Susanna

In originale Bringing up Baby, che vuol dire qualcosa come Badando a Baby, dove Baby è il nome di un leopardo che il fratello di Susan (Katharine Hepburn) le ha spedito dal Brasile per la zia (ma Susan fraintende e non ne parla alla legittima destinataria), una placida milionaria (May Robson, nello stesso anno è stata anche zia Polly ne Le avventure di Tom Sawyer) che abita nel Connecticut.

Ma la storia è molto più complicata, siamo infatti nel regno della screwball comedy, in cui regna Howard Hawks (sua la regia, per l'appunto), parente stretta della commedia sofisticata, ma con una attrazione fatale per le situazioni improbabili.

Protagonista maschile è Cary Grant, nei panni di un nerd ante litteram, in versione paleontologo il cui interesse dominante è l'apatosauro di cui sta ricostruendo lo scheletro nel museo per cui lavora. Dopo anni di fatiche, il lavoro è quasi completato, e gli giunge la notizia che l'ultimo osso mancante (una improbabile clavicola intercostale) gli è stata appena spedita. È anche sul punto anche di sposarsi con un'algida collega non ben caratterizzata (e nemmeno interpretata, per dirla tutta). Inoltre deve darsi da fare per convincere una possibile sponsor a concretizzare una possibile donazione di un milione di dollari.

Susan, ricca, sfrontata e con la testa fra le nuvole, gli capita tra capo e collo mentre lui cerca di gestire la complicata situazione, con risultati catastrofici. Anche perché lei si innamora di lui, e ha buon gioco a scompigliargli ulteriormente l'esistenza.

Il lieto fine arriva dopo traversie che includono la scomparsa dell'osso di dinosauro (interrato dal cagnetto della zia di Susan), la ricerca del leopardo fuggito (e se ne trovano due al prezzo di uno), un soggiorno per alcune ore in galera, e alcuni altri fatterelli minori.

L'amore trionferà, persino sul crollo del gigantesco scheletro.

MASH

Visto oggi, è una simpatica commedia in ambito militare incrociata con ER e, nel finale, con il filone dei film in ambito sportivo. Inquadrandolo nel suo tempo, viene da chiedersi cosa sia passato per la mente ai produttori quando hanno puntato su di un regista con una lunga gavetta televisiva ma con una limitata esperienza per il grande schermo, lasciandogli in mano una sceneggiatura che lui ha rivoltato a suo piacimento, generando un film che deve essere risultato indigesto a molti.

Fatto è che il regista era Robert Altman, il film ha fatto un successo notevole, e ha generato come spin-off una lunghissima serie televisiva. Dunque scommessa vinta.

Il ogni caso il budget doveva essere relativamente limitato, e poco ci deve aver guadagnato il cast, che vede tra i personaggi principali Donald Sutherland (Hawkeye), Tom Skerritt (Duke), Elliott Gould (Trapper), Robert Duvall (Burns, niente soprannome per lui) e Sally Kellerman (Hot lips). Non ci si faccia impressionare dai nomi di Sutherland, Gould e Duvall. Soprattutto gli ultimi due dovevano ancora costruirsi un curriculum.

L'azione si svolge in un ospedale militare in Corea, durante la guerra negli anni cinquanta. Ci si può immaginare quanto dei medici reclutati a forza per l'emergenza siano disposti a seguire la disciplina militare, con quel che ne consegue. In particolare, c'è una frizione tra i più svaccati, Hawkeye-Duke-Trapper, e i più inquadrati, Burns-Hot lips, che sfocia in una serie di burle, anche feroci.

Decisamente blasfema una scena, in cui i colleghi organizzano per un medico, votato al suicidio in quanto convintosi di essere diventato omosessuale, una ultima cena che sembra un tableau vivant di quella del Leonardo. Il tutto accompagnato da una canzonetta tra il mesto e l'allegro (che poi è quella famosa, usata anche per i titoli di testa) che è fondamentalmente un inno alla libera scelta sul suicidio. Ma non ci si preoccupi troppo, il depresso scoprirà che il motivo della sua preoccupazione non sussiste, e supererà la crisi.

Bizzarri i titoli di coda. Non sono scritti, ma li sentiamo dall'altoparlante della onnipresente radio da campo.

Una storia vera

Il David Lynch che non ti aspetti. Il confronto col contemporaneo Mulholland Drive fa quasi dubitare che si tratti dello stesso regista. Anche se, facendo attenzione, si finisce per notare la stessa mano. A volte, certi movimenti di camera, l'uso della colonna sonora (del fido Angelo Badalamenti), fanno temere che stia per succedere qualcosa di bizzarro, sorprendente e terribile, ma è un film per tutti, distribuito dalla Walt Disney perfino, e anche gli incontri potenzialmente più pericolosi, si risolvono con pochi patemi.

Il titolo originale è un gioco di parole che si è perso nella traduzione. The stright story significa infatti qualcosa come La storia così come è successa, ma anche La storia di Stright, e infatti si narra un episodio della vita di Alvin Straight (Richard Farnsworth, suo ultimo film, già sceriffo in Misery non deve morire), persona realmente esistita e nota alle cronache, per l'appunto, per questa faccenda.

