Io & Marley

Protagonista assoluto del film un labrador, che seguiamo in tutta la sua vita, passata con una famiglia economicamente ben messa, capace di reggere alle immense spese generate dal suo appetito e turbolenza.

É uno di quei film con cui si va sul sicuro, soprattutto negli USA, vedi (o meglio, non guardarlo che è meglio) il caso del pessimo Hachiko - Il tuo migliore amico, che pure ha portato a casa la pagnotta. In questo caso la sceneggiatura (dei collaudati Scott Frank e Don Roos) e la regia (David Frankel) seguono una storia più o meno reale, contando sul fascino di un cane terribile ma che attira (e offre) un affetto incondizionato, e la buona recitazione dei protagonisti umani, Owen Wilson e Jennifer Aniston.

Vero che l'esistenza di un labrador non è cosa breve, ma le due ore del film mi sono sembrate eccessive. A tratti ho avuto l'impressione che si menasse il can per l'aia - in senso figurato, si intende. Un taglio di una mezz'oretta avrebbe giovato al risultato finale.

Le vicende umane sono secondarie, più che altro supportano la storia canina. I due sono giornalisti, lei più brava e impegnata, lui con la testa più per aria. Un certo interesse ha la sottotrama carrieristica con lui che si confronta con un collega (Eric Dane) che preferisce il lavoro e le avventure a termine alla famiglia tradizionale, e con un direttore (Alan Arkin) che sembra poco incline alla relazione umana ma, a ben vedere, azzecca quasi tutte le mosse. Lei invece finisce per rinunciare al lavoro per fare la mamma a tempo pieno, di ben tre pargoli (oltre al cane). Particina per una irriconoscibile Kathleen Turner nel ruolo di una addestratrice di cani che nulla può contro l'indomabile Marley. Alti e bassi, situazioni divertenti, altre più drammatiche. Succede un po' di tutto, ma niente di eclatante, come del resto accade in quasi tutte le vite reali.

Sconsigliabile a chi cerca forti emozioni, ma piacevole per chi non si inquieti davanti alla potenza distruttiva del protagonista canino.

L'amore che resta

A proposito di traduzioni immaginifiche di titoli stranieri sul mercato italiano, in originale questo fa Restless, che si sarebbe potuto tradurre Irrequieto/a/i. Non credo che il "resta" del titolo sia figlio di una traduzione erronea, ma la sola assonanza m'è parsa ridicola.

In realtà da ridere non c'è molto, visto che si tratta di una storia d'amore che sappiamo sin quasi dall'inizio essere destinata alla catastrofe. Ma il tono è lieve e tutto il dramma è pervaso da un humor nero che a qualcuno (oltre al sottoscritto) potrebbe non dispiacere.

Ottima la regia di Gus Van Sant, che sembra tornato al lavoro con passo spedito dopo la lunga pausa che ha seguito Milk. Qui evita di trasbordare nel dramma strappalacrime o nella commediaccia nera, dirigendo con mano ferma i due giovani protagonisti che occupano quasi interamente il minutaggio a disposizione.

Lui (Henry Hopper, e il cognome non è una omonimia) è un ragazzino molto problematico, affascinato dalla morte, ha un solo amico, a sua volta improbabile e, per dirla tutta, immaginario. Rompe la sua solitudine solo per partecipare a funerali di sconosciuti, ed è qui che incontra Lei (Mia Wasikowska, decisamente stellina in crescita) che indovina subito il suo essere fuori posto.

Lei è certamente più simpatica, allegra, estroversa, amante della natura e fan senza riserve di Charles Darwin. Ha solo un problema, un tumore che le lascia ben poco tempo da vivere.

I due si incontrano, si piacciono, e danno il via ad una necessariamente breve e tempestosa storia di amore che mi ha ricordato a tal punto quella di Harold e Maude, dell'omonimo film di quaranta anni fa, al punto di farmi pensare che si tratti di un adattamento, magari inconsapevole, di quel film.

In particolare, le principali debolezze della sceneggiatura sono proprio nella figura di Lei, che ha un guardaroba troppo ricercato (per quanto bizzarro) e troppa vitalità per la sua giovane età e condizione medica. La storia filava meglio in H&M, dove Maude aveva poco da vivere semplicemente perché in età avanzata.

Vogliamo vivere!

Una commedia sofisticata uscita nel bel mezzo della seconda guerra mondiale che ha come obiettivi i nazisti e gli attori. Anche se il rimando a Il grande dittatore di Chaplin è inevitabile, qui siamo nei territori della commedia pura, come ci si può aspettare dalla regia Ernst Lubitsch, un vero maestro del genere. Al punto che volendo massacrare il titolo originale (To be or not to be) proporrei Vogliamo ridere! piuttosto che quello scelto dalla distribuzione italiana, forse influenzata dal neorealismo italiano (che non ha nulla a che fare con questa pellicola). Lo accosterei anche a Non tradirmi con me, e ne farei una serie sul tradimento femminile.

Siamo infatti in una finta Varsavia e seguiamo una compagnia teatrale dove i ruoli principali sono presi da i coniugi Tura, lei (Carole Lombard, al suo ultimo film, poveretta) bellissima e idolatrata dal pubblico, lui (Jack Benny) narcisista all'ennesima potenza. Siamo nei giorni che precedono l'attacco a sorpresa tedesco, e loro vorrebbero recitare una commedia anti-nazista, in risposta provocazioni anti-polacche. La censura però li blocca, e loro procedono con le recite dell'Amleto.

Nel contempo, un tenentino dell'aviazione (Robert Stack) ci prova con la prima donna, la quale reputa astuto invitarlo nel suo camerino quando il marito è più impegnato, nel monologo Essere o non essere. Nel seguito dell'azione l'affascinante signora Tura avrà modo di far girare la testa ad almeno un professore polacco doppiogiochista, un generale tedesco, e probabilmente anche ad un militare inglese (come spesso fa Lubitsch, è un solo accenno che ognuno può interpretare come vuole).

Il marito, invece, è più occupato a recitare, più fuori dal palco che nel palco, a dire il vero, impegnandosi in una girandola di travestimenti e situazioni complesse da far girare la testa, condite da battute fulminanti e scene disegnate con un ritmo impeccabile.

L'ho visto in originale, e mi chiedo come abbiano reso alcune battute in italiano. Ad esempio, c'è un attore della compagnia che tende a strafare, in italiano lo chiameremmo gigione, in inglese invece è ham, prosciutto. Un collega gli dice "quello che sei, io non lo mangerei", indovinello dalla doppia soluzione, visto che ci dice anche che chi parla è un ebreo osservante. Utile ricordarselo quando più avanti quello stesso attore declama la famosa scena di Shylock (dal mercante di Venezia) a un falso Hitler (troppo complicato per spiegarlo qui) ma sempre evitando ogni accenno all'ebraismo.

Pollock

Fortemente voluto da Ed Harris, che ha commissionato la sceneggiatura, co-prodotto, reclamato per sé la regia, e recitato nel ruolo principale di Jackson Pollock, il pittore.

Guardandolo ho pensato a chi, di fronte ad un dipinto del secolo scorso dice "ma questo lo fa anche mio figlio di sei anni!". Vedendosi raccontare la vita di un artista, sempre in bilico tra creatività e autodistruzione, un genitore responsabile potrebbe capire che forse non conviene stabilire un parallelo tra una vita così tormentata e quella del suo giovin virgulto.

