Forse l'eccessiva lunghezza della pellicola è dovuta al fatto che inizialmente la storia (Michael Imperioli e Victor Colicchio) avrebbe dovuto avere al centro Richie (Adrien Brody), ma nel corso dello riprese Spike Lee ha voluto approfondire il personaggio di Vinny (John Leguizamo), fino al punto da far diventare lui il protagonista.
Il lato curioso è che titolo e battage pubblicitario era tutto su Dave Berkowitz (Michael Badalucco) meglio noto come Son of Sam, o anche solo Sam, che invece è trattato di sfuggita, quasi solo come per mettere dei punti fermi alla narrazione principale.
Il Berkowitz è quel tale che realmente sul finire degli anni '70 si è messo a sparare con una calibro 44 contro coppiette e donne singole, finendo per totalizzare sei omicidi e sette ferimenti in un annetto di attività. Che, per le statistiche della delinquenza americana, è davvero poca roba. Soprattutto in quei tempi e a New York. Per qualche strano motivo, però, il serial killer attizza molto la fantasia popolare, finisce sulle prime pagine dei giornali, e dunque ottiene un impegno della polizia superiore ai casi "normali" che non hanno altrettanta visibilità mediatica.
Ben poco ci viene detto di lui nel film, si dà spazio solo alla versione dello stesso Berkowitz (poi ritrattata) secondo cui uccideva perché succube del labrador di un vicino, a sua volta posseduto da una presenza demoniaca. Più probabile che i suoi problemi fossero altri, ma evidentemente il figlio di Sam li riteneva ancor più disdicevoli.
Si parla invece di Vinny, tamarrissimo parrucchiere italo-americano, e dei suoi amici tutti della stessa etnia. Già, perché è il primo film di Spike Lee che non riguarda gli afro-americani newyorkesi, ma evidentemente il nostro non se la sentiva ancora di mettere da parte la tematica dei rapporti intracomunitari di quello strano posto che è New York, e ha semplicemente cambiato gruppo di riferimento.
Vinny è sposato con Dionna (Mira Sorvino) ma, pur amandola sinceramente, la tradisce in continuazione. Subito all'inizio la lascia sola in discoteca (puro stile Febbre del sabato sera) per accompagnare a casa, e fare altro, la di lei cugina (Lucia Grillo). Il suo problema è che gli piace molto il sesso, ma gli hanno insegnato che tra moglie e marito va fatto in modo "pulito", e dunque estremamente noioso. Per divertirsi ci sono le altre.
Il suo migliore amico è Richie, anche lui personaggio peculiare. Ha appena avuto una svolta punk, che accoppia ad un improbabile accento inglese. Ha un approccio piuttosto confuso con la sua sessualità, che vede come modo di incassare soldi in attesa di sfondare sulla scena musicale. La sua amicizia con Ruby (Jennifer Esposito), mezza sorella di Vinny, si trasforma in qualcosa di più profondo, nonostante (o forse proprio perché) anche lei sia malvista nel vicinato per la sua esuberanza.
Questo equilibrio precario viene fatto saltare, per l'appunto, dal killer della 44. La polizia pensa che Sam possa essere un italo-americano che viva nel quartiere dove colpisce (tutto sbagliato) e per mezzo di un detective (Anthony LaPaglia) chiedono la collaborazione del boss mafioso locale, Luigi (Ben Gazzara). Questi, a sua volta, gira la richiesta ai suoi picciotti, tra cui gli amici di Vinny, gente dal quoziente intellettuale piuttosto basso, senza contare gli effetti che droghe e alcolici hanno sul loro raziocinio. Costoro seguiranno una pista più balorda dell'altra, prima di convincersi che sia Richie, così diverso da loro, chi stanno cercando.
Vorranno dunque usare Vinny, che nel frattempo sta mandando a catafascio il suo matrimonio, come esca per catturare Richie e portarlo da Luigi.
A parte l'arresto di Berkowitz, manca una conclusione definita alla storia. Forse Vinny, dopo aver toccato il fondo, riuscirà a trovare un nuovo equilibrio. Forse Richie avrà modo di crearsi una nuova vita con Ruby. Ma chissà.
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Jakob il bugiardo
Siamo sul finire della seconda guerra mondiale nel ghetto ebraico di una città polacca. Jakob (Robin Williams), per una bizzarra circostanza, viene ritenuto dai suoi compagni di sventura in possesso di una radio, con la quale sarebbe informato degli sviluppi della guerra. In realtà il suo segreto è un altro, sta ospitando una bambina (Hannah Taylor Gordon) che è scampata ad un precedente viaggio della morte. Poco cambia per la sua precaria situazione, visto che entrambi i reati sono passibili di pena di morte.
Il presunto possesso della radio, però, gli crea un dilemma morale irrisolvibile. Negando l'esistenza della radio spegne l'ultima fiammella di speranza del ghetto, inventandosi notizie sui russi in avvicinamento crea false speranze e spinge alcuni a comportamenti pericolosi. Che fare? Alcuni, come Frankfurter (Alan Arkin), ritengono che il solo fatto di lasciare che una radio esista nel ghetto sia un pericolo inaccettabile, altri, come il dottor Kirschbaum (Armin Mueller-Stahl), pensano che un briciolo di speranza non possa che far bene.
A risolvere il problema ci pensano i nazisti, che caricano tutti quanti su di un treno.
Remake di un film tedesco orientale (con la particolarità che Mueller-Stahl ha recitato in entrambi) ad opera di una produzione franco-americana che mi pare abbia tolto il mordente originale senza aggiungere molto in cambio. Buon il cast che, oltre ai sopracitati, include anche Mark Margolis (habitué dei film di Aronofsky), Bob Balaban (il barbiere), Mathieu Kassovitz (il fondamentalista che vede nella radio uno strumento del demonio), Liev Schreiber (l'ex-pugile). Alla regia il padre di Mathieu, Peter Kassovitz, che ha pure partecipato alla scrittura della sceneggiatura.
La scena iniziale, con un foglio di giornale che viene inutilmente inseguito da Jakob mentre il vento glielo fa danzare dispettosamente attorno, ricorda troppo la piuma di Forrest Gump, e il finale fantastico, in cui le menzogne di Jakob si materializzano a salvare i suoi amici, ricorda quello di La vita è bella di Roberto Benigni, stessi occhi spalancati di stupore dei bambini.
Il presunto possesso della radio, però, gli crea un dilemma morale irrisolvibile. Negando l'esistenza della radio spegne l'ultima fiammella di speranza del ghetto, inventandosi notizie sui russi in avvicinamento crea false speranze e spinge alcuni a comportamenti pericolosi. Che fare? Alcuni, come Frankfurter (Alan Arkin), ritengono che il solo fatto di lasciare che una radio esista nel ghetto sia un pericolo inaccettabile, altri, come il dottor Kirschbaum (Armin Mueller-Stahl), pensano che un briciolo di speranza non possa che far bene.
A risolvere il problema ci pensano i nazisti, che caricano tutti quanti su di un treno.
Remake di un film tedesco orientale (con la particolarità che Mueller-Stahl ha recitato in entrambi) ad opera di una produzione franco-americana che mi pare abbia tolto il mordente originale senza aggiungere molto in cambio. Buon il cast che, oltre ai sopracitati, include anche Mark Margolis (habitué dei film di Aronofsky), Bob Balaban (il barbiere), Mathieu Kassovitz (il fondamentalista che vede nella radio uno strumento del demonio), Liev Schreiber (l'ex-pugile). Alla regia il padre di Mathieu, Peter Kassovitz, che ha pure partecipato alla scrittura della sceneggiatura.
La scena iniziale, con un foglio di giornale che viene inutilmente inseguito da Jakob mentre il vento glielo fa danzare dispettosamente attorno, ricorda troppo la piuma di Forrest Gump, e il finale fantastico, in cui le menzogne di Jakob si materializzano a salvare i suoi amici, ricorda quello di La vita è bella di Roberto Benigni, stessi occhi spalancati di stupore dei bambini.
La dea del successo
Credo che il titolo italiano sia una astuta (e lo scrivo in senso ironico) idea della nostra distribuzione per cercare di attirare per assonanza il pubblico che pochi anni prima aveva gradito La dea dell'amore di Woody Allen. In realtà per paragonare i due film bisogna arrampicarsi sugli specchi, e non si fa per niente un buon servizio al lavoro di Albert Brooks, che lo ha (co-)scritto, diretto, e interpretato. In originale è un più sobrio The muse.