Succede che, ormai ultrasettantenne, ad Alvin viene un colpetto. Niente di terribile, ma il dottore gli fa capire che o cambia le sue abitudini di vita, o deve cominciare a pensare che si stia avvicinando la chiusura di partita. E lui non ha nessuna voglia di rinunciare, ad esempio, ai suoi amati sigari. Succede anche che pure al fratello piglia un colpo, e si suppone che anche a lui resti ben poco da vivere. Bisogna sapere anche che i due hanno avuto un conflitto in passato, e da allora non si sono rivolti più la parola. Vivono entrambi nel mid-west americano, ma ad alcune centinaia di chilometri (pardon, miglia) di distanza. Lui ha una figlia (Sissy Spacek) con qualche problema mentale che vive con lui.

Alvin decide di partire e andare a far visita al fratello, per cancellare quello stupido litigio che li ha separati. Però non può viaggiare in macchina, la figlia non può aiutarlo, e andare con i mezzi pubblici è praticamente impossibile. Decide perciò di partire con il suo trattorino che usa per tagliare il prato.

Gran parte del tempo, come ci si può aspettare, non succede niente. Eppure è un film affascinante. Verso la fine del lungo viaggio (più di un mese), una signora chiede ad Alvin se non ha avuto paura a star solo di notte nel nulla di quelle campagne infinite, con tutta la gente pericolosa che gira. Alvin le risponde che, avendo fatto la guerra in Europa, non trova così preoccupanti le notti all'addiaccio nello Iowa. E in effetti gran parte degli incontri di Alvin sono con gente alla buona, che non vuole altro che essere gentile con lui, come lui lo è con loro.

E forse è proprio questa la chiave di lettura del film.

Mystic Pizza

Film che volevo vedere da tempo immemorabile, pur non aspettandomi niente di buono. Noto per essere il primo ruolo importante di Julia Roberts (Pretty woman è di due anni dopo) e prima apparizione sullo schermo di Matt Damon (che ha un paio di battute) e, naturalmente, per essere ambientato a Mystic, amena località turistica nel Connecticut, poco lontana da New York (per gli standard americani).

La prima ora è una noia unica. Tenderei a dare la colpa al regista (Donald Petrie) ma anche la sceneggiatura (Amy Holden Jones) non mi pare particolarmente ispirata. Fortuna che c'è un risveglio nella seconda parte, più della storia che della direzione, che rende il risultato tutto sommato accettabile.

Si racconta di due sorelle, Kat e Daisy, (Annabeth Gish e Julia Roberts) e la loro amica Jojo (Lili Taylor - che l'anno successivo avrà un piccolo ruolo in Non per soldi... ma per amore), che dovrebbero essere tutte tre attorno ai 18 anni o poco più, e che non fanno parte della comunità turistica e benestante di Mystic, ma di quella squattrinata che campa vendendo pizza o pescando aragoste. Sono tutte (almeno teoricamente) di etnia portoghese, che pare sia una fiorente comunità locale. A dire il vero nessuna delle tre ha le caratteristiche somatiche adatte, e nel resto del cast si notano facilmente attori italo-americani che devono essere stati considerati sufficientemente sud-europei per lo spettatore americano. Ma è un dettaglio minore.

Kat è la secchiona, sta per andare all'università, niente meno che a Yale, anche se il costo della retta spaventa. Daisy è la ragazzaccia sfrontata, anche se nella seconda parte scopriremo che è tutta immagine. Jojo è la confusionaria, unica delle tre ad avere un ragazzo (Vincent D'Onofrio) di cui è innamorata, però non sa. Kat si innamora di un architetto di passaggio, un trentenne sposato con figlia, e Daisy di un coetaneo di famiglia ricca (molto ricca, gira in Porsche). Il formato è quello della commedia romantica, e dunque le cose vanno un po' bene, un po' male, fino al lieto fine che premia (quasi) tutti.

Non per soldi... ma per amore

Prima regia di Cameron Crowe, che in originale ha il più sobrio titolo di Say anything..., ha ottenuto in patria un successo che mi pare superiore ai reali meriti della pellicola, che pure non è male, ma risente, a mio avviso, di una sceneggiatura (sempre di Crowe) che meriterebbe una riscrittura, e una regia ancora un po' acerba.

Come sarà tratto distintivo anche dei successivi film di Crowe, la musica ha un ruolo importante, al punto che l'immagine-simbolo è quella del protagonista (John Cusack, primo ruolo da protagonista in un film di un certo peso) che tiene sollevato uno di quei radioloni molto anni ottanta, da cui viene sparato a tutto volume In your eyes di Peter Gabriel.

La storia è quella di una coppia anomala di giovinastri, colti al momento del diploma. Lei (Ione Skye) ha puntato tutto sullo studio, spinto dal padre (John Mahoney) che cerca nella vita della figlia una rivincita per la propria. Lui (Cusack) non sa bene che fare, il padre è un militare di stanza in Europa, e vorrebbe che il figlio seguisse le proprie orme, ma è una carriera che non fa per lui, e pensa invece di dedicarsi alla kickboxing (attività di cui vediamo qualche sequenza). Non si sa bene come mai, lui si innamora di lei, lei non sembra molto convinta, anche perché vince una borsa di studio per una università londinese, e deve partire nel giro di poche settimane. Il padre, evidentemente, non vede di buon occhio il pretendente della figlia, e succedono altre cosette che complicano ulteriormente la situazione.