Altro punto interessante che se ne potrebbe trarre è un vero artista non arriva all'astrazione come scorciatoia, ma in seguito a un lungo e travagliato percorso. Non è che fanno "pasticci" perché non sono in grado di esprimersi secondo i canoni classici, ma perché solo in quel modo riescono ad esprimere la loro arte nel proprio tempo.

Il resto del film, che segue passo passo la vicenda di Pollock, da giovane artista con molti dubbi sulle proprie capacità alla fine della sua vita, non mi è sembrato poi troppo interessante. Forse anche a causa della regia. Credo che Harris avrebbe dovuto trarre giovamento dalla lezione di Pollock, e non cimentarsi in un lavoro del genere come opera prima. La gavetta serve a tutti.

Cast notevole ma poco sfruttato, tra cui Marcia Gay Harden per la moglie e Jennifer Connelly per l'amante, visto che l'attenzione è tutta sul protagonista.

Non male la colonna sonora, che mescola musica d'epoca con incogruente (ma piacevole) musica più contemporanea. A epitaffio, The world keeps turning cantata da Tom Waits sui titoli di coda.

Dal tramonto all'alba

Storia bizzarra oltre misura, scritta da Robert Kurtzman (?) che ne ha commissionato la conversione in sceneggiatura da parte di Quentin Tarantino, il quale l'ha trasformata in roba sua. La regia è finita nelle mani del sodale Robert Rodriguez, e come protagonista è stato pescato il jolly di un George Clooney al primo vero importante ruolo per il grande schermo.

Primo tempo tipicamente tarantiniano, con due fratelli delinquenti lanciati in una parabola autodistruttiva, ma nel secondo tempo c'è un brutale cambiamento di scena, e ci ritroviamo catapultati in un film horror-teen con vampiri demoniaci da burletta.

Difficile trovare qualcuno a cui piaccia tutto il film, in genere chi preferisce la prima parte (come il sottoscritto) si appisola nella seconda, e chi preferisce la seconda parte trova la prima una lunga anteprima che porta via spazio al piatto forte.

I due fratelli Gecko (se è un riferimento a Gordon Gekko di Wall Street, mi è sfuggito) stanno puntando al Messico, lasciandosi dietro una scia di sangue. Il maggiore (Clooney) è quasi normale, ma il giovane (Tarantino) è uno psicopatico all'ultimo stadio, si inventa le cose, non sa più quale sia la realtà. I due incappano in una famigliola composta da padre (Harvey Keitel), un ex pastore che ha perso la fede in seguito alla tragica morte della moglie, e due figli, e li rapiscono per passare con loro il confine. Devono raggiungere un localaccio poco oltre il confine, e lì aspettare fino all'alba, quando arriverà il loro contatto messicano.

Nel locale c'è gente come Danny Trejo al bancone, Salma Hayek che si esibisce col nome di Santanico Pandemonium, Tom Savini clienteggia e si fa chiamare Sex Machine. Tanto per dare un idea.

Mi ha colpito come George Clooney sia stato capace di imporre il suo personaggio, pur non essendo ai tempi la star che è ora, al punto di trasformare, sia pur leggermente, l'impostazione tarantiniana.

Una vita al massimo

La disfida delle trilogie promossa dal Bibliofilo mi ha ricordato che mi mancava il secondo capitolo della cosiddetta trilogia pulp di Quentin Tarantino, meglio noto con il titolo originale di True romance che suonerebbe in italiano qualcosa come Una vera storia d'amore.

Nonostante il cast, che nei ruoli secondari è eccezionale, c'è più di un motivo per cui questo episodio sia il più in ombra tra i tre, che possono riassunti notando come la regia sia stata affidata a Tony Scott. L'approccio alla regia di Scott Jr. può piacere o meno, di certo non pare la scelta più indicata per affrontare una sceneggiatura di Tarantino. Vero che è un compito difficile per qualunque regista, ma vedasi cosa è stato capace di fare Oliver Stone con Natural born killers.

In particolare la scena d'amore all'inizio fa pensare ai cavoli a merenda, come pure il lieto fine evidentemente apocrifo. Ma è un po' tutta la direzione che sembra combattere contro la sceneggiatura, invece di seguirla e magari interpretarla a proprio modo. Direi dunque che si tratta di un goffo tentativo della produzione di normalizzare un modo di far cinema strutturalmente marginale con lo scopo di attrarre platee maggiori.

La storia narrata è invece molto tarantiniana, in cui non si cerca l'immedesimazione degli spettatori con i protagonisti, che sono al contrario brutta gente con un brutto futuro che li aspetta. In particolare il protagonista (Christian Slater, troppo caruccio per la parte, a mio avviso) è un fallito che campa con uno stipendio minimo da commesso in una fumetteria. Lo vediamo cercare di attaccar bottone con una bionda appariscente spiegandole che lui, pur non essendo gay, farebbe sesso con Elvis Presley (se questo fosse vivo) e invitandola a vedere una maratona di film di kung fu. Succede invece che è un'altra bionda appariscente a fare colpo su di lui (Patricia Arquette), ma lo fa per lavoro, essendo ella una prostituta pagatagli a sorpresa dal suo capo, in occasione del compleanno. Nonostante le premesse, i due si innamorano e, detto fatto, si sposano. Lui, seguendo il consiglio di Elvis Presley (Val Kilmer, sempre sfuocato o fuori quadro), decide di eliminare l'ex-magnaccia (Gary Oldman), un tale molto violento e con grossi problemi di identità, come si evince dalla sua convinzione di essere di colore.

Nel parapiglia, il nostro uomo dimentica la patente e porta via un carico di cocaina, il che causerà una impressionante serie di problemi nel resto del film. Breve puntata dal padre (Dennis Hopper) e poi i due piccioncini prendono il volo per la California, dove però troveranno ad attenderli gli emissari del boss mafioso (Christopher Walken) che rivuole indietro la sua roba. Il piano dei due giovani delinquenti è pianamente scemo, ma il compagno di stanza del loro contatto californiano, uno strafatto Brad Pitt, ci mette del suo a causare ancora più guai di quanti sarebbe lecito attendersi. Mette un killer molto tarantiniano (James Gandolfini) sulle loro tracce, e poi anche una squadra di mafiosi pesantemente armati.

Come se tutto ciò non bastasse, viene dato maggior spessore alla carneficina finale grazie all'intervento delle guardie del corpo di un pezzo grosso di Hollywood interessato all'acquisto, e ad una squadra della polizia antidroga (con Chris Penn).

In realtà la storia è ben più complicata del mio banalizzante riepilogo, e bisogna dire che Scott dimostra di essere capace di dirigere - nelle mani di un regista meno capace il risultato sarebbe stato un guazzabuglio inguardabile. Alcune scene, tipo il confronto tra Christopher Walken e Dennis Hopper, sono davvero ben fatte. Ma nel complesso non sono rimasto soddisfatto.

Bob il giocatore

In originale Bob è più che un giocatore d'azzardo, è un flambeur, di quelli che brucia allegramente un patrimonio, se ne ha l'occasione. Era un rapinatore di banche, ma è stato beccato, è finito in galera, salvando nell'occasione la vita ad un poliziotto, forse più per caso che per altro, ma che da allora gli ha sempre dimostrato amicizia.

La storia è scritta da Auguste Le Breton ed è diretta da Jean-Pierre Melville, entrambi con una buona esperienza del mondo della mala parigina, e infatti la prima parte del film è impiegata per raccontare più che la storia la vita di Pigalle. Capita poi che Bob sia a corto di soldi, vince una bella somma ai cavalli, ma la brucia immediatamente alle carte. Per caso scopre che ci sarebbe la possibilità di fare un colpo ad una casa da gioco, mette su una banda e, nonostante alcuni problemi, l'operazione scatta.

