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Mean streets - Domenica in chiesa, lunedì all'inferno

La sceneggiatura è così legata alle esperienze reali della vita di Martin Scorsese nella Little Italy newyorkese che il protagonista si chiama Charlie Cappa. E, guarda caso, il nome completo di Scorsese è Martin Charles, e sua madre di cognome faceva Cappa.

Interessante il confronto con Il padrino di Coppola, uscito l'anno precedente. Il nostro Charlie (Harvey Keitel) fa lavoretti per conto dello zio Giovanni (Cesare Danova), mafioso di medio livello, e ha la massima aspirazione di prendere in gestione un ristorante che sta scivolando dalle mani dei legittimi proprietari a quelle dello zio. Se si accenna a cose grosse, come la commistione tra politica americana e mafiosi ai tempi della seconda guerra mondiale, lo si fa solo di striscio. Sono solo ricordi del passato. Il taglio di Coppola era da tragedia shakespeariana. Qui siamo al livello della strada, come già il titolo lascia intendere.

Il tema principale è la gran confusione che c'è nella vita di Charlie. Vorrebbe essere un buon cattolico ma la sua realtà mal si sposa ai precetti religiosi, a questo allude il brutto sottotitolo aggiunto dalla distribuzione italiana. Non è che lui veda grossi problemi nel fatto che il suo lavoro consista nel taglieggiare e gestire una sorta di giustizia minore nel suo quartiere, sono le sue pulsioni sessuali a creargli grossi imbarazzi, ha infatti una relazione sessuale con Teresa (Amy Robinson) senza che i due siano sposati. Anzi, visto che lei ha attacchi epilettici e questo è visto come una pecca inaccettabile da zio Giovanni, i due devono tenere segreta la cosa. Inoltre a Charlie non dispiacerebbe avere qualche avventuretta, magari con una ballerina di colore, anche questo però è un tabù che non se la sente di rompere.

Come se tutto ciò non bastasse, il miglior amico di Charlie è suo cugino Johnny Boy (Robert De Niro), che ha hobby peculiari, come quello di far esplodere cassette postali, o quello, ben più pericoloso, di farsi prestare soldi da chiunque e poi non restituirli. Anche questa è una compagnia che zio Giovanni non reputa adeguata per un picciotto su cui lui fa affidamento.

Come ci si può aspettare, Charlie non riuscirà a mantenere il precario equilibrio troppo a lungo.

Svariati accadimenti movimentano l'azione. C'è anche un truculento omicidio in cui un ragazzetto segue in bagno un tale che si è ubriacato nel bar che frequenta Charlie. Lo riempe di piombo, ma quello è così sbronzo che manco se ne accorge e lotta a lungo con il suo assassino prima che le energie lo lascino. La scenetta è gentilmente fornita da due fratelli Carradine, David (ubriaco) e Robert (killer).

Ancora acerba, ma già molto personale e memorabile, la regia di Scorsese, che usa in modo interessante, almeno per i tempi, la colonna sonora che rende la confusione del protagonista e del suo ambiente mescolando la canzone napoletana alla canzonetta americana e a pezzi rock blues inglesi (Rolling Stones, Eric Clapton, John Mayall).

F come falso

Nel corso del film lo stesso Orson Welles accenna a come gli fosse difficile arrivare in fondo ad alcuni suoi progetti, perché nello scavare in una direzione spesso si trovano cose interessanti e inaspettate che stravolgono le idee originali.

In questo caso sembra che l'idea originale fosse quella di fare una specie di documentario su Elmyr de Hory, noto per aver riempito il mondo di falsi dipinti e disegni attribuiti a nomi come Matisse e Renoir. Già questo porta molto materiale su cui ragionare, a partire dal fatto che Elmyr (in realtà anche il suo nome era falso, si chiamava Elemer Albert Hoffmann) aveva guadagnato ben poco dalla sua attività, che aveva invece ingrassato galleristi, finendo per fare più comodo che danno al mercato dell'arte.