Ma niente paura, è una commedia, tutto andrà a posto prima dei titoli di coda.

7 psicopatici

Nonostante i numerosi rimandi "pulp", non è un film alla Quentin Tarantino, da cui si distacca per il punto di vista dello sceneggiatore-regista (e pure co-produttore) Martin McDonagh, che è esplicitamente contrario alla violenza, che pure mostra a piene mani. Siamo più dalle parti dei fratelli Coen, tra l'altro, la colonna sonora mi ha fatto pensare a Blood simple, visto di recente, e infatti è scritta da Carter Burwell, che ha firmato pure In Bruges.

Rispetto al precendente In Bruges, McDonagh sposa più decisamente il mezzo cinematografico, pur continuando a basarsi su una sceneggiatura estremamente ben scritta, quasi come se sia stata pensata originariamente per il teatro, ricchissima di rimandi nelle situazioni, nei personaggi, nei loro nomi, nei loro interpreti.

L'azione comincia con due killer (Michael Pitt, come non pensare a Funny games, e Michael Stuhlbarg, protagonista di A serious man dei Coen) intenti in una chiacchierata pre-omicidio che ricorda quella di Travolta/L. Jackson in Pulp fiction, ma poi le cose vanno a finire in modo completamente diverso.

Dopo questo prologo, facciamo conoscenza del protagonista, uno sceneggiatore (Colin Farrell) di origine irlandese che ha venduto una storia ad uno studio di Hollywood, nonostante che abbia al momento solo il titolo (Sette psicopatici, per l'appunto). La sviluppo non viene, e lui si dedica al suo hobby preferito, che sarebbe poi ubriacarsi. Casualmente sobrio, va al cinema a vedere un film di Takeshi Kitano con un suo amico (Sam Rockwell), attore disoccupato che sbarca il lunario riportando cani smarriti ai legittimi proprietari (dopo averli lui stesso sottratti). Nobile attività a cui si dedica in combutta con un tale (Christopher Walken, ancora Pulp fiction, dunque) molto religioso e di origine polacca, al punto da far di cognome Kieslowski (!!!). Ma se a "perdere" il cane è un piccolo boss molto violento (Woody Harrelson, Natural born killers, Non è un paese per vecchi, chiamato a sostituire Mickey Rourke che forse si aspettava qualcosa di più tarantiniano), la vicenda può prendere una brutta piega.

Le cose sono molto più complicate di quanto si può immaginare, al punto che ad un certo punto appare pure un serial killer di serial killer (Tom Waits), che afferma di aver partecipato, tra l'altro, anche all'esecuzione di Zodiac. E la stessa capriola viene fatta riguardo alla stessa trama del film, che diventa quasi pirandelliana.

Il ministro - L'esercizio dello Stato

A parte alcuni sprazzi molto vividi, a partire dalla surreale sequenza iniziale, bizzarro incubo del protagonista che spiega molto sul suo stato d'animo, il tono principale del film è un grigio spento, tipico di un rodato apparato burocratico quale è quello dello Stato francese.

Scritto e diretto da Pierre Schoeller, ci mostra un passaggio importante nella vita di un politico d'oltralpe (Olivier Gourmet). Tutto sommato si tratta di un brav'uomo, cerca di fare il suo lavoro, barcamenandosi tra le contingenze del governo. Ha dei dubbi sulla sua vita, che vengono magnificati dal contatto con il suo nuovo autista, un taciturno precario quarantenne che sostituisce per un mese il titolare, in licenza di paternità. Vorrebbe lasciare la politica, anche perché sembra confusamente rendersi conto di non avere più una vita privata, ma non riuscirà a resistere alla prospettiva di un rimpasto che lo porterà ad un ministero più importante.

Molto realistico il dettaglio sui telefoni, usati a profusione da tutti quanti, che finiscono per trasbordare sullo schermo (quando ci viene mostrato in sovraimmpressione il contenuto dell'SMS letto dal personaggio).

Tra i personaggi secondari spicca Michel Blanc (già "contro" Benigni ne Il mostro), nei panni del principale aiuto del ministro, un servitore dello Stato nel senso più completo del termine.

Sorprendente la colonna sonora, basata quasi completamente su musica contemporanea (che poi ho visto essere scritta dal fratello del regista, Philippe Schoeller, che ha un lungo curriculum come compositore, e studi con gente come Pierre Boulez e Franco Donatoni) che sottolinea egregiamente la disarmonia nella vita del protagonista.

Diaz: Don't clean up this blood

Docudrama sul finale del G8 a Genova nel 2001, centrato sull'assalto della polizia alla scuola Diaz e sui susseguenti drammatici fatti. La sceneggiatura (di Daniele Vicari, anche regista) si basa principalmente sugli atti processuali, cambiando i nomi delle persone coinvolte e qualche circostanza.

Direi che il risultato dipende molto dallo spettatore. A chi conosce già i fatti, la loro riproposizione in maniera romanzata potrebbe risultare poco interessante - almeno, questo è stato il mio caso. E infatti, sapendo che questa era la struttura del film, non avevo particolare interesse a vederlo. Mi è capitato. C'è da dire, però, che per chi non sapesse cosa è accaduto ai tempi, la storia narrata potrebbe spingere a farsi qualche domanda.