Lui, però, ha il compito di sorvegliare l'azione dall'interno, e mentre aspetta, inizia a giocare, disinteressandosi di tutto il resto. Caso vorrà che la sua fissazione finirà per salvarlo.

Più che la storia, l'intresse è nelle atmosfere quasi-documentaristiche e nella tecnica cinematografica di Melville, che finiranno per influenzare sia la nouvelle vouge, che il filone dei film sulla criminalità francese.

Angelo

Film decisamente peculiare, visto su segnalazione di Cecilia, in seguito alla visione di L'erba del vicino è sempre più verde, a proposito della tematica dei tradimenti al femminile.

Una affascinante giovane donna (Marlene Dietrich) di gran classe, giunge a Parigi espressamente per parlare con la maitresse di una casa di appuntamenti di alto bordo. Le due non si sentono da anni, ma hanno una evidente forte relazione. Non facciamo in tempo a saperne di più perché la loro chiacchierata viene interrotta da una telefonata, che causa anche l'incontro fortuito tra Lei e un ricco americano di bella presenza (Melvyn Douglas), che scambia la bella ignota per la tenutaria, e le chiede di organizzargli una serata. I due finiranno per passarla assieme, anche se Lei insiste nel mantenere l'anonimato e, pur evidentemente attratta da lui, chiude bruscamente la relazione.

Un pezzo grosso della diplomazia inglese (Herbert Marshall) torna a casa da una missione, dove trova la moglie (sempre la Dietrich) ad attenderlo. I due sono evidentemente molto innamorati, ma Lui dà Lei per scontata, e Lei patisce il fatto di essere trascurata.

Caso vuole che i due protagonisti maschili hanno avuto in comune una "fidanzata di guerra" parigina, durante la prima guerra mondiale, che visitavano a date alterne, senza avere mai modo di incontrarsi di persona, ma conoscendosi per il tramite della "fidanzata" comune. Ora l'americano pensa bene di contattare l'inglese, i due si incontrano, si piacciono, diventano amiconi in un baleno, senza sapere di replicare ora quanto era avvenuto nel passato.

È tempo che i nodi arrivino al pettine. Lei fa capire all'Altro che la storia è chiusa, e di farsene una ragione, il marito non capirebbe un tubo, e tornerebbe a trascurare la moglie, se non fosse che un inghippo gli sollevasse grossi dubbi e portasse quindi alla resa finale dei conti, nella stessa casa di piacere del primo tempo. Di nuovo i tre protagonisti a confronto, l'americano ha solo la facoltà di offrire una possibilità a Lei, sono i due coniugi a dover decidere cosa fare delle loro vite.

Il tono deciso da Ernst Lubitsch (regia e produzione) nel narrare questa vicenda è quello del melodramma leggero, dove tutta la leggerezza è data dai personaggi minori (tra cui svetta Edward Everett Horton nel ruolo del maggiordomo), a cui vengono delegate battute fulminanti e sottotrame che spiegano molto di quello che la storia non dice.

E, come spesso accade in Lubitsch, il non detto (e anche non visto) è parte fondamentale dell'azione. Non sappiamo quasi niente di Lei, possiamo assumere che si prostituisse ad alto livello, e che il tradimento con l'Altro a cui si accenna qui (ma in realtà non viene mostrato nulla che non sia altro che poco consono ad una donna sposata) sia il primo. Non è nemmeno chiaro se Lui sapesse della precedente vita di Lei, ben poco sappiamo anche di come i due si sono incontrati. E di che specie è l'amore di Lei per Lui? Quanto conta la solidità finanziaria e il "buon nome" che le sono offerte? L'impeccabile recitazione della Dietrich combina passionalità e freddezza in una combinazione che fa perdere la testa allo spettatore e nulla rivela di quello che frulli davvero nella testa del personaggio.

Da parte sua, Lubitsch elimina quelli che sarebbero gli elementi più caldi della sceneggiatura, semplicemente non mostrandoli. Lei lascia l'Altro al termine della serata senza che la macchina da presa mostri il fatto. Il regista, distratto, preferisce seguire la venditrice di violette che segue, del resto con scarsa attenzione, una scena che non deve sembrarle nuova. Non ci viene mostrata la reazione dell'Altro quando scopre, guardando una foto, che la moglie del suo amico ritrovato non è altri che la donna che stava cercando disperatamente. E non ci viene mostrato il pranzo tra Lui, Lei, e l'Altro, che ci viene raccontato tramite l'interpretazione della servitù.

Il finale, poi, è di una bruschezza tale da lasciare senza fiato, e lasciare una serie di interrogativi senza risposta. Ma che donna è Lei, in realtà? E che coppia esce dal film?

Habemus papam

Film che mette d'accordo gli opposti estremismi, nel senso che vedendolo mi sono figurato quanto possa non piacere a chi dogmaticamente è pro o contro la Chiesa cattolica. E una rapida lettura di alcuni commenti trovati sul web mi ha confermato la cosa.

Tolte queste due fazioni, una infastidita dal presunto delitto di lesa maestà, l'altra dall'estremo rispetto mostrato, credo che lo spettatore residuo possa godersi tranquillamente una bella storia, complessa, densa di temi, sottotemi, rimandi, accenni e quant'altro, ma che scorre lieve nei suoi cento minuti, al punto da farmi rimpiangere che non trasbordi.

Co-scritto, co-prodotto, diretto e interpretato da Nanni Moretti, che fortunatamente non contribuisce alla colonna sonora, dove invece è inserita Todo cambia cantata da Mercedes Sosa, probabilmente una delle canzoni più significative (e belle) sul tema del cambiamento. Grande cura posta nella ricostruzione degli ambienti e nei costumi.

Si narra dell'elezione di un papa, viene scelto, malgrado lui, il cardinale Melville (il riferimento è a Moby o ad Hermann? in ogni caso l'interprete è un ottimo Michel Piccoli). Sulle prime accetta, ma poi non se la sente di apparire sul balcone (dopo l'"habemus papam", per l'appunto). Il panico serpeggia, al punto che viene chiamato uno psicoanalista (Nanni Moretti), sperando che una visitina riesca a superare lo scoglio. Le cose, evidentemente, non possono andare così, e la situazione finisce per sfuggire di mano, al punto che il papa finisce per aggirarsi da solo in incognito per Roma.

Il punto principale direi che è il dilemma di Melville, se deve accettare un compito che sente al di sopra delle sue capacità, o se sia meglio per lui cercare di fare quello che sia giusto per lui. Il tutto risulta molto complicato dal fatto che il ruolo su cui lui ha dubbi è quello del papa. Mica bruscolini.

Scopriamo che la sua grande passione era quella per il teatro, aveva cercato di diventare attore, ma non era stato preso, e lui si è convinto che avessero avuto ragione nel scartarlo (ma visto che ce lo dice Piccoli, avremmo qualche diritto di chiederci se abbia ragione). Caso vuole che finisca per fare conoscenza con una troupe teatrale sul punto di portare in scena Il gabbiano di Cechov.

Moretti si è riservato un ruolo di alleggerimento, quasi comico, di un ateo che viene chiamato in Vaticano e ne resta invischiato. Curiosamente (ma anche no) le stilettate più appuntite sono riservate agli psicanalisti. Margherita Buy ha la particina della ex moglie di Moretti, anche lei psicoanalista, con la fissa del deficit di accudimento, di cui, a parer suo, soffrono tutti i suoi pazienti.