Si narra di un sceneggiatore hollywoodiano (Brooks) di medio successo che scopre improvvisamente di essere stato messo da parte dallo studio che lo aveva sotto contratto. Il suo problema è che l'ispirazione se ne è andata. O meglio, visto che non sembra che i suoi precedenti lavori fossero particolarmente ispirati, che il vento è cambiato e la produzione vuole storie diverse da quelle che lui scrive.
Il suo tenore di vita piuttosto spendaccioso e la sua incapacità anche di semplicemente pensare a cambiar lavoro, lo spingono a cercare una via veloce per tornare produttivo. La moglie (Andie MacDowell) lo consiglia di chiedere aiuto ad un suo amico (Jeff Bridges), anche lui sceneggiatore. Costui gli rivela il segreto del suo successo senza soste, conosce una musa (Sharon Stone). Una vera musa, a suo dire, e basta ingraziarsela e ronzarle attorno per avere idee a getto continuo. Vero che a frequentare Sharon Stone idee ne verrebbero a chiunque, ma si intende idee per sceneggiature di film per un ampia platea.
Forse un po' di colpa va al doppiaggio, che diluisce quello che dovrebbe essere il piatto forte del film, ovvero la recitazione di Brooks, ma credo che anche in originale spesso le battute non colpiscano il bersaglio. Mi verrebbe da dire che la sceneggiatura manca di ispirazione (ah ah).
L'interesse principale del film direi siano le comparsate che importanti amici di Brooks hanno fatto nei panni di loro stessi. Rob Reiner, Martin Scorsese, James Cameron i principali.
Penso che la morale della storia sia che a Hollywood cercano così disperatamente di restare sulla cresta dell'onda che potrebbero persino credere alla mitologia greca, se questo dà loro una speranza. Tema simile era stato affrontato, ad esempio, da I protagonisti di Robert Altman, con un risultato di gran lunga migliore.
Si narra di un sceneggiatore hollywoodiano (Brooks) di medio successo che scopre improvvisamente di essere stato messo da parte dallo studio che lo aveva sotto contratto. Il suo problema è che l'ispirazione se ne è andata. O meglio, visto che non sembra che i suoi precedenti lavori fossero particolarmente ispirati, che il vento è cambiato e la produzione vuole storie diverse da quelle che lui scrive.
Il suo tenore di vita piuttosto spendaccioso e la sua incapacità anche di semplicemente pensare a cambiar lavoro, lo spingono a cercare una via veloce per tornare produttivo. La moglie (Andie MacDowell) lo consiglia di chiedere aiuto ad un suo amico (Jeff Bridges), anche lui sceneggiatore. Costui gli rivela il segreto del suo successo senza soste, conosce una musa (Sharon Stone). Una vera musa, a suo dire, e basta ingraziarsela e ronzarle attorno per avere idee a getto continuo. Vero che a frequentare Sharon Stone idee ne verrebbero a chiunque, ma si intende idee per sceneggiature di film per un ampia platea.
Forse un po' di colpa va al doppiaggio, che diluisce quello che dovrebbe essere il piatto forte del film, ovvero la recitazione di Brooks, ma credo che anche in originale spesso le battute non colpiscano il bersaglio. Mi verrebbe da dire che la sceneggiatura manca di ispirazione (ah ah).
L'interesse principale del film direi siano le comparsate che importanti amici di Brooks hanno fatto nei panni di loro stessi. Rob Reiner, Martin Scorsese, James Cameron i principali.
Penso che la morale della storia sia che a Hollywood cercano così disperatamente di restare sulla cresta dell'onda che potrebbero persino credere alla mitologia greca, se questo dà loro una speranza. Tema simile era stato affrontato, ad esempio, da I protagonisti di Robert Altman, con un risultato di gran lunga migliore.
Spaced - Stagione 1
Sit-com sperimentale a bassissimo costo, è stato il punto di partenza del sodalizio tra Edgar Wright (regia), Simon Pegg (co-sceneggiatore e protagonista) e Nick Frost. La protagonista femminile e co-sceneggiatrice è Jessica Hynes (al tempo Jessica Stevenson), che ha rincontrato il terzetto ne L'alba dei morti dementi e il solo Pegg in Burke & Hare ma si è ritagliata una carriera per conto suo.
Lo sperimentalismo sta sia nella regia di Wright, che riesce a trasformare l'assenza quasi assoluta di soldi in un pregio, usando creativamente linguaggi da film di genere (horror, fantascientifico, etc) in una struttura che non li prevederebbero, sia nella sceneggiatura a quattro mani che mescola fantasiosamente i punti di vista maschili e femminili ottenendo effetti comici che, se non colpiscono sempre il bersaglio, quando ci riescono lo fanno bene.
La storia è quella di due quasi trentenni londinesi in cerca di trovare una posizione nella società, Tim (Pegg) vorrebbe disegnare fumetti, Daisy (Hynes) vorrebbe fare la giornalista, entrambi hanno una vita affettiva disastrosa. Per riuscire a conquistare un buon appartamento fingono di essere una coppia stabile con lavoro decente e, sorprendentemente, riescono nell'impresa, anche perché Marsha, la padrona di casa (Julia Deakin, vista anche in successive avventure del terzetto, qui recita come una specie di Anjelica Huston/Morticia Addams con una perniciosa dipendenza alcolica) sembra avere un bizzarro modo di selezionare gli inquilini. Vedasi l'artista (Mark Heap) che alloggia nel seminterrato.
Tra gli altri personaggi, il ruolo più importante ce l'ha Frost, che interpreta l'amico di infanzia di Tim, caratterizzato da una passione sfrenata per le armi e la vita militare.
Lo sperimentalismo sta sia nella regia di Wright, che riesce a trasformare l'assenza quasi assoluta di soldi in un pregio, usando creativamente linguaggi da film di genere (horror, fantascientifico, etc) in una struttura che non li prevederebbero, sia nella sceneggiatura a quattro mani che mescola fantasiosamente i punti di vista maschili e femminili ottenendo effetti comici che, se non colpiscono sempre il bersaglio, quando ci riescono lo fanno bene.
La storia è quella di due quasi trentenni londinesi in cerca di trovare una posizione nella società, Tim (Pegg) vorrebbe disegnare fumetti, Daisy (Hynes) vorrebbe fare la giornalista, entrambi hanno una vita affettiva disastrosa. Per riuscire a conquistare un buon appartamento fingono di essere una coppia stabile con lavoro decente e, sorprendentemente, riescono nell'impresa, anche perché Marsha, la padrona di casa (Julia Deakin, vista anche in successive avventure del terzetto, qui recita come una specie di Anjelica Huston/Morticia Addams con una perniciosa dipendenza alcolica) sembra avere un bizzarro modo di selezionare gli inquilini. Vedasi l'artista (Mark Heap) che alloggia nel seminterrato.
Tra gli altri personaggi, il ruolo più importante ce l'ha Frost, che interpreta l'amico di infanzia di Tim, caratterizzato da una passione sfrenata per le armi e la vita militare.
Una storia vera
Il David Lynch che non ti aspetti. Il confronto col contemporaneo Mulholland Drive fa quasi dubitare che si tratti dello stesso regista. Anche se, facendo attenzione, si finisce per notare la stessa mano. A volte, certi movimenti di camera, l'uso della colonna sonora (del fido Angelo Badalamenti), fanno temere che stia per succedere qualcosa di bizzarro, sorprendente e terribile, ma è un film per tutti, distribuito dalla Walt Disney perfino, e anche gli incontri potenzialmente più pericolosi, si risolvono con pochi patemi.
Il titolo originale è un gioco di parole che si è perso nella traduzione. The stright story significa infatti qualcosa come La storia così come è successa, ma anche La storia di Stright, e infatti si narra un episodio della vita di Alvin Straight (Richard Farnsworth, suo ultimo film, già sceriffo in Misery non deve morire), persona realmente esistita e nota alle cronache, per l'appunto, per questa faccenda.