Il film è disegnato secondo il modello classico dei film catastrofisti corali. Poca enfasi sul singolo personaggio, di cui viene mostrato rapidamente un minimo di contesto e la sua partecipazione alla sciagura. La regia è sufficientemente abile nel tenere il bandolo della matassa, ma la sceneggiatura risulta, dal punto di vista umano, spezzettata e poco incisiva e il buon cast (Elio Germano, Mattia Sbragia, Renato Scarpa, Claudio Santamaria, Jennifer Ulrich, Fabrizio Rongione, ...) non ha modo di farsi valere. Il centro dell'azione è il brutale pestaggio, tutto il resto rimane sfocato sullo sfondo.

Come confronto, proporrei la visione di Romanzo di una strage di Marco Tullio Giordana che, pur essendo simile come idea iniziale, svolge l'azione isolando due personaggi principali e, prendendosi maggiori libertà narrative, ottiene un risultato finale che mi sembra più convincente.

Tecnicamente, mi pare interessante che si sia lasciato parlare i tedeschi in tedesco, i francesi in francese, e si sia usato l'inglese come lingua franca. L'italiano (con inflessione romanocentrica), ovviamente, spadroneggia, e dunque i sottotitoli appaiono solo per una piccola frazione del tempo complessivo. Ma è comunque un coraggioso passo in avanti rispetto a quello che succede normalmente nei film distribuiti in Italia.

Ralph Spaccatutto

Mi pare che sia stato costruito pensando di farne una serie, al punto che una delle ultime battute del protagonista (che in originale ha la voce di John C. Reilly) è un "to be continued", seguito da una serie di finali (alla Signore degli anelli) che narrano quello che potrebbe essere l'intermezzo tra questo e il secondo episodio che non verrà trasformato in pellicola, ma farà da base per i successivi sviluppi.

Come spesso succede in questi casi (vedasi il reboot del pianeta delle scimmie) si perde molto tempo ad esplorare lo scenario della (possibile) saga, e si riduce di conseguenza lo spazio relativo alla storia vera e propria che viene narrata.

Basandosi all'incirca sull'immaginario di Tron (o meglio, del suo sequel, Tron: Legacy) seguiamo le avventure di un alcuni personaggi di videogiochi, a partire da un vecchio gioco anni ottanta, misteriosamente ancora popolare nella sala giochi dove si svolge la storia. Ralph Spaccatutto, essendo un bonaccione, si stufa di trent'anni di onorato servizio come pretesto per il vero protagonista del gioco (una specie di Super Mario con la voce - e alcune espressioni - di Jack McBrayer) per riparare i danni che quel presunto cattivo produce. Seguendo la rete elettrica, tutti i giochi di quel micromondo sono connessi, così Ralph ne approfitta per andare in uno sparatutto, dove causa una certa quantità di danni, e infine in un folle gioco che ricorda le gare con Penelope Pitstop (antica serie animata della Hanna & Barbera). Lì conosce una ragazzina che vorrebbe partecipare alle gare ma viene isolata in quanto malfunzionante. E finalmente la storia parte per davvero.

Numerose citazioni a giochi e film di fantascienza dei decenni passati (I cattivi vengono da Alien, e la gara automobilistica ricorda molto quella di Star wars I - La minaccia fantasma), condita con musica pop giapponese e altre bizzarrie di inizio millennio, come l'effetto catastrofico che risulta nel lasciar cadere una Mentos nella Coca Cola Light.

Le belve

Solita misteriosa traduzione del titolo, dall'originale Savages, che fa perdere un cambio di prospettiva che la protagonista narratrice (Blake Lively) compie nel finale, dopo che in tutto il film ognuno dà (non del tutto ingiustificatamente) del selvaggio all'altro, lei si appropria dell'aggettivazione, dandole un significato positivo, un po' alla Rousseau.

La sceneggiatura adatta il romanzo omonimo di Don Winslow, in un lavoro a tre che ha unito l'autore letterario, il regista (Oliver Stone, brillante), con Shane Salerno a far da mediatore. Il riferimento a Natural born killer (scritto da Tarantino, diretto da Stone) mi pare evidente, anche se non particolarmente enfatizzato, come pure quello a Traffic, versione Soderbergh. Credo che gli agganci siano stati utilizzati da Stone per tranquillizzare i produttori, che sono più a loro agio in queste condizioni. E questo spiegherebbe la partecipazione di John Travolta (poteva essere agevolmente sostituito da un altro attore con un cachet meno pesante), Salma Hayek e Benicio Del Toro (soprattutto il secondo bene in parte).

Speso gran parte del budget per il cast con i tre sopra citati, si è mirato al risparmio sul terzetto protagonista, oltre alla Lively, Taylor Kitsch (il brutale), e Aaron Taylor-Johnson (l'etereo). I due, dal carattere complementare, condividono la passione per la produzione e la commercializzazione della marijuana, oltre che per la gentil fanciulla.

Succede però che un cartello della droga messicano, guidato dalla Hayek che ha Del Toro come tirapiedi, si metta in mente di mangiarsi quel pesce piccolo ma redditizio, in modo da bilanciare problemi di liquidità causati dall'aggressività di un cartello concorrente (quello di El azul). Al centro delle danze si viene a trovare un agente della DEA (Travolta) che protegge o tradisce un po' tutti quanti, a seconda delle convenienze del momento.