Non tradirmi con me

Una serie di sfortunate circostanze ha fatto sì che il possibile convincente raddoppio di Ninotchka, che avrebbe dovuto indirizzare la carriera di Greta Garbo verso una stagione di commedie, si sia trasformato in una mezza catastrofe che ha finito per chiudere la carriera de La divina.

Eppure la regia è di George Cukor, con cui la Garbo aveva un buon rapporto, il protagonista è Melvyn Douglas, come in Ninotchka, la sceneggiatura basata su una commedia leggera già trasposta per lo schermo con buoni risultati, un buon cast al contorno, in particolare Constance Bennett. Cosa poteva andare storto?

La visione rivela un inizio fiacco, una parte centrale brillante, che però non regge fino al finale. Parte delle colpe penso siano da attribuire alla sceneggiatura, che ha cercato sin dall'inizio di smorzare i toni considerati troppo libertini di quella che era originariamente una commedia del tedesco Ludwig Fulda, ma che aveva tenuto un impianto francese (equivoci, allusioni sessuali, tradimenti) che mi ha fatto pensare a Georges Feydeau.

Ma anche questa autocensura non è bastata, e il film si è trovato di fronte ad una serie di critiche tali, che i produttori hanno pensato di salvare il lavoro in post produzione, tagliando, cucendo, rimontando, aggiungendo scene innocue. Che però non è servito a nulla, gli ambienti cattolico-integralisti hanno mantenuto il loro parere negativo, bloccando addirittura l'uscita del film in alcune piazze.

Come se questo non bastasse, mano al calendario si vede che la prima risale 30 novembre 1941, e la nuova versione ammorbidita è del 31 dicembre 1941. Il 7 dicembre 1941 i giapponesi attaccano Perl Harbor.

Nonostante tutto questo, ci sono alcuni momenti in cui la Garbo sfavilla da par suo. In particolare la parte centrale del film al dancing, con il duetto con la Bennett (anche grazie alla spalla, che regge benissimo il gioco) e il susseguente ballo inventato sul momento (battezzato Chica-Choca) sono memorabili.

Traffic

Tecnicamente parlando, il film è un caso da manuale per l'intenzionale errore nel bilanciamento del bianco. Nelle riprese messicane la fotografia è "sbagliata" sul giallo, ottenendo colori più caldi, in quelle statunitensi sul blu, con un effetto tendente al freddo. Sottigliezza probabilmente usata da Steven Soderbergh per aiutare lo spettatore a non perdersi nei meandri di una sceneggiatura complessa, che sintetizza in poco più di due ore quella che era una miniserie inglese in sei puntate (che cercherò di recuperare per una prossima visione).

Il tema è quello del traffico di droga, in particolare cocaina, e viene seguito con un piglio quasi documentaristico nelle vicende di una folta pattuglia di personaggi principali, che a volte si sfiorano, ma che finiscono per avere in comune solo la relazione con la sostanza stupefacente.

Benicio Del Toro è un poliziotto dell'antidroga messicana, non pulitissimo ma nemmeno troppo corrotto, che incappa in una operazione diretta da un generale dell'esercito (Tomas Milian, nientemeno) che ha grossi poteri nel campo, e sembra pulito ma forse è molto corrotto, e finisce per sapere cose molto sopra a quella che è la sua capacità di intervento. Finirà per abbassare lo sguardo, o riuscirà a far qualcosa di buono, magari anche solo una goccia nel mare?

Michael Douglas è un giudice che viene scelto per essere a capo della struttura antidroga USA. All'inizio sembra convinto dell'approccio militaresco che viene dato al problema, ma la crescita della sua esperienza, sia professionale sia personale, lo porteranno a chiedersi se non sia necessario affrontarlo diversamente. In particolare scopre che la figlia, ancora minorenne, è una tossica (è più facile procurarsi droga che alcolici, dice).

Luis Guzman e Don Cheadle sono una coppia di poliziotti americani che indagano sullo stesso traffico di droga che segue Del Toro, ma dall'altra parte del confine, beccano un tizio di medio livello che li porta ad un pesce grosso, forse troppo grosso, al punto che uno dei due finisce male. Il superstite sembra demoralizzato, e forse si chiede che senso abbia andare avanti in una lotta che pare non avere nessuna possibilità di vittoria, ma potrebbe trovare le energie per proseguire.

Catherine Zeta-Jones è la moglie del pezzo grosso, fino all'arresto del marito non sapeva da dove venissero i soldi di famiglia, glielo spiega l'avvocato (Dennis Quaid), e lei non ci mette molto a imparare come seguire la musica.

Il risultato è abbastanza deprimente. Il traffico fa girare così tanti soldi che il tentativo di combatterlo frontalmente non ottiene alcun risultato sensibile. I sequestri sono un rischio calcolato, e persino un grosso colpo che riesca a far saltare un cartello, alla lunga non fa che favorire gli altri cartelli di trafficanti.

Cesare deve morire

Ho letto da qualche parte che si tratterebbe di un documentario, ma non lo è. Perlomeno non nel senso classico del termine. È vero che documenta una realtà esistente, ma lo svolgimento segue la sceneggiatura di Paolo e Vittorio Taviani (anche registi, come di consueto) e non credo che molto sia lasciato all'improvvisazione degli attori, perché tali sono, anche se si tratta nella quasi totalità di non professionisti, seguendo del resto i dettami del neorealismo.

C'è anche da sapere che il cuore del film non è tanto nella rappresentazione del Giulio Cesare di Shakespeare da parte dei reclusi di Rebibbia, quanto l'impatto che l'accostamento all'attorialità ha sui protagonisti. Avessi saputo questo dettaglio in anticipo, mi sarei risparmiato lo spavento che mi è venuto a vedere i primi minuti, quando assistiamo a parte della recita.

Terzo punto, che potrebbe risultare ostico a qualcuno, la recita avviene in dialetto, o sarebbe meglio dire in dialetti, checché ne dica la grammatica italiana, visto che ogni attore usa il proprio, ottenendo un effetto babelico, ma a cui mi sono adattato rapidamente.

E infine, è gran parte in bianco e nero. Solo nelle due schegge che "documentano" la prima, e in un momento nel centro dell'azione, si fa uso del colore.

Mi ha colpito notare come mi sia annoiato durante la prima scheggia, e che il mio sentimento dominante fosse il timore che si continuasse su quei binari per tutta la durata del film, mentre nel finale, dopo che avevo avuto modo di conoscere i personaggi, visto cosa rappresentava per loro quella recita, sono riuscito ad apprezzare la recitazione, per quanto imperfetta.

Il Giulio Cesare è visto prevalentemente seguendo Bruto (Salvatore Striano, che ha effettivamente nel suo passato una permanenza a Rebibbia, dove ha imparato a recitare) e dunque anche il famoso monologo di Antonio ("Bruto è uomo di onore") non è che risulti qui particolarmente coinvolgente. Giustamente, dal punto di vista della sceneggiatura, perché non è quella una parte della tragedia che possa facilmente legarsi a quelle che sono le esperienze dei detenuti-attori.

Spartan

Ogni tanto capita che la distribuzione italiana non cambi il titolo originale, come qui. Perché non titolarlo Lo spartano? Avevano paura che lo spettatore italiano pensasse ad un peplum (come venivano chiamati i film ambientati nell'antichità classica)? In ogni caso il titolo ha lo scopo di rimarcare le differenze tra il protagonista (Val Kilmer) e la ragazzina che sta cercando di liberare. Lui pensa ai ranger, e cita una tra le loro frasi preferite, un po' da spaccone come nel carattere del corpo, "One riot, one ranger", e lei risponde citando Re Leonida da Sparta che pare avesse l'abitudine (che le Termopili gli toglieranno) di mandare un solo uomo quando fosse richiesto un suo aiuto militare.

