fuori.

Si reclutano gli altri elementi della banda, ognuno con la sua specifica abilità - ad esempio c'è un giovane manolesta (Matt Damon), un esperto di esplosivi, uno di sistemi di sicurezza eccetera.

Il piano entra in azione, la banda si installa sul luogo del colpo e iniziano i sopralluoghi - e qui si scopre che la rapina non è l'obiettivo principale di Ocean, infatti la sua ex moglie (Julia Roberts) ora bazzica con il boss del casinò. Colpo di scena, dunque. Non si tratta di un film di delinquenza ma una commedia rosa, dove il protagonista cerca di riconquistare la sua donna. Ci riuscirà? La risposta è facile, ma la domanda è sbagliata. La domanda corretta è: come farà? Del resto è la stessa per la rapina. O meglio, per il punto delicato della stessa, come scappare con i soldi senza farsi pizzicare.

Ma in realtà, come detto all'inizio, anche quella domanda è poco pertinente. Il vero interesse nel film sta nel vedere tale compagnia in azione sotto la direzione di Soderbergh. Bella la colonna sonora che ricorda le atmosfere da night club anni sessanta - citazione dell'originale.

Anatomia di un omicidio

Un avvocato deluso dal proprio lavoro (James Stewart) si trova per le mani un caso di omicidio che sembra non portare da nessuna parte. Lo accetta lo stesso, forse giusto per fare un favore ad un suo amico e collega, coinvolgendolo nel lavoro preparatorio e allontanandolo così dalla bottiglia.

Il caso sembra perso in partenza. L'assassino confesso (Ben Gazzara) ha ucciso un tale che ha violentato sua moglie (Lee Remick). Lui militare facile all'ira, lei molto sbarazzina (non solo per i canoni della provincia americana degli anni '50).

Il tutto sembra abbastanza scontato (al giorno d'oggi, ma ai tempi deve essere stato uno shock - parlare di stupro al cinema!) ma Otto Preminger (regia e produzione) confeziona un prodotto di gran classe, usando a sorpresa una colonna sonora eccezionale firmata da Duke Ellington (che appare anche in un duetto al piano con Jimmy Steward) che dà un tono da commedia sofisticata a quello che si configurerebbe piuttosto come un dramma a fosche tinte.

In tribunale, inoltre, lo scontro da Steward e George C. Scott, nei panni di un pezzo grosso dell'avvocatura di stato giunto a dare manforte al pubblico ministero locale, fa faville. Da notare anche che il giudice è interpretato da un vero giudice, Joseph N. Welch, uno che non le mandava a dire neanche nella vita reale. Interessante anche il realismo, direi quasi cinismo, con cui tutte le parti affrontano il processo. L'accusa nasconde le prove che non gradisce, la difesa aggiusta la realtà per crearsi una linea che possa tenere, il giudice finisce per appoggiare la difesa quando scopre di avere in comune la passione per la pesca.

Notevole il cast, tenendo conto che Gazzarra, Scott, e la Remick erano poco noti e all'inizio di carriera.

Senza un attimo di tregua

Primo film americano di John Boorman che mescola una azione di ambientazione malavitosa con temi e stili da nouvelle vouge. Il risultato mi lascia un po' perplesso ma non è privo di un suo bizzarro fascino.

La storia ha una sua brutale semplicità. Un losco figuro (Lee Marvin) viene coinvolto da un tipaccio suo amico in un colpo ai danni di altri delinquenti. L'amico però scopre che il bottino è inferiore alle sue aspettative e si vede costretto a eliminare il compare piazzandogli un paio di proiettili in pancia. Già che si trova, gli porta pure via la moglie. Soprendentemente (ma forse no) il protagonista sopravvive, e cerca la sua vendetta. L'ex amico è parte di una misteriosa organizzazione, e il nostro eroe ne domolisce gran parte della struttura con l'unico scopo dichiarato di riavere indietro la parte di bottino che gli spettava.

A complicare questo semplice racconto interviene il montaggio, con flash back e scarti temporali, e la regia che muove la macchina dando a volte l'impressione di seguire una allucinazione più che la realtà - sensazione che viene rinforzata da una colonna sonora che pare mirare ad innervosire lo spettatore.