Succede che, ormai ultrasettantenne, ad Alvin viene un colpetto. Niente di terribile, ma il dottore gli fa capire che o cambia le sue abitudini di vita, o deve cominciare a pensare che si stia avvicinando la chiusura di partita. E lui non ha nessuna voglia di rinunciare, ad esempio, ai suoi amati sigari. Succede anche che pure al fratello piglia un colpo, e si suppone che anche a lui resti ben poco da vivere. Bisogna sapere anche che i due hanno avuto un conflitto in passato, e da allora non si sono rivolti più la parola. Vivono entrambi nel mid-west americano, ma ad alcune centinaia di chilometri (pardon, miglia) di distanza. Lui ha una figlia (Sissy Spacek) con qualche problema mentale che vive con lui.
Alvin decide di partire e andare a far visita al fratello, per cancellare quello stupido litigio che li ha separati. Però non può viaggiare in macchina, la figlia non può aiutarlo, e andare con i mezzi pubblici è praticamente impossibile. Decide perciò di partire con il suo trattorino che usa per tagliare il prato.
Gran parte del tempo, come ci si può aspettare, non succede niente. Eppure è un film affascinante. Verso la fine del lungo viaggio (più di un mese), una signora chiede ad Alvin se non ha avuto paura a star solo di notte nel nulla di quelle campagne infinite, con tutta la gente pericolosa che gira. Alvin le risponde che, avendo fatto la guerra in Europa, non trova così preoccupanti le notti all'addiaccio nello Iowa. E in effetti gran parte degli incontri di Alvin sono con gente alla buona, che non vuole altro che essere gentile con lui, come lui lo è con loro.
E forse è proprio questa la chiave di lettura del film.
Il titolo originale è un gioco di parole che si è perso nella traduzione. The stright story significa infatti qualcosa come La storia così come è successa, ma anche La storia di Stright, e infatti si narra un episodio della vita di Alvin Straight (Richard Farnsworth, suo ultimo film, già sceriffo in Misery non deve morire), persona realmente esistita e nota alle cronache, per l'appunto, per questa faccenda.
Succede che, ormai ultrasettantenne, ad Alvin viene un colpetto. Niente di terribile, ma il dottore gli fa capire che o cambia le sue abitudini di vita, o deve cominciare a pensare che si stia avvicinando la chiusura di partita. E lui non ha nessuna voglia di rinunciare, ad esempio, ai suoi amati sigari. Succede anche che pure al fratello piglia un colpo, e si suppone che anche a lui resti ben poco da vivere. Bisogna sapere anche che i due hanno avuto un conflitto in passato, e da allora non si sono rivolti più la parola. Vivono entrambi nel mid-west americano, ma ad alcune centinaia di chilometri (pardon, miglia) di distanza. Lui ha una figlia (Sissy Spacek) con qualche problema mentale che vive con lui.
Alvin decide di partire e andare a far visita al fratello, per cancellare quello stupido litigio che li ha separati. Però non può viaggiare in macchina, la figlia non può aiutarlo, e andare con i mezzi pubblici è praticamente impossibile. Decide perciò di partire con il suo trattorino che usa per tagliare il prato.
Gran parte del tempo, come ci si può aspettare, non succede niente. Eppure è un film affascinante. Verso la fine del lungo viaggio (più di un mese), una signora chiede ad Alvin se non ha avuto paura a star solo di notte nel nulla di quelle campagne infinite, con tutta la gente pericolosa che gira. Alvin le risponde che, avendo fatto la guerra in Europa, non trova così preoccupanti le notti all'addiaccio nello Iowa. E in effetti gran parte degli incontri di Alvin sono con gente alla buona, che non vuole altro che essere gentile con lui, come lui lo è con loro.
E forse è proprio questa la chiave di lettura del film.
Blood simple - Sangue facile
Primo film dei fratelli Joel e Ethan Coen, che ha subito una leggera ripulitura quindici anni dopo il primo rilascio, catalogata come "director's cut". La differenza sostanziale, per quel che posso ricordarmi, sta nell'autoironico pistolotto iniziale di un presunto esperto cinematografico che racconta, senza entrare nei dettagli, di come la pellicola abbia tratto notevoli vantaggi dall'operazione.
Tipica storia dei Coen, girata leggermente sotto budget e con qualche rallentamento di troppo nella sceneggiatura, lievi difetti che spariranno dal resto della produzione di famiglia.
A far da narratore è un investigatore privato (M. Emmet Walsh), piuttosto male in arnese, che gira su un vecchio maggiolino (non esattamente una macchina adatta per passare inosservati in Texas) e ha confuse simpatie comuniste. È stato ingaggiato da un marito geloso (Dan Hedaya), proprietario di uno di quei bar che verrebbe da chiamar saloon, per tenere sotto controllo la scalpitante moglie (Frances McDormand al primo film), che in effetti lo cornifica con un suo barista (John Getz). Molta tensione già nella prima mezz'ora, ma i danni fisici si limitano ad un dito rotto e un fenomenale calcio in un posto che, soprattutto per gli uomini, è veramente molto doloroso.
Seguendo la tipica struttura dei film dei Coen, ogni personaggio continua a fare scelte errate, a dar per scontato quel che vero non è, e a causare da solo la propria sciagura. Il marito chiede al detective di uccidere moglie e amante. Il detective pensa ad uno schema per incassare i soldi promessigli dal suo cliente riducendo al minimo il suo rischio. L'amante pensa che la sua bella sia capace di uccidere (o almeno, di tentare di farlo). La moglie è a suo modo innamorata del marito, forse ha più dubbi sull'amante.
A noi, che abbiamo sott'occhio (quasi) tutti gli elementi, i personaggi finiscono per fare quasi pena (viene da dire "è lì l'accendino!", "non è stata lei, pezzo di idiota!", eccetera). Però bisogna ammettere che, date le condizioni di partenza, la storia regge.
Debutto anche di Carter Burwell, che ha scritto le musiche originali. In pratica un solo brano, ripetuto più volte, ma perfetto nel sottolineare l'atmosfera del racconto.
Tipica storia dei Coen, girata leggermente sotto budget e con qualche rallentamento di troppo nella sceneggiatura, lievi difetti che spariranno dal resto della produzione di famiglia.
A far da narratore è un investigatore privato (M. Emmet Walsh), piuttosto male in arnese, che gira su un vecchio maggiolino (non esattamente una macchina adatta per passare inosservati in Texas) e ha confuse simpatie comuniste. È stato ingaggiato da un marito geloso (Dan Hedaya), proprietario di uno di quei bar che verrebbe da chiamar saloon, per tenere sotto controllo la scalpitante moglie (Frances McDormand al primo film), che in effetti lo cornifica con un suo barista (John Getz). Molta tensione già nella prima mezz'ora, ma i danni fisici si limitano ad un dito rotto e un fenomenale calcio in un posto che, soprattutto per gli uomini, è veramente molto doloroso.
Seguendo la tipica struttura dei film dei Coen, ogni personaggio continua a fare scelte errate, a dar per scontato quel che vero non è, e a causare da solo la propria sciagura. Il marito chiede al detective di uccidere moglie e amante. Il detective pensa ad uno schema per incassare i soldi promessigli dal suo cliente riducendo al minimo il suo rischio. L'amante pensa che la sua bella sia capace di uccidere (o almeno, di tentare di farlo). La moglie è a suo modo innamorata del marito, forse ha più dubbi sull'amante.
A noi, che abbiamo sott'occhio (quasi) tutti gli elementi, i personaggi finiscono per fare quasi pena (viene da dire "è lì l'accendino!", "non è stata lei, pezzo di idiota!", eccetera). Però bisogna ammettere che, date le condizioni di partenza, la storia regge.
Debutto anche di Carter Burwell, che ha scritto le musiche originali. In pratica un solo brano, ripetuto più volte, ma perfetto nel sottolineare l'atmosfera del racconto.
Fantasia 2000
Il titolo è un gioco di parole (o meglio, di numeri) tra il suo essere un sequel dell'originale di sessanta anni prima e sulla sua data di uscita. Risultato piacevole, con dei bei momenti, ma anche con delle (perdonabili) debolezze.