Visto su segnalazione di Gegio, che pure non ne era rimasto completamente convinto.

Nel primo quarto d'ora non ho capito che diamine stesse accadendo, solo una certa aria di familiarità con le tecniche di addestramento mostrate ne Il silenzio degli innocenti mi ha salvato dall'essere completamente perso. E in effetti il riferimento al bel film di Jonathan Demme non è poi peregrino, anche se gli sviluppi sono ben diversi, dato che a scrivere e dirigere qui c'è David Mamet (che ha anche un legame diretto con quel film, avendo scritto la sceneggiatura del seguito Hannibal - non una delle sue cose migliori, per essere gentili - e, chissà, forse i soldi per fare questo glieli hanno dati anche come ringraziamento per aver scritto quello).

Ma con un po' di pazienza si capisce che Kilmer è un istruttore di uno di quei corpi speciali che entrano in azione quando i guai non riguardano i comuni mortali. Facciamo la rapida conoscenza di un paio di reclute da lui formate (Tia Texada e Derek Luke) ma veniamo poi scaraventati in azione: la figlia di un pezzo grosso di Washington (il presidente?) scompare. Non si capisce bene come, tutto è poco chiaro. Kilmer non ci fa caso, non è un suo problema, lui è un operativo. Gli si dica cosa fare e lui lo fa. Ci pensino gli analisti a farsi carico delle decisioni. Ma che succede se le decisioni che altri prendono sono evidentemente in contrasto con tutto quello che lui ritiene giusto? Riuscirà a essere lui a prendere delle decisioni? E riuscirà ad accettare il peso che deriva da prendere decisioni?

Bella l'accoppiata (fortuita) tra questa mia visione e il precedente I mercenari. In entrambi i casi i protagonisti hanno un dilemma morale, ma Stallone lo risolve come se fosse una barzelletta. Lì la divisione tra "buoni" e "cattivi" è immediata e facilmente comprensibile anche a un poppante (i cattivi muoiono, i buoni non si fanno neanche un graffio. I buoni che sbagliano e fanno qualcosa di male rischiano la morte ma, essendo buoni, alla fine si salvano), qui è difficile dire quanto sia giusto o sbagliato quello che qualcuno fa, se non relativamente al contesto. Anche la colonna sonora (Mark Isham) rimarca la differenza tra una produzione grossolana e un film fatto per il piacere di dire qualcosa.

Da notare William H. Macy in una parte che inizialmente sembra assolutamente secondaria, ma che assume rilevanza nel finale.

I mercenari

C'è qualcosa di buono in questo film, il Grumman Albatross su cui volano i protagonisti, ad esempio. Bell'idrovolante che fa sempre piacere vedere in azione. Oppure la Ducati Desmosedici che porta a spasso Jason Statham, il vice del gruppo. Poi, naturalmente, c'è la collezione di grossi nomi nel cast. Il povero Jet Li nel ruolo del piccoletto buffo; Mickey Rourke l'ex mercenario che ha visto la luce (o meglio, l'oscurità) e si è riconvertito come tatuatore; Bruce Willis agente CIA che sperpera soldi dei contribuenti per azioni insensate; Arnold Schwarzenegger capo di un'altra cordata di mercenari che identifica al volo il lavoro offerto da Willis come una sciocchezza.

Il problema principale è, a mio avviso, Sylvester Stallone. Come protagonista è imbarazzante. Ma anche come regista è pessimo. E anche il suo contributo alla sceneggiatura fa rizzare i capelli. Mi immagino che la produzione abbia avuto la stessa reazione all'idea dell'obbligatorio sequel (dato il ragguardevole incasso di questo episodio). Impossibile togliere Stallone dallo schermo, ma la scrittura e regia è andata al team di The mechanic (noto da noi come Professione assassino). Ben lungi dall'essere memorabili, Simon West alla regia e Richard Wenk alla scrittura, danno almeno una flebile speranza di realizzare qualcosa che non sia una accozzaglia di scene tenute insieme da banalità.

I mercenari del titolo italiano sono una squadra alla A-team che si fa chiamare The expendables, da cui il titolo originale, per il motivo che possono essere usati e gettati senza troppi rimpianti. Nonostante il nome, e il buon senso, nessuno di loro si fa nulla, mentre i loro avversari esplodono praticamente da soli appena possibile. Due le missioni affrontate in questo film, la prima consiste nel distruggere una banda di pirati afro-musulmani, e ha il solo scopo di giustificare l'esclusione dal gruppo di Dolph Lundgren (identificabile come "quello grosso", già Ivan Drago in Rocky 4, un quarto di secolo fa) per futili motivi, dimodoché possa giocare il ruolo del traditore per dispetto nella seconda missione, che poi è quella di assaltare una isoletta del centroamerica stracarica di luoghi comuni, dove un ex-agente CIA diventato narcotrafficante spadroneggia, e la bella figlia del governatore fantoccio guida la revolución.

Solita colonna da film d'azione del nuovo millennio, tutta percussioni e niente arrosto, di cui va ascritta la responsabilità a Brian Tyler.

Singolarità di una ragazza bionda

Non sono un frequentatore assiduo della filmografia di Manoel de Oliveira ma non credo sia un caso se le rare pellicole che ho visto dalla sua abbondante produzione abbiano avuto tutte il dono di lasciarmi perplesso.

In questo caso la vicenda è narrata dal protagonista ad una sconosciuta in treno, in un lungo flashback che ripercorre la sua storia d'amore con una bella ragazza conosciuta in quanto dirimpettaia del suo studio. I toni usati mi hanno fatto pensare ad una operetta morale di Rohmer, ma corretta da un accenno di surrealismo alla Buñuel. Chi riuscirà a non farsi intimorire da un montaggio secco, dalla macchina da presa fissa in molte inquadrature, da lunghe pause che lasciano lo spettatore libero di pensare ad altro, e da accadimenti secondari che poco hanno a che fare con lo sviluppo, o forse acquisteranno un loro senso solo quando alla fine le carte verranno scoperte, potrebbe trovarsi a meditare su una storia semplice ma al tempo stesso complessa. Un po' come è la vita.

Marigold hotel

Facile cadere nella trappola di credere che il punto principale stia nell'avanzata età di gran parte dei personaggi della commedia, o lo spiazzamento causato dalla brusco passaggio dalla Gran Bretagna all'India. Quello è solo il setting. Il vero argomento è il cambiamento, e quanto non possiamo fare a meno di cambiare, quale che sia la nostra età, se non vogliamo rinunciare a vivere (metaforicamente o letteralmente).

La sceneggiatura è perfettibile, ma il cast è tale da accettarla per come è, grazie anche alla regia John Madden. La fotografia sguazza nella festa di colori, architetture lontane, traffico caotico, ma senza cadere (troppo) nell'effetto cartolina dall'India; lo stesso dicasi per la colonna sonora, dove le suggestioni indiane sono mediate da una sensibilità occidentale classica (Thomas Newman).

Diverse sono le motivazioni che spingono un gruppo di britannici verso il Marigold hotel. Tom Wilkinson è l'unico che sappia bene cosa sta facendo, visto che sta tornando nei suoi luoghi dell'infanzia; Bill Nighy lo sceglie per la pensione, come unico posto che si può permettere con la petulante moglie (Penelope Wilton), dati i rovesci finanziari; è un incubo per Maggie Smith, che non sopporta nulla che non sia terribilmente inglese ma che ha bisogno di un intervento chirurgico a buon mercato; per Judi Dench il viaggio era stato programmato dal marito, morto nel frattempo; Celia Imrie è in cerca dell'ennesimo marito danaroso; Ronald Pickup si accontenterebbe di una qualche avventuretta galante.