Ai tempi in cui Welles narra la storia, Elmyr si è ritirato ad Ibiza, non esercitava più, ed era diventato noto al mondo dopo che quello che ai tempi era uno scarso romanziere americano, Clifford Irving, aveva scritto un libro inchiesta su di lui. Fatto curioso, anche Clifford viveva ad Ibiza, e i due erano in buoni rapporti.

Ma c'è di più. Welles sta girando materiale su Elmyr quando si scopre che Clifford ha nel frattempo scritto una biografia di Howard Hughes che avrebbe dovuto essere autorizzata dallo stesso e che invece si rivela essere inventata di sana pianta. Già inizialmente non era ben chiaro cosa fosse vero e cosa falso, ora diventa praticamente impossibile.

La dichiarazione iniziale di Welles che avrebbe detto solo la verità per tutta l'ora che sarebbe seguita non è molto utile, sia perché è fatta mentre ci vengono dispensati trucchi da illusionista (classico e cinematografico), sia perché ci ha detto apertamente che tutti coloro che prendono la parola in questo anomalo documentario hanno un rapporto piuttosto complesso con la menzogna.

Welles ci spiega come anche lui stesso abbia iniziato la sua carriera di attore falsificando il suo curriculum. Era a Dublino senza un soldo e gli era sembrata una buona idea proporsi per il palcoscenico, inventandosi inesistenti recite oltreoceano. E come l'abbia proseguita creando quel falso reportage radiofonico, La guerra dei mondi, che molti scambiarono per vero.

Senza contare poi che la pellicola dura un'ora e un quarto, così che l'ultimo quarto d'ora cade fuori dal periodo garantito dall'autore.

A fare da cornice a questo rompicapo, c'è una performance di Oja Kodar che ha l'evidente scopo di distrarre lo spettatore lasciandolo ancor più confuso. Miss Kodar si esibisce all'inizio del film in una passeggiata per le vie di Roma che mi sembra essere stata di ispirazione a quel filmato virale che è stato recentemente di gran successo, dove si vede una giovin donna camminare per New York e venir tampinata da un numero incredibile di uomini. Anche nell'originale wellesiano la telecamera è nascosta, la differenza è che la Kodar è vestita espressamente per far girare la testa. E ci riesce molto bene.

2022: i sopravvissuti

Molto noto in patria, il titolo originale è Soylent green, meno da noi. E' basato sul romanzo Largo! Largo! (Make room! Make room!) di Harry Harrison, autore fantascientifico normalmente più interessato ad una impostazione più fumettistica (dopotutto è stato anche tra gli sceneggiatori delle strisce di Flash Gordon) e giocosa del genere, colto qui in uno dei più rari casi di visione di un futuro deprimente e apocalittico.

Non che si possano attribuire ad Harrison particolari responsabilità all'inconsequenzialità della sceneggiatura (scritta da Stanley R. Greenberg, nel suo curriculum c'è molta televisione e, a parte questo titolo, c'è poco altro, e persino più pasticciato, relativo al grande schermo) visto che i diritti del romanzo gli sono stati comprati dalla MGM facendogli firmare una clausola capestro che, al fine di non riconoscergli nessuna percentuale sugli incassi, lo ha costretto a non impicciarsi nella realizzazione della pellicola.

Le molte lagnanze di Harrison sul risultato della versione cinematografica (vedasi il suo contributo al libro Omni's screen flights) c'è anche la scelta del titolo originale - di quello italiano fortunatamente non dice niente. Fra l'altro riporta anche la reazione del protagonista (Charlton Heston) quando l'autore gli consegnò una copia del libro originale sul set. L'attore si rivolse al regista (Richard Fleischer) dicendogli qualcosa come "Hey, Dick, perché non usi questo titolo invece di quel merdoso Soylent green?"