La struttura è la stessa dell'originale: brani musicali per orchestra sinfonica che fanno da ispirazione ad animazioni in puro stile Walt Disney. Un episodio è in condivisione, il famoso Apprendista stregone interpretato da un Topolino pasticcione che scatena, suo malgrado, innumerevoli scope magicamente munite di braccia e di una ferrea volontà. Tra un brano e l'altro intervengono personaggi in carne e ossa (Steve Martin il più divertente ed ha pure l'ultima parola, alla fine dei titoli di coda) a fare da intermezzo leggero, quasi che la produzione fosse dubbiosa delle capacità di assorbimento del pubblico.
Il primo brano è, a mio parere, il meno riuscito. Basato sul famoso primo movimento della quinta sinfonia di Beethoven, viene interpretato, molto astrattamente, come una battaglia tra luce ed ombra, con disneyana vittoria della prima. Visivamente ha dei punti interessanti, ma lo sviluppo mi è parso fiacco.
Decisamente più bello il seguente episodio, che interpreta follemente I pini di Roma di Ottorino Respighi come la storia di balene che volanti.
Stacco deciso per passare alla Rapsodia in blu di George Gershwin che accompagna una storia molto newyorkese, degli anni della depressione, usando il tratto tipico di Al Hirschfeld.
Eccezione alla regola che vuole che la musica sia ispirazione all'animazione, dalla produzione di Shostakovich pare che abbiano trovato quello che cercavano per musicare la favola anderseniana del soldatino di stagno. Aggiustata con un lieto fine d'ordinanza.
Altra interpretazione folle, dal carnevale degli animali di Camille Saint-Saëns, si prende ispirazione per la vicenda di un fenicottero amante dello yo-yo e della sua turbolenta relazione con altri fenicotteri più inquadrati.
Topolino nell'Apprendista stregone lascia spazio a Paperino aiutante di Noè, episodio basato su Pomp and circumstance di Elgar.
Gran finale con un animazione mitologica, che prende spunto dalla suite dall'Uccello di fuoco di Stravinski, in cui uno spirito femminile della fecondità si scontra con un distruttivo (e maschile) spirito fiammeggiante.
Grande varietà sia musicale sia di stili grafici, dunque. Buona l'esecuzione della Chicago Symphony Orchestra diretta da James Levine, con ospiti del calibro di Itzhak Perlman. Animazione che, almeno in alcune scene, mi ha lasciato a bocca aperta, anche se altrove ho notato una commistione poco riuscita tra animazione classica e computerizzata.
La struttura è la stessa dell'originale: brani musicali per orchestra sinfonica che fanno da ispirazione ad animazioni in puro stile Walt Disney. Un episodio è in condivisione, il famoso Apprendista stregone interpretato da un Topolino pasticcione che scatena, suo malgrado, innumerevoli scope magicamente munite di braccia e di una ferrea volontà. Tra un brano e l'altro intervengono personaggi in carne e ossa (Steve Martin il più divertente ed ha pure l'ultima parola, alla fine dei titoli di coda) a fare da intermezzo leggero, quasi che la produzione fosse dubbiosa delle capacità di assorbimento del pubblico.
Il primo brano è, a mio parere, il meno riuscito. Basato sul famoso primo movimento della quinta sinfonia di Beethoven, viene interpretato, molto astrattamente, come una battaglia tra luce ed ombra, con disneyana vittoria della prima. Visivamente ha dei punti interessanti, ma lo sviluppo mi è parso fiacco.
Decisamente più bello il seguente episodio, che interpreta follemente I pini di Roma di Ottorino Respighi come la storia di balene che volanti.
Stacco deciso per passare alla Rapsodia in blu di George Gershwin che accompagna una storia molto newyorkese, degli anni della depressione, usando il tratto tipico di Al Hirschfeld.
Eccezione alla regola che vuole che la musica sia ispirazione all'animazione, dalla produzione di Shostakovich pare che abbiano trovato quello che cercavano per musicare la favola anderseniana del soldatino di stagno. Aggiustata con un lieto fine d'ordinanza.
Altra interpretazione folle, dal carnevale degli animali di Camille Saint-Saëns, si prende ispirazione per la vicenda di un fenicottero amante dello yo-yo e della sua turbolenta relazione con altri fenicotteri più inquadrati.
Topolino nell'Apprendista stregone lascia spazio a Paperino aiutante di Noè, episodio basato su Pomp and circumstance di Elgar.
Gran finale con un animazione mitologica, che prende spunto dalla suite dall'Uccello di fuoco di Stravinski, in cui uno spirito femminile della fecondità si scontra con un distruttivo (e maschile) spirito fiammeggiante.
Grande varietà sia musicale sia di stili grafici, dunque. Buona l'esecuzione della Chicago Symphony Orchestra diretta da James Levine, con ospiti del calibro di Itzhak Perlman. Animazione che, almeno in alcune scene, mi ha lasciato a bocca aperta, anche se altrove ho notato una commistione poco riuscita tra animazione classica e computerizzata.
Accordi & disaccordi
L'intraducibile titolo originale, Sweet and lowdown, è un capolavoro di ambiguità, risolvendosi diversamente se pensiamo al film come un documentario su un jazzista (Emmet Ray - Sean Penn) americano della prima metà del secolo scorso - lowdown è infatti uno stile jazzistico legato al blues, o se lo vediamo più come uno studio sul carattere del protagonista, e in questo caso lowdown diventa un termine ambiguo, tra la depressione e la mascalzonaggine.
Sceneggiatura e regia di Woody Allen, che appare come narratore della vicenda, accompagnato da fior di testimonianze di studiosi del personaggio, anche se la tesi prevalente è che poco o nulla si sa di certo sul suo conto, se non il poco che sarebbe giunto fino a noi su pochi dischi d'epoca, e la sua passione per Django Reinhardt. La sua storia è così incerta, che di un certo episodio ci vengono fornite tre diverse varianti, una più incredibile dell'altra, tra l'altro.
Bellissima la colonna sonora, che giustifica appieno la pretesa di Ray di essere il più grande chitarrista vivente al mondo, anzi, il secondo, come non riesce a fare a meno di correggersi tutte le volte.
Bravissimo Sean Penn a rendere il personaggio, un genio che fuori dal suo ambito prediletto si comporta tra l'assurdo e l'insostenibile. Scopriamo che ha avuto una bruttissima infanzia, e che questo lo ha reso incapace di esprimere le proprie emozioni, se non con la chitarra. Ma l'essere un virtuoso dello strumento, uno dei pochi capaci di ottenere comunque e dovunque un contratto, nonostante il periodo di vacche magre, non gli impedisce di essere anche un ubriacone, cleptomane, giocatore di biliardo, piantagrane, gigolò e magnaccia. Definirlo un personaggio sopra le righe è limitante.
Un giorno incontra una donna (Samantha Morton, eccellente). Gli piace, non gli piace, massì, gli piace. Dopo un po' scopre che è muta, e ha anche qualche problema di testa. Come personaggio mi ha fatto pensare a Gelsomina (La strada), e in effetti lui è una specie di Zampanò. Sapendo della passione di Allen per Fellini, il contatto dovrebbe essere voluto. Qui i toni sono più da commedia, e il finale è meno tragico.
In ogni caso, il jazzista e la muta hanno una relazione tempestosa, che li porterà anche ad Hollywood. Finirà con la fuga di Ray, incapace di stabilire una relazione seria. Invece incontrerà e sposerà Blanche (Uma Thurman) una donna di origini altolocate (pare), molto razionale, e che vorrebbe diventare una scrittrice. I due non hanno praticamente niente in comune, se non l'amore per gli abiti, e dopo qualche turbolenza di troppo - lei stabilisce una relazione con un piccolo delinquente (Anthony LaPaglia) - anche questa avventura finisce nel nulla, un po' come tutta la vita di Ray.
Si potrebbe fare un parallelo con un altro film di Allen, Zelig. Lì l'invito era ad essere sé stessi, ed evitare la facile scorciatoia di adattarsi a diventare quello che gli altri si aspettano da noi. Qui direi che ci viene ricordato quanto sia difficile trovare la persona giusta con cui passare la nostra vita, e ci si invita a fare attenzione a non perderla, se la riusciamo a trovare.
Sceneggiatura e regia di Woody Allen, che appare come narratore della vicenda, accompagnato da fior di testimonianze di studiosi del personaggio, anche se la tesi prevalente è che poco o nulla si sa di certo sul suo conto, se non il poco che sarebbe giunto fino a noi su pochi dischi d'epoca, e la sua passione per Django Reinhardt. La sua storia è così incerta, che di un certo episodio ci vengono fornite tre diverse varianti, una più incredibile dell'altra, tra l'altro.