Bella colonna sonora, basata su una collezione di successi musicali più o meno in tema, tra cui trova spazio anche uno stralcio dalla prima sinfonia di Brahms. Non poteva mancate Legalize it di Peter Tosh, ho notato inoltre Romance in Durango di Bob Dylan (più conosciuta da noi per la cover di Fabrizio De André, Avventura a Durango), una bizzarra versione di Psyco killer (l'originale è dei Talking heads) e, in limine, una versione malese di Here comes the sun (dell'indimenticabile George Harrison).

Soul kitchen

Direi che sia comprensibile sia l'entusiasmo di alcuni (vedi ad esempio i premi raccolti a Venezia) sia le perplessità di altri (tra cui La Tosca) per questo film scritto e diretto da Fatih Akin.

Nonostante il budget limitato, il risultato è tecnicamente ineccepibile (la macchina da presa è sempre al posto giusto, bella fotografia, simpatica colonna sonora, molto soul, ovviamente), la storia è piacevole, la recitazione di buon livello.

Lascia forse un po' a desiderare la sceneggiatura, che finisce per trascurare gran parte degli innumerevoli filoni presentati, e mescolando in modo a tratti non troppo convincente ingredienti fin troppo diversi tra loro.

Si narrano le comiche disavventure di un greco-tedesco (Adam Bousdoukos) che gestisce un ristorante di infima categoria ad Amburgo. Ci ha messo una gran passione per avviarlo, poi qualcosa deve essere andato storto, e ha finito per rassegnarsi ad una mesta sopravvivenza, offrendo pasti disillusi a clienti altrettanto desolati.

Il film inizia quando tutti i nodi vengono al pettine. La fidanzata se ne vola in Cina per seguire il suo sogno di carriera; il fratello galeotto (Moritz Bleibtreu) lo tampina; l'ufficio delle tasse gli pignora lo stereo, per stimolarlo a pagare gli arretrati; un vecchio amico (Wotan Wilke Möhring) è così interessato al suo posto (media l'interesse di un perfido speculatore, interpretato niente meno che da Udo Kier) da creargli una serie di problemi aggiuntivi. A completare il drammatico quadro, arriva pure un perfido mal di schiena che sembra essere la mazzata finale, rendendogli difficile quasi ogni movimento.

Come spesso accade (almeno al cinema), quella che sembra essere la stoccata conclusiva risulta essere il giro di volta. Costretto dagli eventi, finisce per contattare un burbero chef (Birol Ünel) che, se pur a modo suo, finisce per riportare il locale nella direzione "soul" iniziale che era andata chissacome persa. L'impossibilità di vedere un medico (non avendo una copertura sanitaria degna del nome) lo porta a frequentare una bella fisioterapista. La necessità di delegare, lo porterà a doversi fidare del fratello con amicizie pericolose.

Non che tutto fili liscio come l'olio, anzi, ma la necessità di un cambiamento finisce per avere un impatto positivo sulla vicenda.

Avrei preferito una minor complicazione della storia, e un maggior approfondimento dei personaggi minori, tutti disegnati con gusto, ma senza dare quasi a nessuno il tempo sufficiente per raccontare almeno una parte della loro storia.

Amour

Una delle storie tipiche che noi umani ci raccontiamo davanti al fuoco (o allo schermo) è quella di Lui e Lei che si vedono, si piacciono, superano una qualche difficoltà (in genere rappresentata da un Altro), e poi vivono per sempre felici e contenti.

Raramente si specifica cosa voglia mai dire "per sempre", unità di tempo che a noi, miseri mortali, è negata. In Revolutionary road, ad esempio, scopriamo che anche per una coppia che sembrerebbe destinata all'eternità, "per sempre" può voler dire qualche anno, e che il fuoco originario si può trasformare rapidamente in cenere.

Michael Haneke ci narra invece un caso che "per sempre" arriva a quello che è il nostro limite naturale. Poco sappiamo del passato della coppia (gli splendidi Emmanuelle Riva e Jean-Louis Trintignant), ma per quel poco che scopriamo, hanno una bella figlia (Isabelle Huppert), sembrano brave persone, hanno buone relazioni, sembra che abbiano avuto una storia d'amore classica (e non si parla nemmeno di grandi difficoltà), e vissuto da allora "per sempre" assieme.

L'inghippo arriva quando oramai sono ultraottantenni. In brevissimo tempo passano da una normale vita da persone anziane con svariati interessi culturali, soprattutto musicali, ad una specie di inferno casalingo. Lei subisce un primo colpo che la lascia semiparalizzata, incapace di provvedere a sé stessa, anche per andare in bagno deve affidarsi a lui, e poi un secondo colpo, che rapidamente le offusca la mente.

Non è uno spoiler dire che lei morirà, perché lo scopriamo subito, alla prima scena, tutto viene narrato in un lungo flashback il cui scopo è spiegare quanto costi alla coppia arrivare al finale, come mai non troviamo lui nell'appartamento, e come mai lei giaccia nel letto con in mano un mazzolino di fiori, e circondata da tanti fiori senza gambo, solo corolle, quasi fossero tante piccole stelle.

