Memento

Basato su di un interessante racconto di Jonathan Nolan, che però viene rivoluzionato dalla sceneggiatura e dalla regia del fratello maggiore Christopher, trasformandolo in un film geniale.

La storia è quella di un povero disgraziato (Guy Pearce) che in un passato relativamente recente ha perso la memoria a breve termine, lasciando come se ogni cinque minuti facesse un reset, dimenticandosi tutto quello che è successo fino ad un attimo prima. Una situazione terribile, accentuata dal fatto che il danno è stato causato da una rapina violenta che ha causato anche la morte (o almeno così lui ricorda) della amata moglie. Quello che gli permette di andare avanti è la voglia di vendicarsi di chi gli ha rovinato la vita, cosa che sembra impossibile.

Ci sono però due persone (Carrie-Anne Moss e Joe Pantoliano) che forse lo aiutano, o forse lo manovrano. Come può fare quel tapino ad esserne sicuro, dato l'orizzonte temporale minimo in cui si trova ad operare.

La genialità del film sta nel montaggio. Per farci avere un'idea di come può sentirsi il protagonista, le scene sono mescolate cronologicamente, creandoci lo spiazzamento continuo che deve sperimentare chi abbia questo disturbo. Una metà delle scene, quelle a colori, sono montate al contrario, da quella finale (mostrata al contrario, fra l'altro) a risalire fino a metà della storia; quelle in bianco e nero seguono invece lo sviluppo canonico, ma essendo mescolare alle altre rendono ancor più ardua la comprensione dei fatti.

Data la struttura narrativa, sappiamo subito come va a finire. Quello che non sappiamo è perché vada a finire così. Il protagonista ha preso un granchio? O ha preso la decisione giusta? Ed è stato lui a decidere cosa fare, o si è fatto ingannare dagli altri? Le risposte a fine pellicola.

Da notare che sappiamo davvero poco sul come sono andati i fatti. Le nostre fonti sono la memoria fallata del protagonista e quello che dice Teddy (Pantoliano) che scopriamo subito essere inaffidabile. Tante menzogne, poche certezze, nessun vero "buono" o "cattivo". Un film il cui scopo è spiazzare lo spettatore, e direi che ci riesce egregiamente.

Questa dovrebbe essere la mia seconda visione, e direi che è una buona idea lasciare passare molti anni tra visioni successive, appunto perché, contrariamente al solito, si finisce per essere più intrigati dalla confusione del protagonista che dalla comprensione di quello che viene narrato.

The big bang theory - Prima stagione /3

Tempo di tirare le conclusioni. Prima parte fiacca, seconda e terza meglio, anche se al di sotto delle mie attese. Il fatto che l'intera stagione sia stata disegnata sulla relazione tra Leonard (il meno anormale tra i nerd) e Penny (la vicina esterna al loro mondo) non mi è sembrata una gran trovata. Lui vorrebbe mettersi assieme con lei, lei lo considera un tipo bizzarro, non capisce quello che dice e non ci tiene a capirlo. OK, il personaggio di lei è utile per rimarcare lo scollamento nerdico dalla realtà, ma mi pare che si sottolinei il punto con fin troppo vigore.