Bellissima la colonna sonora, che giustifica appieno la pretesa di Ray di essere il più grande chitarrista vivente al mondo, anzi, il secondo, come non riesce a fare a meno di correggersi tutte le volte.
Bravissimo Sean Penn a rendere il personaggio, un genio che fuori dal suo ambito prediletto si comporta tra l'assurdo e l'insostenibile. Scopriamo che ha avuto una bruttissima infanzia, e che questo lo ha reso incapace di esprimere le proprie emozioni, se non con la chitarra. Ma l'essere un virtuoso dello strumento, uno dei pochi capaci di ottenere comunque e dovunque un contratto, nonostante il periodo di vacche magre, non gli impedisce di essere anche un ubriacone, cleptomane, giocatore di biliardo, piantagrane, gigolò e magnaccia. Definirlo un personaggio sopra le righe è limitante.
Un giorno incontra una donna (Samantha Morton, eccellente). Gli piace, non gli piace, massì, gli piace. Dopo un po' scopre che è muta, e ha anche qualche problema di testa. Come personaggio mi ha fatto pensare a Gelsomina (La strada), e in effetti lui è una specie di Zampanò. Sapendo della passione di Allen per Fellini, il contatto dovrebbe essere voluto. Qui i toni sono più da commedia, e il finale è meno tragico.
In ogni caso, il jazzista e la muta hanno una relazione tempestosa, che li porterà anche ad Hollywood. Finirà con la fuga di Ray, incapace di stabilire una relazione seria. Invece incontrerà e sposerà Blanche (Uma Thurman) una donna di origini altolocate (pare), molto razionale, e che vorrebbe diventare una scrittrice. I due non hanno praticamente niente in comune, se non l'amore per gli abiti, e dopo qualche turbolenza di troppo - lei stabilisce una relazione con un piccolo delinquente (Anthony LaPaglia) - anche questa avventura finisce nel nulla, un po' come tutta la vita di Ray.
Si potrebbe fare un parallelo con un altro film di Allen, Zelig. Lì l'invito era ad essere sé stessi, ed evitare la facile scorciatoia di adattarsi a diventare quello che gli altri si aspettano da noi. Qui direi che ci viene ricordato quanto sia difficile trovare la persona giusta con cui passare la nostra vita, e ci si invita a fare attenzione a non perderla, se la riusciamo a trovare.
Fight club
Mia seconda visione per questo film che ha un buon seguito di fan affezionati. Sarà anche per questo che con il passare degli anni avevo finito per crearmi un ricordo indotto migliore di quello che è il mio gusto. Fortunatamente ai tempi avevo segnato su imdb il mio voto, un 7 senza infamia e senza lode, in cui mi riconosco ancora adesso.
La sceneggiatura è basata sul romanzo omonimo di Chuck Palahniuk, già abbastanza confuso, ma che viene resa con un ancor minor focalizzazione su un tema.
Il romanzo è una sorta di tragicommedia che narra la confusione che sfocia nella follia del protagonista. Potrebbe essere visto come una critica radicale al nostro sistema economico turbo-consumista, resa amara dal fatto che non si riesce a proporre una valida alternativa al sistema.
La regia di David Fincher è piacevole, ma non mi pare faccia un favore al romanzo, sottolineando gli aspetti macho e rendendo ancora meno chiara l'impostazione tragicamente disperata della vicenda. Il finale, poi, diventa nel film una sorta di bizzarro lieto fine romantico in cui il protagonista pare che riesca a trovare un improbabile equilibrio emotivo e relazionale.
Nel film il ruolo del protagonista va a Edward Norton, adeguato nel rendere un personaggio di una mediocrità tra il comico e il drammatico. Ha un lavoro spiacevole che però non riesce a lasciare, cerca sfogo in un becero consumismo, rappresentato da una fissazione per il catalogo IKEA, ma questo non gli basta, e subisce la ribellione del suo corpo che gli infligge un'insonnia da cui non riesce a liberarsi.
Fa alcuni incontri, uno povero disgraziato ex-wrestler con cancro ai testicoli (Meat Loaf, un habitué dei ruoli estremi, vedasi The Rocky Horror Picture Show); una mezza pazza (Helena Bonham Carter, anche lei a suo agio con questi personaggi) da cui è contemporaneamente attratto e repulso; e uno sciroccato bello e dannato (Brad Pitt, non c'è niente da dire, il casting è davvero ottimale). I due, Norton e Pitt, diventano amiconi, fondano il fight club del titolo, in cui loro e altri sbandati fanno una sorta di autoanalisi che funziona a cazzottoni. Pitt ha una relazione di puro sesso con la Bonham Carter, Norton è contemporaneamente geloso e disgustato da ciò, nota che curiosamente non riesce mai ad essere nella stessa stanza con gli altri due vertici di questo strano triangolo, ma non ci dà poi un gran peso. Finché non capisce di essere matto come un cavallo.
Nel frattempo il Fight club si trasforma del Progetto Mayhem, una cospirazione autodistruttiva che vorrebbe colpire il sistema esistente per costruire qualcosa di nuovo, che finisce per delinearsi come qualcosa persino peggiore di quello che abbiamo adesso, una sorta di cieca dittatura carismatica in cui bisogna solo credere, obbedire, combattere.
Entra in ballo anche Jared Leto (personaggio poco significativo) che si applica con gioia alle finalità nichiliste autodistruttive del progetto, ottenendo in cambio l'approvazione di Pitt. Scintilla finale, una demente azione dei teppisti porta alla morte di Meat Loaf. Norton perde la persona più simile ad un amico che abbia mai avuto, è geloso della relazione tra la Bohnam Carter e Pitt, ma forse pure di quella tra Pitt e Leto, con possibile tensione omosessuale, e il piano Mayhem gli pare sempre più idiota. Si arriva dunque alla resa dei conti: Norton vs. Pitt.
Mi vien da credere che il successo del film sia dovuto quasi esclusivamente alle scazzottate e agli atti di bizzarro teppismo della insensata società segreta. E direi purtroppo, perché di spunti interessanti ce ne sarebbero pure.
La sceneggiatura è basata sul romanzo omonimo di Chuck Palahniuk, già abbastanza confuso, ma che viene resa con un ancor minor focalizzazione su un tema.
Il romanzo è una sorta di tragicommedia che narra la confusione che sfocia nella follia del protagonista. Potrebbe essere visto come una critica radicale al nostro sistema economico turbo-consumista, resa amara dal fatto che non si riesce a proporre una valida alternativa al sistema.
La regia di David Fincher è piacevole, ma non mi pare faccia un favore al romanzo, sottolineando gli aspetti macho e rendendo ancora meno chiara l'impostazione tragicamente disperata della vicenda. Il finale, poi, diventa nel film una sorta di bizzarro lieto fine romantico in cui il protagonista pare che riesca a trovare un improbabile equilibrio emotivo e relazionale.
Nel film il ruolo del protagonista va a Edward Norton, adeguato nel rendere un personaggio di una mediocrità tra il comico e il drammatico. Ha un lavoro spiacevole che però non riesce a lasciare, cerca sfogo in un becero consumismo, rappresentato da una fissazione per il catalogo IKEA, ma questo non gli basta, e subisce la ribellione del suo corpo che gli infligge un'insonnia da cui non riesce a liberarsi.
Fa alcuni incontri, uno povero disgraziato ex-wrestler con cancro ai testicoli (Meat Loaf, un habitué dei ruoli estremi, vedasi The Rocky Horror Picture Show); una mezza pazza (Helena Bonham Carter, anche lei a suo agio con questi personaggi) da cui è contemporaneamente attratto e repulso; e uno sciroccato bello e dannato (Brad Pitt, non c'è niente da dire, il casting è davvero ottimale). I due, Norton e Pitt, diventano amiconi, fondano il fight club del titolo, in cui loro e altri sbandati fanno una sorta di autoanalisi che funziona a cazzottoni. Pitt ha una relazione di puro sesso con la Bonham Carter, Norton è contemporaneamente geloso e disgustato da ciò, nota che curiosamente non riesce mai ad essere nella stessa stanza con gli altri due vertici di questo strano triangolo, ma non ci dà poi un gran peso. Finché non capisce di essere matto come un cavallo.