Mi verrebbe da fare qualche ipotesi interpretativa su tutto ciò, la più semplice delle quali è che Boorman abbia semplicemente voluto giocare mettendo assieme ingredienti che non sembrano fatti per mescolarsi facilmente. Un'altra curiosa possibilità è che ci voglia suggerire che, in realtà, quello che vediamo non è altro che il frutto della distorta immaginazione di un disgraziato che si trova morente in una cella di Alcatraz, senza aver capito neanche bene perché. Può sembrare una interpretazione forzata, ma nel corso dello sviluppo dell'azione ci vengono dati alcuni agganci interessanti. Dopo il prologo, troviamo il protagonista su un battello turistico che fa il giro di Alcatraz, e sentiamo sullo sfondo la guida raccontare di come fosse praticamente impossibile allontanarsene fortunosamente, figuriamoci con due pallottole in corpo. Più avanti, la cognata gli dice cose come "sei morto ad Alcatraz", "smettila di sbatterti e lasciati morire". Il finale, poi, potrebbe essere letto come il ragionamento finale del moribondo che, dopo aver valutato cosa avrebbe voluto fare per avere la sua vendetta, avrebbe scoperto che tutto ciò non gli avrebbe dato alcuna soddisfazione.

Magnolia

Un paio di volte, forse tre, sono stato sul punto di mandare a quel paese Paul Thomas Anderson, responsabile assoluto del film in quanto l'ha scritto, prodotto e diretto, e mettermi a fare altro, invece che perder tempo dietro ad una vicenda che sembra intenzionalmente narrata con lo scopo di far scappare il pubblico.

I motivi per evitare questa visione sono ottimi e abbondanti. La lunghezza eccessiva, ad esempio. Tre ore in cui si seguono senza fretta, quasi in tempo reale, le vicende di un nugolo di personaggi che interagiscono debolmente da qualche parte in California. Detto così ricorda America oggi di Robert Altman - aggiungiamoci pure Julianne Moore che è presente in entrambe le pellicole, giusto per confondere ancor di più le acque. Però Altman, basandosi su scritti di Raymond Carver, ci propone un imponente affresco sull'umanità in crisi. Qui invece non capisco dove si vada a parare. Il caso come assurdo rimescolatore dei destini? O la negazione della casualità, cercando di estrapolare un senso dove sembrerebbe impossibile vederne uno?

La colonna sonora è molto bella, ma non mi è piaciuto il suo uso. Spesso sovrasta l'azione, creando una saturazione sensoriale (la macchina da presa si muove mostrando nuovi dettagli, i personaggi parlano sullo sfondo), evidentemente voluta dal regista ma anche qui non capisco bene a che scopo. Ci si vuole forse dire che, dopotutto, le vicende narrate non sono poi così importanti e di godersi piuttosto le immagini e la musica? E c'è bisogno di insistere per tre ore nel ripetere lo stesso concetto?

D'altro canto l'intreccio delle storie è interessante, la regia ha una sua notevole personalità, e il livello recitativo è notevole. Da cui il mio imbarazzo se dovessi consigliare o meno la visione a qualcun altro. Penso sarebbe opportuno vederselo un paio di volte - non di fila, non mi pare umano - e magari aiuterebbe sentirsi prima la colonna sonora, in modo da ridurre il sovraccarico in informazioni che ci vengono sparate nella visione.

La vicenda si svolge attorno a un telequiz che contrappone una squadra di adulti (tra i quali spicca Luis Guzman, con il suo faccione molto riconoscibile) e una di bambini, in onda da decenni.

Il produttore originale del programma (Jason Robards) sta morendo di cancro, accudito da un infermiere un po' bambinone ma dal buon cuore (Philip Seymour Hoffman) e dalla giovane seconda moglie (Julianne Moore). Il moribondo ha un figlio (Tom Cruise) avuto dalla prima moglie, a sua volta morta di cancro molti anni prima, dopo che il marito la aveva abbandonata. Costui ora insegna agli uomini a comportarsi da macho, in un poco chiaro tentativo di vendicarsi dell'abbandono paterno.

Il conduttore del programma (Philip Baker Hall) è ancora al lavoro, ma ha un cancro anche lui, anche se al momento lo sanno solo la moglie (Melinda Dillon) e pochi intimi. Cerca di dirlo alla figlia (Melora Walters), che però non vuole nemmeno ascoltarlo - lei sniffa quantità spropositate di cocaina, fa sesso casuale (forse a pagamento), e sembra avere forti motivi per rifiutare così decisamente il padre. In seguito al litigio, cerca di sfuggire alla depressione ascoltando musica a palla mentre si droga. Di conseguenza i vicini chiamano la polizia e arriva un poliziotto bonaccione (John C. Reilly) che non si accorge di quanto sia tossica la ragazza e si innamora istantaneamente di lei.

Un partecipante al programma di molti anni prima, in cui aveva vinto molti soldi, ora è un fallito (William H. Macy) che viene licenziato dal suo capo (Alfred Molina) per manifesta incapacità dopo lunghi anni di sopportazione. Costui è segretamente innamorato di un barista, e per lui si vuol mettere un apparecchio ai denti - pur non avendone bisogno, per pura emulazione - e dunque ha bisogno di soldi.