C'è da dire che il romanzo, così com'è, non è che si presti facilmente ad una versione su schermo, essendo pensato per avere in primo piano una collezione di eventi tutto sommato poco significativi, mentre quello che interessa davvero dire all'autore viene fatto filtrare sullo sfondo, creando un mondo sovrappopolato all'inverosimile (da cui il titolo) e piagato da una profonda crisi socio-economica.

Non è quindi tanto contestabile la scelta della produzione e dello sceneggiatore di identificare un personaggio principale e farlo diventare il centro dell'azione quanto il massacro della coerenza del racconto, che finisce per diventare un curioso crossover tra generi quali il poliziesco, il catastrofico, il sexploitation, il cospirazionista.

Una cinquantina d'anni nel futuro di quando il film è stato girato, l'umanità è messa molto male. Noi vediamo solo New York ma ci dobbiamo aspettare che tutto il mondo sia nella stessa situazione. Estrema sovrappopolazione e miseria, disoccupazione a tassi altissimi, lo sviluppo sembra essersi fermato agli anni settanta, e quasi tutte le risorse sembrano esaurite, cibo compreso. Il detective Thorn (Heston) si barcamena col suo lavoro, abusando allegramente del suo potere per sbarcare il lunario, in compagnia del suo collega Sol Roth (Edward G. Robinson) che si occupa delle ricerche. Si trova ad indagare sull'omicidio di un riccone (Joseph Cotten) che presenta molti aspetti sospetti, e per questo entra in contatto con la guardia del corpo del morto e, soprattutto, la sua concubina. Il suo capo (Brock Peters) prima gli fa pressioni per risolvere il caso poi (in seguito a pressioni dall'alto) gli dice di chiudere il fascicolo senza fare tante storie. Naturalmente lui si rifiuta e continua il suo sporco lavoro, che lo porterà a scoprire che l'umanità è spacciata (ma, tardo com'è, non lo capisce).

Le parti d'azione sono quasi assopenti, anche a causa alla recitazione di Heston che, come spesso accade, non è che sia particolarmente espressiva. Molto meglio le parti che dovrebbero fare da alleggerimento, e che invece diventano le più coinvolgenti, grazie a Robinson, che era al suo ultimo film, quasi ottantenne, la salute minata da un tumore che se lo sarebbe portato via pochi giorni dopo, ma che era ancora un attore capace di dare molto.

Il lato exploitation del film, oltre alla presenza di leggiadre fanciulle poco vestite (per quanto un film di questo genere potesse permettere), è sottolineato dall'uso di un vocabolario decisamente offensivo. Le concubine sono chiamate "mobilio", Roth viene chiamato "libro", in quanto la sua funzione è quella di leggere documenti per aiutare l'indagine. Uno svilimento delle persone che sono chiamate, e trattate, come oggetti.

Paper moon - Luna di carta

Lo si può vedere come un tipico buddy movie. Siamo negli anni trenta nel mid-west americano, Moses (Ryan O'Neal) è un imbroglioncello che campa primariamente vendendo bibbie a prezzi assurdi a fresche vedove. Si trova costretto ad accompagnarsi a Addie (Tatum O'Neal) che inizialmente sembra solo un peso, ma poi diventa parte fondamentale della combriccola.

Però è anche un film sulla paternità, visto che Moses è forse padre di Addie - dubbio che viene rinfancato dal fatto che nella realtà Ryan è effettivamente il padre di Tatum, o comunque su una relazione di quel tipo.

È anche un film sulla grande depressione americana (vedi Furore), ma è un tema che viene affrontato lateralmente, più lasciando intendere che parlandone direttamente.

Quel che succede è che Moses passa al funerale di una sua "amica", e gli viene scodellato la recente orfanella, alla anagrafe di nove anni, ma con un vissuto tale da renderla usa alle cose della vita. Al punto che, usata da Moses come pretesto per un ricatto, riesce a ribaltare la posizione a suo vantaggio, costringendo Moses a scarrozzarsela in giro per il Paese.