Nel frattempo il Fight club si trasforma del Progetto Mayhem, una cospirazione autodistruttiva che vorrebbe colpire il sistema esistente per costruire qualcosa di nuovo, che finisce per delinearsi come qualcosa persino peggiore di quello che abbiamo adesso, una sorta di cieca dittatura carismatica in cui bisogna solo credere, obbedire, combattere.
Entra in ballo anche Jared Leto (personaggio poco significativo) che si applica con gioia alle finalità nichiliste autodistruttive del progetto, ottenendo in cambio l'approvazione di Pitt. Scintilla finale, una demente azione dei teppisti porta alla morte di Meat Loaf. Norton perde la persona più simile ad un amico che abbia mai avuto, è geloso della relazione tra la Bohnam Carter e Pitt, ma forse pure di quella tra Pitt e Leto, con possibile tensione omosessuale, e il piano Mayhem gli pare sempre più idiota. Si arriva dunque alla resa dei conti: Norton vs. Pitt.
Mi vien da credere che il successo del film sia dovuto quasi esclusivamente alle scazzottate e agli atti di bizzarro teppismo della insensata società segreta. E direi purtroppo, perché di spunti interessanti ce ne sarebbero pure.
Payback - La rivincita di Porter
Cosa può spingere un essere senziente a vedere per due volte nella sua vita questo film non particolarmente significativo? Non certo la regia di Brian Helgeland, più a suo agio nei panni di sceneggiatore non originale (come anche qui, del resto, ma meglio in L.A. Confidential), ma nemmeno Mel Gibson nel ruolo principale (un delinquentello tutto muscoli e poco cervello, interpretato abbastanza bene, ma non lo metterei tra i suoi personaggi più significativi) e neanche la pur fascinosa Maria Bello, che fa più da contorno che altro.
Nel mio caso, è stata la scoperta che trattasi di un remake, o meglio, di una nuova riduzione cinematografica di un romanzo già utilizzato come base per Senza un attimo di tregua nei lontani anni sessanta. Approfittando di essermi quasi completamente dimenticato della prima visione, mi sono visto prima la versione di Boorman, poi quella di Helgeland. E devo dire che i due film, che visti singolarmente non sono poi un granché, visti a distanza ravvicinata guadagnano dal confronto.
Non è solo Point Blank a guadagnarci (bella forza, Boorman batte Helgeland anche a occhi chiusi) ma anche Payback. Vedendolo dopo si apprezzano meglio i cambiamenti nella trama, e assume un suo interesse come variazione su di un tema prefissato. Anche se c'é da dire che non è che mi pare particolarmente riuscita. È più intrigante il personaggio interpretato da Lee Marvin, che viene mosso da un presupposto assurdo, così assurdo che alla fine anche lui lo lascia perdere. Quello di Gibson è invece semplicemente un imbecille graziato da una incredibile fortuna e capacità di incassare botte, pallottole e persino martellate.
Nel mio caso, è stata la scoperta che trattasi di un remake, o meglio, di una nuova riduzione cinematografica di un romanzo già utilizzato come base per Senza un attimo di tregua nei lontani anni sessanta. Approfittando di essermi quasi completamente dimenticato della prima visione, mi sono visto prima la versione di Boorman, poi quella di Helgeland. E devo dire che i due film, che visti singolarmente non sono poi un granché, visti a distanza ravvicinata guadagnano dal confronto.
Non è solo Point Blank a guadagnarci (bella forza, Boorman batte Helgeland anche a occhi chiusi) ma anche Payback. Vedendolo dopo si apprezzano meglio i cambiamenti nella trama, e assume un suo interesse come variazione su di un tema prefissato. Anche se c'é da dire che non è che mi pare particolarmente riuscita. È più intrigante il personaggio interpretato da Lee Marvin, che viene mosso da un presupposto assurdo, così assurdo che alla fine anche lui lo lascia perdere. Quello di Gibson è invece semplicemente un imbecille graziato da una incredibile fortuna e capacità di incassare botte, pallottole e persino martellate.
Magnolia
Un paio di volte, forse tre, sono stato sul punto di mandare a quel paese Paul Thomas Anderson, responsabile assoluto del film in quanto l'ha scritto, prodotto e diretto, e mettermi a fare altro, invece che perder tempo dietro ad una vicenda che sembra intenzionalmente narrata con lo scopo di far scappare il pubblico.
I motivi per evitare questa visione sono ottimi e abbondanti. La lunghezza eccessiva, ad esempio. Tre ore in cui si seguono senza fretta, quasi in tempo reale, le vicende di un nugolo di personaggi che interagiscono debolmente da qualche parte in California. Detto così ricorda America oggi di Robert Altman - aggiungiamoci pure Julianne Moore che è presente in entrambe le pellicole, giusto per confondere ancor di più le acque. Però Altman, basandosi su scritti di Raymond Carver, ci propone un imponente affresco sull'umanità in crisi. Qui invece non capisco dove si vada a parare. Il caso come assurdo rimescolatore dei destini? O la negazione della casualità, cercando di estrapolare un senso dove sembrerebbe impossibile vederne uno?
La colonna sonora è molto bella, ma non mi è piaciuto il suo uso. Spesso sovrasta l'azione, creando una saturazione sensoriale (la macchina da presa si muove mostrando nuovi dettagli, i personaggi parlano sullo sfondo), evidentemente voluta dal regista ma anche qui non capisco bene a che scopo. Ci si vuole forse dire che, dopotutto, le vicende narrate non sono poi così importanti e di godersi piuttosto le immagini e la musica? E c'è bisogno di insistere per tre ore nel ripetere lo stesso concetto?
D'altro canto l'intreccio delle storie è interessante, la regia ha una sua notevole personalità, e il livello recitativo è notevole. Da cui il mio imbarazzo se dovessi consigliare o meno la visione a qualcun altro. Penso sarebbe opportuno vederselo un paio di volte - non di fila, non mi pare umano - e magari aiuterebbe sentirsi prima la colonna sonora, in modo da ridurre il sovraccarico in informazioni che ci vengono sparate nella visione.
La vicenda si svolge attorno a un telequiz che contrappone una squadra di adulti (tra i quali spicca Luis Guzman, con il suo faccione molto riconoscibile) e una di bambini, in onda da decenni.
Il produttore originale del programma (Jason Robards) sta morendo di cancro, accudito da un infermiere un po' bambinone ma dal buon cuore (Philip Seymour Hoffman) e dalla giovane seconda moglie (Julianne Moore). Il moribondo ha un figlio (Tom Cruise) avuto dalla prima moglie, a sua volta morta di cancro molti anni prima, dopo che il marito la aveva abbandonata. Costui ora insegna agli uomini a comportarsi da macho, in un poco chiaro tentativo di vendicarsi dell'abbandono paterno.
Il conduttore del programma (Philip Baker Hall) è ancora al lavoro, ma ha un cancro anche lui, anche se al momento lo sanno solo la moglie (Melinda Dillon) e pochi intimi. Cerca di dirlo alla figlia (Melora Walters), che però non vuole nemmeno ascoltarlo - lei sniffa quantità spropositate di cocaina, fa sesso casuale (forse a pagamento), e sembra avere forti motivi per rifiutare così decisamente il padre. In seguito al litigio, cerca di sfuggire alla depressione ascoltando musica a palla mentre si droga. Di conseguenza i vicini chiamano la polizia e arriva un poliziotto bonaccione (John C. Reilly) che non si accorge di quanto sia tossica la ragazza e si innamora istantaneamente di lei.
Un partecipante al programma di molti anni prima, in cui aveva vinto molti soldi, ora è un fallito (William H. Macy) che viene licenziato dal suo capo (Alfred Molina) per manifesta incapacità dopo lunghi anni di sopportazione. Costui è segretamente innamorato di un barista, e per lui si vuol mettere un apparecchio ai denti - pur non avendone bisogno, per pura emulazione - e dunque ha bisogno di soldi.
Un partecipante al programma di quel giorno è un bimbo in pratica costretto dal padre a studiare fatti strani e che si trova inscatolato in un ambiente in cui non sembra trovarsi molto a proprio agio.