Questa bizzarra compagnia si trova ad avere a che fare con un giovane albergatore (Dev Patel) dotato di molta fantasia (anche nel pubblicizzare l'hotel) ma una scarsa capacità organizzativa. Problema che si riflette sia nella sua attività commerciale sia nella sua vita privata.

Praticamente ogni personaggio a cui accennato (per non parlare degli altri che ho trascurato), ha la sua storia, e tutte quante si intrecciano, creando un racconto che sfocia in un lieto fine corale, dove anche una morte e una separazione possono essere viste come accadimenti positivi.

Pirati! Briganti da strapazzo

Tecnicamente eccellente, come ci si può aspettare dalla Aardman Animations. Magari il purista non gradirà la commistione di stop-motion con i classici pupazzetti di plastilina e animazione al computer - ma peggio per lui.

La storia è completamente folle, e si toglie la soddisfazione di prendere pesantemente in giro sia la regina (Vittoria) sia Charles Darwin. Si assopisce nella parte centrale, purtroppo, e il risultato complessivo lo direi inferiore ad altri prodotti della casa, che sarebbe poi quella dei vari Wallace e Gromit, e di Galline in fuga.

Numerosissime le trovate che costellano lo svolgimento della vicenda (un pesce reclutato tra i pirati; un altro pirata che lancia pallini rossi fuori bordo, dimodochè noi si possa seguire sulla mappa la loro rotta; uno scenziato che inventa il dirigibile per poter guardare nella scollatura delle dame; ...) che tengono sempre desta l'attenzione dello spettatore (soprattutto il più giovane).

Colonna sonora altrettanto folle, che usa persino London calling dei Clash per accompagnare la decisione del capitan Pirata di andare proprio a Londra, proprio nella tana della regina Vittoria, acerrima nemica di tutti i pirati.

Romanzo di una strage

Approfittando del nulla estivo, l'ultimo bel lavoro di Marco Tullio Giordana (co-scritto e diretto) è ritornato in sala, riuscendo anche a rientrare nella top 20, anche se a fatica, e comunque con un incasso minimo. Non che la distribuzione sia particolarmente capillare, anzi. Fortuna che il DVD è già in distribuzione, e così ho potuto vedermelo anch'io, anche se non sul grande schermo.

La strage del titolo è quella milanese di Piazza Fontana, e si segue la prospettiva di Luigi Calabresi (Valerio Mastandrea) che segue le indagini che lo portano al confronto con Giuseppe Pinelli (Pierfrancesco Favino - ottimo), entrambi faranno una brutta fine. Come del resto molti altri, in genere persone che non c'entravano niente.

La vicenda è intricatissima, e forse riuscirà incomprensibile ai non italiani, e a chi non sappia molto dei fatti di quegli anni. Meglio dunque arrivare preparati alla visione, leggendosi semmai qualcosina in proposito.

È bello vedere di tanto in tanto un film italiano girato con cura, con un cast che recita come in realtà sanno fare in molti tra i nostri attori, solo che pare che non venga richiesto. In particolare Fabrizio Gifuni, nei panni di Aldo Moro, ha fatto un ottimo lavoro, ma vale la pena di citare almeno anche Luigi Lo Cascio, Omero Antonutti, Michela Cescon e Laura Chiatti.

Girato quasi più in tonalità di grigio che a colori (molto spenti, rendendo bene lo spirito del tempo) e con una colonna sonora quasi solo accennata, che si guadagna spazio solo in occasione dei funerali in Duomo per le vittime della strage, con il Lacrimosa dalla messa da Requiem K.626 di Mozart.

Sciarada

Non riuscitissimo lavoro di Stanley Donen (regia e produzione), pur essendo basato su una piacevole sceneggiatura di Peter Stone. Darei la colpa principale a Donen (e al montaggio a tratti decisamente questionabile), anche se al confronto con il remake del 2002 (The truth about Charlie), questo sembra un filmone imperdibile.

Più interessante il parallelo con La pantera rosa di Blake Edwards, stesso anno di uscita, colonna sonora di Henry Mancini in entrambi in casi, sempre con il contributo di Johnny Mercer, titoli di testa sorprendenti, da una parte una pantera rosa che diventerà indimenticabile, qui un meno eclatante ma comunque interessante lavoro di Maurice Binder, lo stesso dei titoli di testa de L'erba del vicino è sempre più verde, ma che qui punta su una animazione molto geometrica, che mi ha ricordato, per certi suoi andamenti a spirale, La donna che visse due volte. Entrambe le pellicole iniziano sulle Alpi, in località molto alla moda, Megève in Francia e Cortina in Italia, e hanno una particina per un poliziotto francese pasticcione, secondaria qui, prorompente là, grazie a Peter Sellers.

Protagonista della storia è una traduttrice americana (Audrey Hepburn) basata a Parigi, sposata ad un tale di cui non sappiamo praticamente nulla, che poi è poco più di quello che ne sa anche la consorte. E scopriremo ben poco sul suo conto, visto che lo vediamo morto già nella prima sequenza del film.

Segue la caccia al quarto di milione di dollari che il deceduto ha in qualche modo occultato. Tutti sono convinti che li abbia lei, e forse è anche vero, ma lei non ha idea di dove siano. Tre tipacci (James Coburn, George Kennedy, Ned Glass) la minacciano rudemente, un baffuto Walter Matthau le dà qualche spiegazione ma ben poco supporto, sembra che l'unico su cui lei possa fare affidamento sia Cary Grant, ma evidentemente anche lui non la conta giusta.

Trama giallo-rosa che oscilla tra il thriller e la commedia. Miscelare tutte queste componenti non è un lavoro facile. Blake Edwards avrebbe saputo trattar meglio gli aspetti comici, Alfred Hitchock sarebbe andato a nozze con le scene con maggiore tensione emotiva. Donen, nonostante il cast di gran classe, mostra i suoi limiti su tutti i fronti.

Iron sky

Per me la fantascienza, quella che mi piace, è un mezzo per parlare di cose che potrebbero risultare pesanti (noiose, non interessanti, ...) alleggerendo il tema ma lasciandolo comunque bene in vista. Più passa il tempo, e più mi capita di pensare che non siano poi in molti ad avere questa idea, e che la fantascienza, soprattutto al cinema, sia diventata semplicemente un modo di intrattenere lo spettatore facendo un gran baccano e mostrando luci colorate. Uno spettacolo pirotecnico, insomma.

Grazie al cielo ogni tanto incappo in film come Iron sky che risollevano la mia fiducia nel genere. Secondo me, con un doppiaggio decente e una minima campagna pubblicitaria, avrebbe potuto essere distribuito nei nostri cinema agostani e, complice anche la calma piatta di questi giorni, avrebbe anche potuto strappare un buon risultato. Ma i distributori hanno deciso diversamente, e non c'è traccia di una localizzazione della pellicola. Al momento, l'unico modo per vederselo è fare riferimento al DVD inglese, reperibile facilmente sui soliti siti web.