Un partecipante al programma di quel giorno è un bimbo in pratica costretto dal padre a studiare fatti strani e che si trova inscatolato in un ambiente in cui non sembra trovarsi molto a proprio agio.

Wimbledon

Commedia romantica in ambiente tennistico inglese, che ha la sua unità temporale nelle settimane in cui, per l'appunto si svolge il ben noto torneo. Lo svolgimento è molto prevedibile, ma è girato con garbo (Richard Loncraine) sulla base di una sceneggiatura di Adam Brooks non stravolgente ma piacevole. Non sono un fan del tennis, eppure i tempi del gioco hanno una grossa parte nel mostrarci il cambiamento del protagonista, e scorrono bene nella sviluppo della vicenda.

Un tennista un tempo noto, ma ormai a fine carriera (Paul Bettany, decisamente in ruolo) affronta senza grosse aspettative la sua ultima partecipazione a Wimbledon, ben deciso a ritirarsi comunque vada a finire. Però una giovane tennista americana (Kirsten Dunst, poco più di un ruolo di supporto) praticamente combina per divertirsi un po' con lui, di nascosto dal padre-manager (Sam Neill). Non è chiarissimo il punto, ma pare proprio che la giovincella sia solita avere avventurette con colleghi tennisti, come rilassante pre-torneo. Lei è molto americana, e dunque molto competitiva, lui molto inglese, con famiglia che ricorda quella di Bridget Jones (ma ricca). Riuscirà il nostro eroe a vincere il torneo e il cuore della sua bella? Tra i ruoli minori, da notare Jon Favreau nelle vesti di un agente che dimostrerà di avere anche un briciolo di umanità. A proposito, non esiste un "cattivo" vero e proprio, al massimo c'è un precedente amante abbandonato dalla sbarazzina tennista, per il resto siamo in un mondo popolato da brave persone - un po' irrealistico, a ben vedere, ma che diamine, un film così ogni tanto ci vuole pure.

Mr. Nobody

Dopo aver visto sui titoli di testa un piccione che dimostra di essere più capace di apprendere dall'esperienza molto più di molti umani, vediamo il protagonista (Jared Leto) morire una serie di morti e poi riapparirci vivo, vegeto e incredibilmente vecchio (applausi a scena aperta per il trucco e per Leto) in un inquietante e variopinto futuro.

Il vecchissimo signor Nemo Nobody è ai suoi ultimi giorni e un futuribile strizza sta cercando di capire qualcosa di lui, così alieno dalla loro civiltà. Non ne cava molto. Ci prova pure uno spaesato giornalista introdottosi di soppiatto nella clinica in cui Nobody è ricoverato, in attesa che si decida il suo futuro, ottenendo anche lui una serie di schegge di memorie di quelle che sembrano vite diverse, e che - sia detto per inciso - finiscono tutte male.

Occorre non farsi prendere dall'agitazione e lasciarsi condurre in questa sorta di strano sogno da Jaco Van Dormael (che ha scritto e diretto il film) e, poco a poco, quello che sembra un marasma contraddittorio finisce per assumere un suo senso.

Diversi i temi trattati, ma direi che il principale è il senso della vita, e a questo proposito non si può fare a meno di pensare all'omonimo film dei Monty Python - in una scena compare perfino un gigantesco piede che schiaccia una casa - però qui vengono lasciate almeno un paio di porte aperte alla speranza. Nonostante tutto, in questa vita esiste una piccola possibilità di felicità. E poi si può sperare che la fine di tutto non sia che un inizio sotto mentite spoglie.

Parte del leone per Leto, affiancato, tra gli altri, da Diane Kruger, Sarah Polley, e Chiara Caselli (particina microscopica, chiede l'elemosina in stazione, stramazza forse per overdose, dando modo a uno dei possibili Nobody di reincontrare il suo amore - bizzarro notare che il regista appare anch'egli in un minimo ruolo, come disoccupato brasiliano che, bollendo un uovo, causa involontariamente la nuova perdita per lo stesso Nobody del suo amore appena ritrovato).

Sottili e graffianti commenti al nostro sistema sia culturale sia economico-produttivo.

Bella la colonna sonora, con musiche originali di Pierre van Dormael (fratello del regista) integrate con musiche (la Pavane di Gabriel Fauré ripetuta più volte, tra l'altro) e canzoni molto varie.

Truman Capote - A sangue freddo

Ogni tanto capita che vengano prodotti due film molto simili contemporaneamente o quasi, e quello che normalmente ne consegue è che a vincere è quello che ha una migliore distribuzione, che gli permette di uscire sul mercato prima e in maniera più massiccia dell'altro.

Questo è il vincente rispetto a Infamous, anche se a me pare che dal lato puramente artistico la classifica andrebbe ribaltata. C'è anche da dire che le sceneggiature sono così simili che il mio parere è forse distorto dal fatto che è noioso guardare un film in cui si sa cosa sta quasi esattamente cosa sta per succedere.