I motivi per evitare questa visione sono ottimi e abbondanti. La lunghezza eccessiva, ad esempio. Tre ore in cui si seguono senza fretta, quasi in tempo reale, le vicende di un nugolo di personaggi che interagiscono debolmente da qualche parte in California. Detto così ricorda America oggi di Robert Altman - aggiungiamoci pure Julianne Moore che è presente in entrambe le pellicole, giusto per confondere ancor di più le acque. Però Altman, basandosi su scritti di Raymond Carver, ci propone un imponente affresco sull'umanità in crisi. Qui invece non capisco dove si vada a parare. Il caso come assurdo rimescolatore dei destini? O la negazione della casualità, cercando di estrapolare un senso dove sembrerebbe impossibile vederne uno?
La colonna sonora è molto bella, ma non mi è piaciuto il suo uso. Spesso sovrasta l'azione, creando una saturazione sensoriale (la macchina da presa si muove mostrando nuovi dettagli, i personaggi parlano sullo sfondo), evidentemente voluta dal regista ma anche qui non capisco bene a che scopo. Ci si vuole forse dire che, dopotutto, le vicende narrate non sono poi così importanti e di godersi piuttosto le immagini e la musica? E c'è bisogno di insistere per tre ore nel ripetere lo stesso concetto?
D'altro canto l'intreccio delle storie è interessante, la regia ha una sua notevole personalità, e il livello recitativo è notevole. Da cui il mio imbarazzo se dovessi consigliare o meno la visione a qualcun altro. Penso sarebbe opportuno vederselo un paio di volte - non di fila, non mi pare umano - e magari aiuterebbe sentirsi prima la colonna sonora, in modo da ridurre il sovraccarico in informazioni che ci vengono sparate nella visione.
La vicenda si svolge attorno a un telequiz che contrappone una squadra di adulti (tra i quali spicca Luis Guzman, con il suo faccione molto riconoscibile) e una di bambini, in onda da decenni.
Il produttore originale del programma (Jason Robards) sta morendo di cancro, accudito da un infermiere un po' bambinone ma dal buon cuore (Philip Seymour Hoffman) e dalla giovane seconda moglie (Julianne Moore). Il moribondo ha un figlio (Tom Cruise) avuto dalla prima moglie, a sua volta morta di cancro molti anni prima, dopo che il marito la aveva abbandonata. Costui ora insegna agli uomini a comportarsi da macho, in un poco chiaro tentativo di vendicarsi dell'abbandono paterno.
Il conduttore del programma (Philip Baker Hall) è ancora al lavoro, ma ha un cancro anche lui, anche se al momento lo sanno solo la moglie (Melinda Dillon) e pochi intimi. Cerca di dirlo alla figlia (Melora Walters), che però non vuole nemmeno ascoltarlo - lei sniffa quantità spropositate di cocaina, fa sesso casuale (forse a pagamento), e sembra avere forti motivi per rifiutare così decisamente il padre. In seguito al litigio, cerca di sfuggire alla depressione ascoltando musica a palla mentre si droga. Di conseguenza i vicini chiamano la polizia e arriva un poliziotto bonaccione (John C. Reilly) che non si accorge di quanto sia tossica la ragazza e si innamora istantaneamente di lei.
Un partecipante al programma di molti anni prima, in cui aveva vinto molti soldi, ora è un fallito (William H. Macy) che viene licenziato dal suo capo (Alfred Molina) per manifesta incapacità dopo lunghi anni di sopportazione. Costui è segretamente innamorato di un barista, e per lui si vuol mettere un apparecchio ai denti - pur non avendone bisogno, per pura emulazione - e dunque ha bisogno di soldi.
Un partecipante al programma di quel giorno è un bimbo in pratica costretto dal padre a studiare fatti strani e che si trova inscatolato in un ambiente in cui non sembra trovarsi molto a proprio agio.
Toy story 2 - Woody e Buzz alla riscossa
Alla fine del primo episodio i due protagonisti erano riusciti a trovare un buon equilibrio, che però qui cede con uno strappo, con Woody che viene suo malgrado allontanato e Buzz che cerca di riportarlo a casa.
Non mi pare che aggiunga molto al succo vicenda. Abbiamo un nuovo cattivo (un collezionista di giocattoli a fine di lucro) e alcuni nuovi personaggi minori, e qualche divertente citazione esterna (Guerre stellari, soprattutto).
Neanche la qualità dell'animazione mi pare che migliori in modo significativo.
Non mi pare che aggiunga molto al succo vicenda. Abbiamo un nuovo cattivo (un collezionista di giocattoli a fine di lucro) e alcuni nuovi personaggi minori, e qualche divertente citazione esterna (Guerre stellari, soprattutto).
Neanche la qualità dell'animazione mi pare che migliori in modo significativo.
Essere John Malkovich
La scena che da sola vale la visione del film è quella in cui John Malkovich viene sparato, per mezzo di un inesplicabile meccanismo che è il fulcro della storia, in un assurdo mondo in cui tutti (uomini, donne, bambini) sono John Malkovich e l'unica parola pronunciabile è Malkovich.
Regia piacevole di Spike Jonze, storia sorprendente di Charlie Kaufman, entrambi al primo lungometraggio. Meglio non entrare nei dettagli di quel che succede perché, svanito l'effetto sorpresa, la prima visione perde molto. Anche se c'è da dire che l'ottimo cast permette di godersi anche le visioni successive.
Un tale (John Cusack) che per vocazione sarebbe puparo, cosa che perfino a New York non offre molti sbocchi occupazionali, è sposato a una ingrigita e dimessa Cameron Diaz. Su pressione di lei si cerca un lavoro alternativo, e lo trova come archivista in un ufficio che si trova al settimo piano e mezzo di un bizzarro palazzotto in Manhattan. Lì incontra un'altra donna (Catherine Keener) da cui viene irresistibilmente attratto, nonostante lei gli faccia capire di non avere praticamente il minimo interesse per lui - o forse proprio per questo.
Questa che sembra una normale commedia metropolitana, vira improvvisamente su un piano metafisico/psicologico, tirando in ballo temi non indifferenti quali il senso della vita, la morte, il concetto di "essere", di individualità, e altre bazzecole del genere, ma sempre restando nei canoni della commedia sentimentale leggera. A ben vedere, la storia in quanto tale è una sciocchezza magistrale, e non sono nemmeno ben sicuro di cosa voglia dire. Però offre un paio d'ore di bizzarro divertimento.
Simpatica la partecipazione di Charlie Sheen, anche lui, come Malkovich, nei panni di sé stesso.
Regia piacevole di Spike Jonze, storia sorprendente di Charlie Kaufman, entrambi al primo lungometraggio. Meglio non entrare nei dettagli di quel che succede perché, svanito l'effetto sorpresa, la prima visione perde molto. Anche se c'è da dire che l'ottimo cast permette di godersi anche le visioni successive.
Un tale (John Cusack) che per vocazione sarebbe puparo, cosa che perfino a New York non offre molti sbocchi occupazionali, è sposato a una ingrigita e dimessa Cameron Diaz. Su pressione di lei si cerca un lavoro alternativo, e lo trova come archivista in un ufficio che si trova al settimo piano e mezzo di un bizzarro palazzotto in Manhattan. Lì incontra un'altra donna (Catherine Keener) da cui viene irresistibilmente attratto, nonostante lei gli faccia capire di non avere praticamente il minimo interesse per lui - o forse proprio per questo.
Questa che sembra una normale commedia metropolitana, vira improvvisamente su un piano metafisico/psicologico, tirando in ballo temi non indifferenti quali il senso della vita, la morte, il concetto di "essere", di individualità, e altre bazzecole del genere, ma sempre restando nei canoni della commedia sentimentale leggera. A ben vedere, la storia in quanto tale è una sciocchezza magistrale, e non sono nemmeno ben sicuro di cosa voglia dire. Però offre un paio d'ore di bizzarro divertimento.
Simpatica la partecipazione di Charlie Sheen, anche lui, come Malkovich, nei panni di sé stesso.
Go - una notte da dimenticare
Sesso, droga e musica tecno per una commedia adolescenziale incrociata con Pulp Fiction. Il primo lungometraggio scritto da John August (vedi Tim Burton) che qui mi sembra più interessato a giocare con gli intrecci della trama che a raccontare una storia vera e propria. Ci sono spunti e qualche scena divertente (un paio di allucinazioni di un ragazzetto impasticcato, in una delle quali si immagina uno scatenata Macarena nel supermercato con la cassiera della fila accanto) ma non è che sia memorabile. Stesso dicasi per la regia di Doug Liman, che pure mostra una buona attitudine per le scene movimentate, che gli tornerà utile in seguito (Bourne identity, Mr & Mrs Smith).