Ma perché non distribuirlo in Italia? Ho cercato in rete pareri negativi sul film e, a parte gli ovvi nazi-fascisti che non gradiscono troppo la presa in giro della loro ideologia prediletta, e i filo-american-repubblicani a cui non piace la facile ironia su Sarah Palin e accoliti, ho trovato solo qualche perplessità per la carenza di fondi utilizzati ("solo" sette milioni e mezzo, secondo IMDB) che si traducono in un cast non particolarmente brillante ed effetti speciali risparmiosi. Bolla avrebbe preferito una impostazione più "Z trash", ma questo credo che voglia dire che lo ritene troppo commerciale, dunque adatto alla distribuzione, per lo meno estiva.

Mi tengo il mistero, e illustro la trama. Un mito nato con la fine della seconda guerra mondiale è che i nazisti non sarebbero stati completamente sconfitti, ma si sarebbero ritirati chissadove per preparare la loro vendetta. Il tema è già stato affrontato da altri titoli, vedi ad esempio Il mistero del cadavere scomparso. Qui però i fuggitivi si sarebbero rifugiati addirittura sulla Luna. Premessa imbarazzantemente impossibile dunque, ma, se si fa un salto di fede e la si accetta, tutto il resto scorre bene. La tecnologia tedesca anni quaranta, mancando stimoli esterni, cresce poco o niente in settantanni, e arriviamo in un (nostro) futuro imminente dove la base nazista sulla "dark side of the moon" (citazione musicale dai Pink Floyd ineludibile) prospera, preparando il rientro sul pianeta.

A far scattare l'azione è la discesa sulla Luna di una nuova missione Apollo, progettata per due scopi, uno palese, propaganda elettorale per una simil-Sarah Palin al suo primo mandato che mira alla rielezione, e uno nascosto, ricerca di ingenti depositi di Elio-3 da parte del segretario di stato. Il primo scopo fa sì che uno dei due astronauti sia un modello di colore (Christopher Kirby), il secondo determina il punto di sbarco, vicino alla base nazista, costruita per l'appunto vicino all'agognato giacimento.

La sceneggiatura è densa, con il Führer corrente (Udo Kier) che deve guardarsi dal rampante delfino (Götz Otto), che vorrebbe anche papparsi la bella Renate (Julia Dietze), figlia dell'immancabile scienziato pazzo (Tilo Prückner), mentre sulla Terra la simil-Palin mette sotto pressione la sua responsabile per le comunicazioni per trovare un tema vincente per la campagna elettorale, che viene identificata nella propaganda nazista fornita da Otto, sceso con un UFO (ecco spiegata la loro origine!) sulla Terra.

Inevitabile il nuovo scontro tra nazisti e resto del mondo, con finale desolante ma il linea con le premesse.

Festival delle citazioni cinematografico-musicali, perfettamente integrate nella trama. Tanto Wagner, ovviamente, rimaneggiato e integrato nella bella e poliedrica colonna sonora degli sloveni Laibach, sui titoli di coda una loro canzone che mi pare citi i Garbage di 007 (The world is not enough).

Come è giusto che sia, i nazisti fanno la figura degli sciocchi, al punto da battezzare la loro arma finale Götterdämmerung, come il capolavoro di Wagner (e, loro non lo sanno, naturalmente, ma anche come il capolavoro di Luchino Visconti, La caduta degli dei) che è, come dire, un po' come andarsi a cercare che la sfortuna ci metta il becco.

Ma anche le potenze terrestri non fanno una bella figura. Per dirne una, messi di fronte all'emergenza dell'attacco nazista, tutte le nazioni rivelano di aver nascostamente modificato i propri satelliti civili per militarizzarli. Tutti tranne una, la Finlandia. E il rappresentante finlandese è estremamente imbarazzato da quella che gli sembra una sciocca ingenuità.

Crash - Contatto fisico

Il sottotitolo italiano, una volta tanto, non è inopportuno, sia perché riprende la battuta di uno tra gli innumerevoli protagonisti, forse quella che dà la giusta chiave interpretativa, sia perché a dire Crash (mi) viene in mente il film di Cronenberg, basato su un inquietante racconto di Ballard, e non questo lavoro, scritto, diretto e coprodotto da Paul Haggis.

Storia corale a incastro sulle complicazioni della vita californiana. Ce ne si può facilmente tirar fuori una lunga serie: Crossing over, Traffic, Bobby, Magnolia, America oggi, tanto per fare un po' di nomi.

La prima parte ci mostra una situazione catastrofica, dove tutti diffidano di tutti, per paura si rifiuta il minimo contatto fisico, e alla fine si usa lo scontro violento come unico mezzo rimasto per avere una qualche relazione umana. In un certo senso questa visione ricorda molto l'idea originaria di Ballard, ma viene trasferita su un piano più sociologico. Già, perché qui tutti i protagonisti usano un bieco razzismo come arma di difesa nei confronti di una sostanziale solitudine.

La seconda parte è più interlocutoria, cose che andavano male sorprendentemente trovano un modo di aggiustarsi, personaggi che avevano una certa opinione, spesso di loro stessi, si trovano a doverla cambiare, nel bene o nel male.

Nonostante questa impostazione quasi meccanica, lo svolgimento evita i luoghi comuni più beceri, o almeno li affronta in un modo inconsueto, da angolazioni inaspettate, riuscendo quasi sempre a tenere sul filo lo spettatore. O almeno, con me c'è riuscito. Solo una delle storie narrate ho capito subito dove andava a parare, ma anche in questo caso sono rimasto soddisfatto che finisse proprio come mi aspettavo.

In una storia così intricata è bene che nessun attore spicchi sugli altri, ed è quello che succede qui. Buon cast, ognuno fa il suo lavoro, ma nessuno può essere considerato il personaggio chiave. Tra i nomi noti che ci troviamo davanti cito Sandra Bullock, tendenzialmente razzista, rafforzata nelle sue convinzioni da un furto d'auto da parte di una coppia di giovani delinquenti di colore, se la piglia per quello con tutti i non-bianchi che le capitano a tiro, fino a scoprire che l'unica persona su cui può contare è la sua domestica messicana; Matt Dillon, poliziotto che abusa del suo potere, ma che scopriamo poi che si comporta così perché pensa di avere le sue ragioni - il caso vorrà che trovi il modo di riparare a una sua malefatta; Brendan Fraser, un bietolone interessato solo a manipolare gli eventi a fine politico, uno dei pochi personaggi per cui le due ore di film sono passate praticamente invano; Thandie Newton bella moglie di un regista televisivo, scoprirà che gli umani sono esseri molto complicati; Terrence Howard, marito della Newton, avrà modo di incidere sulla realtà dei fatti; Michael Peña subisce per gran parte del tempo i pregiudizi di tutti quanti, praticamente unico nella storia che non fa niente di male.

Colonna sonora tutti frutti, sui titoli finali ci sono persino i gallesi Stereophonics.

La memoria del cuore

Dopo lunga meditazione, la scelta tra i non molti titoli disponibili in questo caldo weekend agostano è caduta su questo film, che in fin dei conti ha mantenuto le sue (non mirabolanti) promesse. Una buona commedia sentimentale senza troppe pretese.

È l'ennesima "storia vera", ed è curioso notare come sia la terza della serie che vedo in breve periodo. Qui nei titoli si dice pianamente che la vicenda reale sia servita solo come ispirazione agli sceneggiatori, e come argomento difensivo ai "ma dai, com'è possibile?". In Un anno da leoni si sceglie lo stesso approccio, ma si mira più sull'autoironia (è tutto vero tranne i fatti narrati, ci viene detto). Spiazzante invece The way back in cui ci viene narrata una storia spacciata come vera da chi l'ha scritta, ma che a vederla ci dovrebbe venire almeno il dubbio di quanto possa essere verosimile.