Eccellente l'interpretazione della giovane O'Neal, che otterrà l'oscar come co-protagonista (anche se, a ben vedere, il suo ruolo sarebbe da protagonista) e pure il David come migliore attrice straniera.

Caso vuole che La stangata, con Paul Newman e Robert Redford in una situazione simile a quella dei due O'Neal, sia dello stesso anno.

Amarcord

Trasognata e trasfigurata carrellata di memorie di infanzia, a cui la nebbia del tempo passato dà una patina magica indimenticabile, grazie anche al tocco di Nino Rota.

Mitica collaborazione tra Tonino Guerra e Federico Fellini che mescola elementi poetici a greve materialità, creando un impasto che ricorda molto la vita, come raramente si trova qualcuno capace di rendere per immagini.

Si tratta in teoria di una serie di quadretti staccati tra loro, che seguono un anno di vita riminese negli anni trenta. In pratica la memoria gioca qualche scherzo ai narratori, che confondono le date, in modo che l'edizione della Mille Miglia rappresentata non corrisponde all'anno di uscita dei film che i ragazzi vedono al cinema locale, e nemmeno con la grande nevicata, per non parlare poi del passaggio del Rex. È dunque da leggere non come un documento storico, ma come la svagata rievocazione di un personaggio non ben identificato (si direbbe "Titta", il ragazzino di cui finiamo per conoscere tutta la famiglia, un po' alter-ego di Fellini, un po' ricordo di un suo amico, un po' personaggio di fantasia), che molti anni dopo ripensa, o magari racconta, la sua infanzia, mescolando fatti reali, immaginari, possibile e improbabili, in una modalità che potrebbe far pensare anche a sedute psicoanalitiche.

La geniale combinazione tra cultura alta e bassa trova riscontro nel cast artistico impiegato. Pupella Maggio, grande attrice teatrale napoletana che non disdegnava partecipazioni cinematografiche dimenticabili, è la madre di Titta (doppiata da una riconoscibilissima Ave Ninchi). Per la parte di Gradisca era prevista niente meno che Edwige Fenech (dell'anno precedente è il suo "Quel gran pezzo della Ubalda tutta nuda e tutta calda", tanto per non far titoli), tagliata all'ultimo momento a vantaggio di Magali Noël, per un problema di stazza. La Fenech avrebbe dovuto mettere su qualche chilo di più per entrare in parte, ma proprio non ci riusciva. Ciccio Ingrassia (l'anno successivo sarebbe stato il barone di Vistacorta di Farfallon) è il memorabile zio matto di Titta, l'altro zio (Patacca) è Nando Orfei. Diverso il caso di Naso, uno degli amici di Titta, che è Alvaro Vitali, nato con Fellini (figurante nel suo Satyricon), e che abbraccerà la nota carriera trash più avanti.

Il lungo addio

La colonna sonora consiste quasi di un solo brano con lo stesso titolo del film, The long goodbye, scritta da John Williams e Johnny Mercer (chi sia Williams credo la sappiano anche i sassi, a qualcuno potrebbe sfuggire Mercer ma dovrebbero bastare un titolo, Moon river, per chiarire la faccenda) e riarrangiata in una mezza dozzina di modi diversi. Spunta nei momenti più assurdi, accendi un autoradio e te la becchi, entri in un bar e un pianista la strimpella cercando di impararla, vai a trovare un gangster e lo becchi che la sta canticchiando, vai in Messico, passa un funerale e la banda accompagna la salma su quelle dolenti note. Sempre se ti chiami Philiph Marlowe, tutto questo.

A ben vedere, oltre a Mercer c'è un altro punto di contatto con Colazione da Tiffany, il gatto. Già, perché qui Marlowe, contrariamente alla iconografia ufficiale ha un gatto. E che gatto. Sveglia il suo procacciatore di cibo (chiamarlo padrone mi pare decisamente fuori luogo) alle tre del mattino, rifiuta di mangiare la strana miscela che gli viene proposta, costringe Marlowe ad uscire per comprargli cibo per gatti propriamente detto ma, nonostante i sotterfugi dell'astuto investigatore, subdora che gli si vuole gabellare una marca non corretta di scatoletta e dunque abbandona sdegnosamente l'appartamento.