Come accade nei suoi film, Haneke non prende posizione su quello che succede, ce lo racconta, e lascia che sia lo spettatore a tirare le sue conseguenze. Ci mostra come nella coppia, ad essere in imbarazzo è lei, che si vede costretta a dipendere da lui. Lui cerca di spiegarle che la situazione non gli pesa, non ne è ovviamente felice, ma sapeva bene che poteva accadere, e poteva essere lui ad avere bisogno delle cure di lei. Lei ammette che ci aveva pensato, ma rimarca che una cosa è immaginare, altro è vivere. Vedere narrata una situazione del genere da un regista molto realista, come Haneke è, è una via di mezzo tra immaginarselo e viverlo.

Ho letto da qualche parte che il titolo è farina del sacco di Trintignant. Haneke aveva in mente alcuni titoli, ma nessuno lo soddisfaceva. A un certo punto Trintignant gli dice che, siccome il film parla di amore, non sarebbe una cattiva idea intitolarlo semplicemente amore. Haneke ci pensa su un attimo, ammette la sensatezza del ragionamento, accetta la proposta.

Blood simple - Sangue facile

Primo film dei fratelli Joel e Ethan Coen, che ha subito una leggera ripulitura quindici anni dopo il primo rilascio, catalogata come "director's cut". La differenza sostanziale, per quel che posso ricordarmi, sta nell'autoironico pistolotto iniziale di un presunto esperto cinematografico che racconta, senza entrare nei dettagli, di come la pellicola abbia tratto notevoli vantaggi dall'operazione.

Tipica storia dei Coen, girata leggermente sotto budget e con qualche rallentamento di troppo nella sceneggiatura, lievi difetti che spariranno dal resto della produzione di famiglia.

A far da narratore è un investigatore privato (M. Emmet Walsh), piuttosto male in arnese, che gira su un vecchio maggiolino (non esattamente una macchina adatta per passare inosservati in Texas) e ha confuse simpatie comuniste. È stato ingaggiato da un marito geloso (Dan Hedaya), proprietario di uno di quei bar che verrebbe da chiamar saloon, per tenere sotto controllo la scalpitante moglie (Frances McDormand al primo film), che in effetti lo cornifica con un suo barista (John Getz). Molta tensione già nella prima mezz'ora, ma i danni fisici si limitano ad un dito rotto e un fenomenale calcio in un posto che, soprattutto per gli uomini, è veramente molto doloroso.

Seguendo la tipica struttura dei film dei Coen, ogni personaggio continua a fare scelte errate, a dar per scontato quel che vero non è, e a causare da solo la propria sciagura. Il marito chiede al detective di uccidere moglie e amante. Il detective pensa ad uno schema per incassare i soldi promessigli dal suo cliente riducendo al minimo il suo rischio. L'amante pensa che la sua bella sia capace di uccidere (o almeno, di tentare di farlo). La moglie è a suo modo innamorata del marito, forse ha più dubbi sull'amante.

A noi, che abbiamo sott'occhio (quasi) tutti gli elementi, i personaggi finiscono per fare quasi pena (viene da dire "è lì l'accendino!", "non è stata lei, pezzo di idiota!", eccetera). Però bisogna ammettere che, date le condizioni di partenza, la storia regge.

Debutto anche di Carter Burwell, che ha scritto le musiche originali. In pratica un solo brano, ripetuto più volte, ma perfetto nel sottolineare l'atmosfera del racconto.

Happy family

Mi pare che Magnifica presenza di Ozpetek condivida con questo titolo firmato da Gabriele Salvatores (e scritto da Alessandro Genovesi) l'idea di fondo. Il protagonista vive in un mondo suo, facendo un salto nel fantastico incontrando una immaginaria (o fantasmatica) compagnia di attori.

Cambiano le atmosfere, qui più sbarazzine (e milanesi), e anche il risultato. Darei la vittoria ai punti a Ozpetek per una maggior tenuta d'insieme del lavoro, che invece qui mi sembra più sfilacciato, forse a causa dell'eccessiva complicazione della struttura della sceneggiatura, costruita a scatole cinesi. Mi è parsa una mossa avventata, inoltre, affidare la parte del protagonista a Fabio De Luigi, che non regge il confronto con il resto cast e nemmeno con il concorrente diretto in versione romana (Elio Germano). Margherita Buy è presente su entrambi i fronti.

La storia è quella di un tale (De Luigi) che si mette in mente di scrivere una sceneggiatura, ma che non sa cosa scrivere. Accenna malamente i personaggi, inserisce una scena buffa ma inutile (la sua visita ad una massaggiatrice cinese nella chinatown di zona Paolo Sarpi), finché i personaggi si ribellano e lo costringono a prendere più sul serio la loro storia. Che sarebbe poi quella di due famiglie molto diverse che si incontrano a causa dei loro figli che, sedicenni, si vogliono sposare. Da una parte abbiamo un avvocato economicamente ben messo (Fabrizio Bentivoglio) ma a cui è appena stato diagnosticato un fatal tumore. Non ha ancora detto niente alla moglie (la Buy) la quale capisce che c'è qualcosa che non va ma non ha idea di cosa possa essere. L'altra coppia è composta da uno scioperato (Diego Abatantuono) che cerca di nascondersi dalla vita, in particolare consumando ingenti quantità di erba. La moglie Carla Signoris ricambia rifugiandosi nell'alcol.