Il punto chiave tratto dalla storia originaria è che una tipetta (Rachel McAdams) prende una gran botta in testa che le cancella la memoria recente, facendo scomparire il marito (Channing Tatum) dalla sua vita. Tutto il resto (a parte il lieto fine d'ordinanza) ho il sospetto che sia stato inventato di sana pianta.

Qui il rewind sembra favorire i genitori della protagonista (Sam Neill e Jessica Lange - quanto tempo senza vederla in un film!) da cui lei si era bruscamente staccata, e ora non ricorda più perché. Idem per il fidanzato (Scott Speedman) che si vede ripiombare tra le braccia il bocconcino da cui era stato bruscamente mollato. Ma è solo questione di tempo, ci dice la sceneggiatura, e il sentiero che è stato fatto una volta verrà percorso nuovamente. Possibile? Mi pare questionabile. Ma evidentemente non si può fare la controprova. In ogni caso il titolo italiano è sbagliato, l'originale The vow fa riferimento al giuramento matrimoniale (o come si chiama) che la coppia interpreta a suo modo, e che, essendo stato filmato, mostra alla smemorata quanto ci fosse qualcosa di forte tra i due.

Prima regia cinematografica, non particolarmente entusiasmante, di Michael Sucsy, colonna sonora in stile raccolta pop, giustificata dalla professione di lui, produttore musicale. In particolare ho gradito i Cure sui titoli di coda.

L'erba del vicino è sempre più verde

La sceneggiatura, basata su un pezzo teatrale, non è male ma ha qualche evidente difetto, la colonna sonora è scarsa, come non ci si aspetterebbe dalla regia di Stanley Donen, noto per cose come Singin' in the rain e Sette spose per sette fratelli.

La storia affronta un tema sempre comune, la relazione a corrente alterna tra UK e US (vedi ad esempio Un pesce di nome Wanda), e uno che in tempi recenti è diventato meno frequentato, l'infedeltà coniugale femminile.

Rispetto al secondo, è interessante l'uso del cuculo come riferimento insultante al marito cornuto (in inglese cuckhold, da cuckoo). Il povero uccello è sovraccaricato di significati negativi, per la pazzia vedi Qualcuno volò sul nido del cuculo, che qui viene interpretato in una variante più moderata (il gran nervosismo che a molti ispira il verso del suddetto volatile). C'è una scena in cui il marito cerca di eliminare il fastidioso uccello che sarà ripresa in un episodio della Pantera rosa, Uno sparo nel buio.

Una placidamente felice coppia inglese di aristocratici decaduti (Cary Grant e Deborah Kerr) si vede sconvolgere l'esistenza dall'ingresso nella loro vita di un milionario americano (Robert Mitchum). Questi si prende una cotta a prima vista per la Kerr, che lei ricambia appassionatamente ma con qualche titubanza.

Jean Simmons è una ricca divorziata londinese, amica dei due ed ex di Grant su cui ha ancora qualche speranza.

Mitchum è ingessato, costretto in un ruolo mal scritto di un personaggio troppo bidimensionale per convincere. La Simmons, al contrario, splende nonostante l'esiguità delle battute a sua disposizione. Non la migliore interpretazione per la Kerr, anche lei tarpata da un personaggio poco sviluppato. Dunque a reggere gran parte del peso dello sviluppo resta un Cary Grant in gran forma, marito che non si rassegna alla possibile perdita della moglie e riesce a far valere i suoi (pochi) punti forti, tra cui il fedele maggiordomo (ruolo che avrebbe meritato una interpretazione di maggior peso), nei confronti di quello che sembrerebbe lo scontato vincitore. In un certo senso ricalca il ruolo che aveva coperto in Scandalo a Filadelfia, ma il paragone non va a favore di questo titolo.

Bizzarri i titoli di testa, dove il cast artistico e tecnico è interpretato da una sfilza di poppanti, idea di Maurice Binder che diventerà famoso per il suo lavoro nella serie di James Bond.

Un anno da leoni

Il brutto titolo italiano e la data di uscita nelle nostre sale dice molto sulle bassissime aspettative della distribuzione nazionale su questa simpatica commedia che, invece, avrebbe meritato maggior fiducia. Il titolo strizza un occhio alla serie degli hangover, con cui non ha nulla a cui spartire, e anche il trailer rimonta la vicenda facendo sembrare che il film sia altro da quello che è, e perdipiù spoilerando peggio di me quando non mi trattengo.

Non credo che il cattivo risultato sul mercato americano abbia sorpreso nessuno, sorprendente piuttosto che la produzione abbia deciso di investire qualche decina di milioni di dollari sapendo in anticipo che il ritorno sarebbe stato limitato. Penso che si sia trattato di una specie di regalo al regista, David Frankel, come riconoscimento per le vagonate di soldi che ha generato con i due precedenti Il diavolo veste Prada e Io & Marley.

La storia è infatti simile al Diavolo, ma qui vengono tirate le conseguenze fino in fondo, e viene l'assurdità di uno stile di vita ipercompetitivo e fine a sé stesso. Abbiamo quindi che a vincere qui sono personaggi normalmente etichettati come perdenti. E, ancora peggio (per un certo tipo di spettatore), la loro vittoria assomiglia stranamente ad una sconfitta. Per non dire poi che il vincitore scopre nel modo più amaro che si possa immaginare, quanto la vittoria possa essere la peggiore delle sconfitte.

Si potrebbe fare un parallelo con Campioni di razza, dove sono i cani al centro dell'interesse degli umani, ma quello è un mockumentary a basso costo, qui invece siamo nel campo della commedia classica, e la passione dominante dei protagonisti è quella per il birdwatching. La storia è così strana che è basata su fatti reali, che sono travisati, adattati, rivoluzionati alle esigenze della sceneggiatura, regia, e cast, come viene messo ben in chiaro sin dall'inizio. Fatto è che negli USA esiste un bizzarro campionato che consiste nel guardare quante più specie di uccelli nel corso dell'intero anno solare. I tre personaggi principali sono il campione in carica (Owen Wilson), un nerd che non ha mai concluso niente in vita sua (Jack Black) e un anziano uomo d'affari che di cose ne ha concluse fin troppe, ma gli è venuto come il dubbio che non siano state quelle giuste (Steve Martin).

E se non bastassero i protagonisti, c'è una coorte di comprimari da lasciare basiti. Rosamund Pike è la moglie di Wilson, e vorrebbe farci un figlio assieme; Dianne Wiest è la madre di Black; JoBeth Williams è la paziente moglie di Martin; Rashida Jones è una birdwatcher abile nel replicare i versi di uccelli (Black ha il dono opposto, li riconosce praticamente tutti); Kevin Pollak è un sottoposto di Martin, e farebbe di tutto per non farlo andare in pensione; Anjelica Huston capitana una nave che porta i birdwatcher a spasso alla ricerca di golosi avvistamenti; Jim Parsons un amico persino più nerd di Black; eccetera.

La regia, a dire il vero, è lontana dalla perfezione, ma lascia correre bene la scenggiatura (Howard Franklin) che del resto fa buon uso delle caratteristiche dei protagonisti, per cui Steve Martin, Owen Wilson, e Jack Black si comportano esattamente come ci potremmo aspettare, e corre lungo i binari del logico sviluppo delle premesse per arrivare all'attesa conclusione.

Non poteva mancare la citazione a Gli uccelli di Alfred Hitchcock, ma è la colonna sonora che è un vero e proprio festival avicolo, fra cui ricorderei l'accenno solo strumentale a Blackbird dei Beatles - album bianco.