E si potrebbe anche azzardare un parallelo tra Holly Golightly e questo Marlowe (Elliott Gould). Entrambi inseriti in un ambiente che pullula di personaggi a dir poco bizzarri, entrambi svagati, ma con una loro morale in un mondo in cui tutti sono disposti a calpestare tutto e tutti per ottenere il proprio scopo.

Un Marlowe così non s'era mai visto, è come se fosse stato trasportato di peso dagli anni cinquanta del soggetto originale (un romanzo di Raymond Chandler, naturalmente) negli anni 70 del film, e questo salto temporale lo avesse come ingentilito, ma lasciandogli la sua essenza originale. Unico rimasto a fumare come nei noir del suo tempo, quasi in tutte le scene si accende una sigaretta, spesso sfregando la sigaretta su superfici incongrue. Merito di Robert Altman, che ha modificato in più parti la sceneggiatura (Leigh Brackett) per rendere il suo Marlowe spiazzante.

Lavoro che ha coinvolto anche i personaggi al contorno, ad esempio abbiamo un boss della mala (Mark Rydell, più noto come regista), che per minacciare Marlowe spacca la faccia alla sua amante - se faccio così a lei, che amo teneramente, figurati cosa potrei fare a te, che manco mi stai simpatico, è il suo ragionamento.

Come sta nei canoni del genere, la storia è assurdamente complicata e piena di lati oscuri, ma non è questo il punto. Un omicidio, o forse più, soldi che viaggiano tra gli USA e il Messico, o forse fanno solo poche miglia, mariti e mogli infedeli, ma forse anche no.

A Venezia... un dicembre rosso shocking

Il terribile titolo italiano (Don't look now l'originale, che ripropone il titolo del racconto di Daphne Du Maurier da cui è tratto e che segue abbastanza fedelmente) ha comunque un suo perché. A parte una breve introduzione inglese, l'azione si svolge tutta in una Venezia invernale, avvolta dalla nebbia e scolorita, con l'eccezione di qualche tocco di rosso che focalizza l'azione.

Oltre a Venezia, i protagonisti sono Donald Sutherland e Julie Christie - bravi - e la regia è di Nicolas Roeg - media, con alcune intuizioni davvero sorprendenti. E' la prima colonna sonora realizzata da Pino Donaggio, che fa un buon lavoro.

La storia è un tipico racconto gotico inglese. Coppia perde figlia, lei va in depressione, che supera quando una sensitiva (cieca) le dice di aver "visto" la piccola e che sta bene. Lui non apprezza, in quanto ritiene che siano tutte fole solo che, colmo dell'ironia, si scopre che anche lui ha dei poteri da veggente. Non riesce a sfruttarli e mal gliene incoglie. A mio giudizio l'impalacatura della Du Maurier regge con una certa difficoltà, anche a voler accettare il presupposto parapsicologico, e questo indebolisce la trama. Facendo un paragone con una scena, il film rischia di cadere rovinosamente, e si salva solo con il contributo delle maestranze.

Tra i punti forti c'è certamente la scena di sesso tra i protagonisti, diventata mitica sia per quanto fosse esplicita sia per lo spiazzamento temporale indotto inframmezzando l'azione con attimi provenienti dalla scena successiva in cui i protagonisti si preparano per uscire.

Già in apertura abbiamo assistito a un montaggio alternato tra la scena in cui i due protagonisti erano placidamente in casa e quella in cui i figli giocavano all'esterno. Qui lo spezzamento dell'azione serve a far crescere la tensione - e ci riesce benissimo. Nella scena di sesso, invece, crea uno strano effetto straniante, quasi che il tempo non fluisca più in modo continuo. Più classico l'uso del montaggio alternato nel finale, ma anche lì molto efficace.