Nonostante la riottosità del protagonista, e grazie alla testardaggine degli attori, si riesce ad arrivare ad una fine tutto sommato soddisfacente della storia (da notare il cameo di Sandra Milo, in quanto madre molto sportiveggiante del protagonista), se non che c'è un ennesimo colpo di scena, che non rivelo, ma che penso faccia riferimento al finale de I soliti sospetti. Già, perché i riferimenti ad altri film (primo su tutti, la saga dei Tenenbaum di Wes Anderson) si sprecano, anche ai precedenti di Salvatores.

Colonna sonora che si regge su una serie di canzoni di Simon & Garfunkel (l'idea sarebbe che è l'unico disco che ha in casa il protagonista, mentre scrive la storia che stiamo vedendo). Tra le poche musiche non del duo spicca il notturno numero 20 di Chopin, che fra l'altro viene usato benissimo da Salvatores per proporci un viaggio notturno in una Milano ben diversa da quella che vediamo nel resto del film.

Stargate

La parte simpatica del film è che riesce riportare in gioco l'immaginario egiziano (nel senso di faraoni e piramidi) adattandolo alla fantascienza delle civiltà sparse nell'universo (dalle parti Star Trek / Star Wars) ma senza la seccatura dei viaggi spaziali via astronave, risolvendo il problema delle distanze siderali per mezzo di un inesplicabile portale approssimativamente basato sull'idea del wormhole. Che sarebbe poi più o meno il mezzo usato dagli alieni in 2001 di Kubrick e in Contact.

Bravi dunque Dean Devlin e Roland Emmerich ad inventarsi un divertente universo parallelo, meno bravi a tirarci fuori una sceneggiatura credibile. Anzi, per dirla tutta, il risultato mi è parso molto scarso.

Forse l'interesse per l'antico egitto scatenato da questo film ha fatto sì che arrivasse l'OK alla produzione per La mummia. Ma non sono sicuro se si debba annoverare questa circostanza tra i lati positivi o negativi di Stargate. Come curiosità noterei che Erick Avari fa da collegamento esplicito tra i due titoli, essendo qui il capo della comunità egiziana in trasferta.

Cast ben poco memorabile. I protagonisti sono Kurt Russell nei panni di un colonnello depresso con tendenze suicide, richiamato all'attività per questa missione, e James Spader, un egittologo a cui nessuno dà retta, al punto che pare non avere un seguito nemmeno tra cacciatori di misteri improbabili, e che dunque viene reclutato dal governo americano per risolvere il mistero sul funzionamento di un oscuro macchinario, risalente a svariate migliaia di anni prima e in loro possesso da quasi un secolo.

La guerra è dichiarata

Giulietta (Valérie Donzelli) incontra Romeo (Jérémie Elkaïm), si piacciono, fanno un figlio assieme, che chiamano Adamo (Gabriel Elkaïm), a cui viene un tumore al cervello. Il risultato non mi ha convinto. Si narra di due persone circa normali (in cui non mi riconosco, ma questo è un problema mio) che si scontrano contro un grosso problema, lo affrontano assieme, finché riescono. Poi non ci riescono più e si lasciano. Sarà una storia (circa) vera, però non vedo cosa abbia da dire, per lo meno a me.

Il momento migliore mi è parso quello che dà origine al titolo. I genitori chiedono un appuntamento con un luminare del campo, vengono convocati a brevissimo tempo, e i rapidissimi preparativi per il viaggio vengono narrati come se si trattasse di una operazione militare. Il resto della pellicola mi è sembrato poco incisivo, privo di un bersaglio.

La sceneggiatura è scritta da i due protagonisti, basandola sulla loro storia (con evidenti varianti). Forse meglio sarebbe stato se la vicenda fosse stata filtrata da estranei, e magari girata da un regista più capace.

L'uomo senza passato

Tipico film di Aki Kaurismäki che, come spesso accade, può lasciare basito lo spettatore. La qualità dell'immagine, i colori, gli abiti, gli oggetti, le musiche, le situazioni, sembrano riferibili agli anni sessanta. Tranne una scena (quella in cui il protagonista torna al suo passato) che è visibilmente anni duemila. Il tutto poi sembra quasi opera di un neorealista italiano, che abbia distrattamente ambientato la vicenda in Finlandia.

Un tale (Markku Peltola) arriva in treno ad Helsinki nel cuore della notte. Una banda di teppisti lo rapina e lascia più morto che vivo. Senza un soldo, documento, e memoria di chi era, viene accolto da una famigliola sull'orlo della miseria, ed entra a far parte di una comunità di una specie di baraccopoli sul bordo della città, che mi ha fatto pensare a Miracolo a Milano di De Sica.

Seguono una serie di episodi tra il tragico, il comico, il desolato e il patetico, in cui il nostro riesce faticosamente a ricostruirsi una specie di vita e imbastire una relazione affettiva con una donna dell'esercito della salvezza, unica organizzazione che sembra dare un minimo supporto a quei disperati. Presa in confidenza in sé stesso, riuscirà anche a convincere la banda musicale ad aggiornare il proprio stile musicale, diventando il loro impresario (si tratta di Marko Haavisto & Poutahaukat, www.markohaavisto.com)

Nel tentativo di aprire un conto corrente, necessario per avere un lavoro propriamente detto, resta coinvolto in una rapina anomala, e questo porta la giustizia ad interessarsi di lui. Si scopre dunque la sua passata identità, nei confronti della quale il protagonista dovrà fare i conti.