Entrambi i film raccontano l'esperienza di Truman Capote che lo ha portato a scrivere il romanzo (con forti richiami alla realtà) che è considerato il suo capolavoro - In cold blood - ma pure a rovinargli la vita.

Qui la vicenda mi pare trattata con più freddezza dal regista Bennett Miller (probabilmente succube di Philip Seymour Hoffman, protagonista e tra i produttori) e meno riuscita mi pare anche la rappresentazione di Truman Capote, di cui si perde gran parte dell'aspetto ironico e autoironico che invece rende Toby Jones rende meglio. Per dirla tutta, nel confronto con Jones, mi pare che Hoffman ne esca male - il suo Capote sembra quasi ridursi ad una macchietta.

In Infamous molto più spazio viene lasciato agli ottimi comprimari, mentre qui l'azione viene centrata quasi costantemente su Capote, finendo per lasciare ben poco spazio agli altri attori. E' un peccato, ad esempio, vedere Chris Cooper (nei panni dello sceriffo) non aver modo di fare praticamente nulla.

This is England

Siamo negli anni ottanta, e seguiamo la vicenda di un bambino inglese che si trova in una situazione a dir poco spiacevole. Il padre è morto nella guerra contro l'Argentina per le Falklands/Malvinas; la madre è assente, probabilmente indaffarata a guadagnare abbastanza per far campare la famigliola; il suo abbigliamento non è il linea con i canoni estetici dominanti e questo, come sa bene chi ha avuto quell'età, corrisponde ad una sorte di morte sociale.

Per mancanza di migliori alternative diventa skinhead, e all'inizio gli va pure bene. Il leader del suo gruppetto è tutto sommato un bravo ragazzo che non si fa grossi problemi ideologici. Sono skinhead come potrebbero essere maoisti o filo-eschimesi. La situazione cambia quando un paio di tipacci, caratterizzati come il nerboruto braccio e la mente (Stephen Graham), si uniscono al gruppo e rapidamente lo estremizzano, portandolo sulle posizioni fascisteggianti del Fronte Nazionale. Chi ha abbastanza cervello e consapevolezza di sé scappa (o viene brutalmente espulso), ma gli altri vengono trascinati verso una spiacevole conclusione.

Film evidentemente politico, basato su elementi autobiografici, ben scritto e diretto da Shane Meadows. Direi che l'idea chiave sia che la dismissione dello stato sociale, come è stata compiuta da Margaret Thatcher, ha portato molti più danni che benefici al Paese.

Nel vederlo non ho potuto fare a meno di paragonarlo ad American history X, dove si esplora la galassia dei gruppuscoli filonazisti americani, e a Mio fatello è figlio unico di Luchetti.

Degna di nota la variegata colonna sonora che include pure alcune composizioni di Luigi Einaudi.

Professione assassino

Jason Statham si è creato un personaggio ben riconoscibile: quello del duro che apprezza le ironie della vita, e spesso è capace di riderci su anche dopo essersi preso notevoli tranvate.

Chissà, forse il suo agente gli ha consigliato di diversificare, e lo ha convinto ad accettare il ruolo di protagonista in questo film, che ha una differenza sostanziale rispetto al suo personaggio standard: nessuna ironia. La storia narrata non è originalissima (si tratta di un remake ma non è questo il punto) ma pazienza, dal mio punto di vista il problema fondamentale è che lo svolgimento non è intrigante. Soliti botti e spari, qualche ammazzamento truculento, un po' di sesso. Niente di memorabile.

A ben vedere anche lo sviluppo della storia non è eccellente, e penso che dalle premesse sarebbe stato possibile tirar fuori qualcosa di meglio. Mi limito alle premesse, anche se mi piacerebbe arrivare fino alle conclusioni, tanto non credo che riuscirei a rovinare le attese dello spettatore più di quanto hanno fatto producendo il film. Un tale (Donald Sutherland - bravo, finisce per dare al suo carattere una profondità notevole nonostante i pochi minuti a disposizione) spende tutta la tua vita facendo l'assassino per una misteriosa organizzazione che appalta i suoi servigi al miglior offerente. Ha un figlio (Ben Foster) che però non gli pare tagliato per il lavoro, troppo emotivamente instabile, e dunque si trova un figlioccio (Jason Statham) a cui insegnare la professione. Il vecchio muore, e l'erede designato cerca di ricucire lo strappo tra padre e figlio, insegnando a quest'ultimo i rudimenti del perfetto killer. Tra i due nasce una sorta di feeling, sono quasi sul punto di creare una coppia stabile, ma ci sono forti tensioni che li portano nella direzione opposta.