Amore a prima vista
Commedia degli equivoci scritta, diretta e interpretata da Vincenzo Salemme. M'ha fatto ridere, ma non mi ha lasciato soddisfatto.
Molti gli elementi positivi nel film, come la colonna sonora impreziosita dal tocco di Pino Daniele, il buon senso del ritmo degli attori, che seguono bene una sceneggiatura a suo modo piacevole, nel solco della tradizione napoletana, ma che avrebbe meritato una bella riscrittura.
La storia è quella del figlio di un boss camorrista (Salemme) sul punto di sposare la figlia di boss della mafia siciliana (Mandala Tayde) che però, poco prima del matrimonio, si sottopone ad un trapianto di cornee e, in modo paradossale, questo lo porta a innamorarsi di chi era innamorato il donatore. Sfortuna vuole che a donare le cornee sia stata la donna di un maresciallo dei carabinieri (Maurizio Casagrande), con tutto quel che ne consegue.
Molti gli elementi positivi nel film, come la colonna sonora impreziosita dal tocco di Pino Daniele, il buon senso del ritmo degli attori, che seguono bene una sceneggiatura a suo modo piacevole, nel solco della tradizione napoletana, ma che avrebbe meritato una bella riscrittura.
La storia è quella del figlio di un boss camorrista (Salemme) sul punto di sposare la figlia di boss della mafia siciliana (Mandala Tayde) che però, poco prima del matrimonio, si sottopone ad un trapianto di cornee e, in modo paradossale, questo lo porta a innamorarsi di chi era innamorato il donatore. Sfortuna vuole che a donare le cornee sia stata la donna di un maresciallo dei carabinieri (Maurizio Casagrande), con tutto quel che ne consegue.
Una mente perversa
Il titolo originale "A twist of faith" avrebbe potuto essere tradotto meglio Una conversione, il che avrebbe almeno aiutato a tenere vivo l'interesse per scoprire chi si converte (scherzo, si capisce subito anche questo).
Film di qualità televisiva, con protagonisti più noti per i telefilm che per i film in cui sono apparsi: Michael Ironside (Total recall) e Andrew McCarthy (Weekend col morto).
Un serial killer ammazza gente collegata ad una piccola chiesa cattolica in Canada, a partire dal prete titolare, lasciando una serie di riferimenti biblici in pasto agli investigatori. I poliziotti indagano ma non capiscono un tubo, e l'assassino si fa beffe di loro (in particolar modo di McCarthy, che ha problemi già per conto suo).
Ritmi fiacchi, colpo di scena finale che potrebbe prendere di sorpresa solo lo spettatore più disattento. L'apparizione per pochi secondi di una Ferrari (ferma) forse il momento migliore del film.
Film di qualità televisiva, con protagonisti più noti per i telefilm che per i film in cui sono apparsi: Michael Ironside (Total recall) e Andrew McCarthy (Weekend col morto).
Un serial killer ammazza gente collegata ad una piccola chiesa cattolica in Canada, a partire dal prete titolare, lasciando una serie di riferimenti biblici in pasto agli investigatori. I poliziotti indagano ma non capiscono un tubo, e l'assassino si fa beffe di loro (in particolar modo di McCarthy, che ha problemi già per conto suo).
Ritmi fiacchi, colpo di scena finale che potrebbe prendere di sorpresa solo lo spettatore più disattento. L'apparizione per pochi secondi di una Ferrari (ferma) forse il momento migliore del film.
Star Wars I - La minaccia fantasma
Un ventennio dopo la prima trilogia di Star Wars arriva un secondo terzetto di film con la stessa ambientazione, ma spostati una generazione indietro.
Se il protagonista degli episodi 4,5,6 è Luke Skywalker, qui il ruolo principale se lo piglia il padre, Anakin Skywalker, che sappiamo già essere uno Jedi passato al lato oscuro della forza.
Il fatto di saper già come va a finire, indebolisce la vicenda. Ma non è il solo punto debole di questo secondo blocco di episodi di Star Wars. Un altro grosso problema è che, se narrare il futuro è a rischio di invecchiamento precoce, raccontare dopo vent'anni i precedenti di un futuro invecchiato è davvero un processo molto complicato.
Tecnicamente parlando i tre Star Wars centrati su Anakin sono nettamente superiori ai tre di Luke, però non hanno molto da dire e, nonostante la cura con cui sono stati fatti, finiscono per essere interessanti solo per appassionati del genere.
Episodio I, The Phantom Menace. Quale diamine sia la minaccia fantasma non è chiarissimo. Interpolando, dovrebbe essere il Sith che organizza l'attacco alla repubblica. E qui nasce la domanda spontanea: ma da dove saltano fuori questi Sith? La spiegazione data dal film è che erano dati per estinti da un millennio, e all'improvviso eccone qua un paio - viaggiano sempre in coppia, ci viene detto. Strano che non si parli dei Sith ai tempi di Luke, vien da dirsi. Altra cosa strana sono i midi-clorian, sorta di mediatori tra forme viventi e la forza, di cui pure non si dirà nulla in futuro.
La regia, di George Lucas, non è particolarmente entusiasmante, ma il cast fa bene il suo lavoro. A partire Liam Neeson, nel ruolo dello Jedi master di Obi-Wan Kenobi, a sua volta interpretato adeguatamente da Ewan McGregor e da Natalie Portman come regina Amidala.
Ho trovato bizzarro che il ruolo del giovane Anakin sia stato affidato ad un bambino di dieci anni. Immagino che si sia trattato di una scelta a livello di marketing, per attrarre un mercato di consumatori interessante a livello di giocattoli e gadget associati al film. Ma all'interno della storia la cosa non regge, anche mettendoci la forza e tanta buona volontà. Tra l'altro fa amicizia con Amidala che, oltre ad essere regina, ha anche una decina di anni più di lui.
Se il protagonista degli episodi 4,5,6 è Luke Skywalker, qui il ruolo principale se lo piglia il padre, Anakin Skywalker, che sappiamo già essere uno Jedi passato al lato oscuro della forza.
Il fatto di saper già come va a finire, indebolisce la vicenda. Ma non è il solo punto debole di questo secondo blocco di episodi di Star Wars. Un altro grosso problema è che, se narrare il futuro è a rischio di invecchiamento precoce, raccontare dopo vent'anni i precedenti di un futuro invecchiato è davvero un processo molto complicato.
Tecnicamente parlando i tre Star Wars centrati su Anakin sono nettamente superiori ai tre di Luke, però non hanno molto da dire e, nonostante la cura con cui sono stati fatti, finiscono per essere interessanti solo per appassionati del genere.
Episodio I, The Phantom Menace. Quale diamine sia la minaccia fantasma non è chiarissimo. Interpolando, dovrebbe essere il Sith che organizza l'attacco alla repubblica. E qui nasce la domanda spontanea: ma da dove saltano fuori questi Sith? La spiegazione data dal film è che erano dati per estinti da un millennio, e all'improvviso eccone qua un paio - viaggiano sempre in coppia, ci viene detto. Strano che non si parli dei Sith ai tempi di Luke, vien da dirsi. Altra cosa strana sono i midi-clorian, sorta di mediatori tra forme viventi e la forza, di cui pure non si dirà nulla in futuro.
La regia, di George Lucas, non è particolarmente entusiasmante, ma il cast fa bene il suo lavoro. A partire Liam Neeson, nel ruolo dello Jedi master di Obi-Wan Kenobi, a sua volta interpretato adeguatamente da Ewan McGregor e da Natalie Portman come regina Amidala.
Ho trovato bizzarro che il ruolo del giovane Anakin sia stato affidato ad un bambino di dieci anni. Immagino che si sia trattato di una scelta a livello di marketing, per attrarre un mercato di consumatori interessante a livello di giocattoli e gadget associati al film. Ma all'interno della storia la cosa non regge, anche mettendoci la forza e tanta buona volontà. Tra l'altro fa amicizia con Amidala che, oltre ad essere regina, ha anche una decina di anni più di lui.
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