Notevole la colonna sonora, in cui, oltre ai sopracitati Poutahaukat, spiccano un paio di brani cantati dalla direttrice della sezione dell'esercito della salvezza (che risulta essere Annikki Tähti).

I Goonies

Ci sono alcuni film che, usando uno spericolato paragone vinicolo, definirei di pronta beva. Vanno visti quando escono, e bisogna essere nel giusto target, per poterli gradire. Nel caso in questione, essere minorenne negli anni ottanta direi che sia una condizione molto forte per gradirne la prima visione. Chi per motivi anagrafici o altro si trovi impossibilitato a rispettarla, più difficilmente troverà uno senso nelle quasi due ore di durata della pellicola.

Per fare un confronto, un film tutto sommato paragonabile come Stand by me, uscito l'anno dopo ma basato su più robusta storia (Stephen King) e regia (Rob Reiner nel suo periodo d'oro), mantiene invece quasi inalterato il suo appeal anche per lo spettatore che ci si avvicini oggi per la prima volta.

Storia scritta da Steven Spielberg, convertita in sceneggiatura da Chris Columbus e diretta da Richard Donner. Donner e Spielberg hanno pure prodotto, con piglio molto disneyano, raggruppando un cast in cui spicca Josh Brolin (fratello maggiore un po' tontolone), Robert Davi e Joe Pantoliano (cattivi fratelli italo-americani che di cognome fan Fratelli - ah ah ah ._.) e la loro terribile mamma (Anne Ramsey, che svilupperà ancor meglio questo personaggio in Getta la mamma dal treno, un paio di anni dopo). In subordine, è simpatico notare come la ragazzina "bruttina" sia Martha Plimpton, figlia di Keith Carradine.

Il riferimento principale è forse Indiana Jones, ma ogni elemento del pool creativo ha buttato nel calderone qualcosa di suo (Gremlins, Superman, ET, ...) oltre che assorbire molto dell'atmosfera del tempo.

PS: Leggo ora della morte di Roger Ebert, uno che di cinema non ne blaterava come il sottoscritto, ma ne scriveva con passione e capacità.

Wittgenstein

Sembra un po' di vedere quelle riduzioni a cartone animato di un film in sessanta secondi. La vita (parecchio complicata) di uno dei più importanti filosofi novecenteschi, Ludwig Wittgenstein, in un ora. Possibile? Beh, sì. Però si corre come dei disperati, e si taglia tutto quello che è possibile tagliare, anche quello che sembrerebbe difficile eliminare.

Tutto girato in studio, con un fondale nero, narrato da un Wittgenstein bimbo presciente che incontra un marziano a cui viene raccontata la complicata storia di un ricchissimo rampollo di una famiglia viennese (da adulto interpretato da Karl Johnson) che rinuncerà al patrimonio in quanto fonte di corruzione, e spenderà una parte significativa della sua vita a Cambridge in compagnia di gente come Bertrand Russell (Michael Gough), John Maynard Keynes (John Quentin) e Lady Ottoline Morrell, in quanto amante di Russell, interpretata da una sfavillante Tilda Swinton.

Il risultato è sorprendente, grazie alla regia Derek Jarman, anche se credo convenga guardare il film sapendo già cosa venga narrato, appunto un po' come i cartoni animati sopra citati.

Il segreto di Pollyanna

Produzione Disney di mezzo secolo fa, con tutto quello che ne consegue. Però la sceneggiatura (del molto disneyano David Swift, anche alla regia) è basata sul romanzo di Eleanor H. Porter, il che permette di avere una relativa maggior profondità dei personaggi, e persino un finale che non sia piattamente felice e scontato.

La storia è quella di una orfanella (Hayley Mills) che viene adottata dalla ricca zia Polly (Jane Wyman) che ha il grosso problema di non essere capace di esternare i propri sentimenti. Al contrario, l'orfanella ha un modo tutto suo di trovare il positivo in (quasi) tutto quello che accade, al punto che il "gioco di Pollyanna", che consiste nel trovare un aspetto positivo in un accadimento apparentemente solo negativo, è diventato proverbiale.

Tra i personaggi minori c'è Karl Malden, qui nei panni del prete della chiesa locale.

Nonostante la zuccherosità e dabbenaggine disneyana - terribile, ad esempio, la scena in cui la giovane protagonista (che occorre notare è interpretata da una attrice inglese) canta avvolta nella bandiera americana l'inno informale America the beautiful - ci sono riferimenti allo stile narrativo di Mark Twain (il monello, orfano pure lui, amico della protagonista ha un che di Tom Sawyer) che rendono più accettabile la visione.

La storia in sé, poi, sembra quasi una versione per minori di La vita è meravigliosa di Frank Capra, e in effetti a Capra era talvolta rinfacciato dai detrattori di avere una visione troppo polliannesca della vita. In realtà, a ben vedere, né la Pollyanna della storia, né i personaggi di Capra sono autoreferenziali ottimisti ad oltranza. E infatti il punto chiave della storia è come solo la risposta degli altri al polliannismo del(la) protagonista riesca a dare una via d'uscita ad una situazione che sembra compromessa.