13 - The bat jar conjecture. La congettura della bat-biscottiera, che sarebbe poi il regalo che Leonard fa a Sheldon per indorargli la pillola di essere stato espulso dalla squadra che compete ad un quiz nerdico della facoltà di fisica. Sheldon reagisce fondando un'altra squadra dove solo lui ha il privilegio di rispondere. Nessuno sa rispondere alla domanda finale, un elemento della squadra di Sheldon dà la risposta esatta (fa il bidello in USA, ma è un immigrato russo, ed era un fisico a Leningrado-Sanpietroburgo), ma il suo capo non la accetta, preferendo perdere.
14 - The Nerdvana Annihilation. La macchina del tempo, titolo italiano ben fiacco rispetto ad una inquietante annichiliazione del nerd-nirvana. Leonard compra (per errore) la magnifica macchina del tempo usata nel film originale. Penny gli dà del bambinone, e allora lui decide di disfarsi della sua collezione di inutilità nerd. Ma Sheldon fa notare che anche Penny ha un certo infantilismo, oltre ad un vorticoso giro di uomini. Distruzione del Nerdvana rimandata a data da destinarsi, l'ingombrante macchina del tempo però sparisce di scena lo stesso.
15 - The Pork Chop Indeterminacy. Il fattore sorella gemella, non paragonabile all'originale indeterminazione della cotoletta di maiale, ma ben rappresentativo di quello che accade, la sorella gemella di Sheldon passa a trovare il fratello. Gran pezzo di ragazzona che fa girare la testa a tutta la comitiva. Rajesh arriva al punto di sottoporsi ad una terapia sperimentale per riuscire a parlarci.
16 - The Peanut Reaction. La reazione alle arachidi. Prima festa di compleanno per Leonard, organizzata da Penny. Howard, per distrarlo mentre la organizzano, finge di aver mangiato noccioline americane, a cui è allergico. Poi le mangia davvero, per creare un ulteriore diversivo. Va a finire che i due si perdono la festa.
17 - The Tangerine Factor. Il fattore mandarino, che curiosamente rende meglio in italiano, creando una ambiguità tra il frutto e la lingua cinese. Sheldon decide di imparare il cinese mandarino per poter discutere di cucina con i cinesi del ristorante e risolvere così le sue lagnanze sul pollo al mandarino. Nel contempo Penny rompe con il suo ennesimo uomo, nonostante che Leonard involontariamente fosse quasi riuscito a farle cambiare idea. Dunque i due provano a mettersi assieme. Hanno dei dubbi sul tentativo e chiedono separatamente consiglio a Sheldon, che usa come metafora il paradosso del gatto di Schrödinger - in maniera un po' forzosa, un vero nerd avrebbe eccepito - per invitarli comunque a provare.

Il mistero del cadavere scomparso

Dead men don't wear plaid, i morti non vestono in tweed, è il titolo originale, una frase che Marlowe ripeteva spesso al protagonista (Steve Martin, anche alla sceneggiatura), un investigatore privato che si può permettere di averlo come aiutante. Cosa diamine voglia mai dire, è il mistero principale del film.

Si tratta di una affettuosa presa in giro dei film hard boiled anni 40/50, girato come se fosse un B-movie del periodo. Regista, co-sceneggiatore, e nel ruolo del cattivo c'è Carl Rainer (papà di Rob). La dark lady che nella sequenza iniziale bussa alla porta a vetri dell'investigatore è Rachel Ward (subito prima degli Uccelli di rovo che segneranno irrimediabilmente la sua carriera). Ma quello che è letteralmente incredibile è il cast dei comprimari: Humphrey Bogart, Cary Grant, Ingrid Bergman, Veronica Lake, Burt Lancaster, Vincent Price, ... roba da perderci la testa.

Già, perché, con una dozzina di anni di anticipo su Forrest Gump, qui si fa ampio uso di spezzoni di film d'epoca, inserendoli nella bizzarra trama che camaleonticamente prende elementi dalle citazioni e li assorbe nella sua trama.

La storia è vicina alle tipiche vicende di quel periodo. L'investigatore, la bella, un'amore (forse) impossibile, un mistero, un complotto (in questo caso sono addirittura dei nazisti che cercano di rovesciare l'esito della guerra anni dopo la sua fine), e anche un viaggio in Sudamerica. Il tutto però rivisto con toni da commedia paradossale.

Risultato divertente, ma meglio se si hanno presente gli originali.

Melancholia

Di queste cose ne capisco poco o niente, come si capirà dalle prossime parole, ma credo che un depresso, di solito, si noti poco. Al limite si nota la sua assenza. Si vede che Lars von Trier ha una versione megalomane del problema. Va bene i pensieri suicidi, va bene la perdita di senso, ma arrivare a far distruggere l'intero pianeta, dicendosi certo che solo qui c'è vita in tutto l'universo, ma che comunque non è poi una gran perdita, mi sembra un filino eccessivo.

Consiglierei allo spettatore di arrivare allegro alla visione di questo film, magari potrebbe fare un double bill con Le amiche della sposa. Sconsigliato invece affiancare il precedente Antichrist, se si vuole arrivare vivi alla fine della serata, anche se fra i due ci sono simmetrie e somiglianze che ne renderebbero interessante la visione ravvicinata.

Bellissima la sequenza introduttiva iniziale, una sorta di rapido riepilogo di tutto quello che segue, tra l'incubo e il tableau vivant, che crea un disturbante effetto déjà vu (spero il lettore apprezzi la cura nel piazzare tutti gli accenti al posto giusto) in uno sviluppo che è già abbastanza disturbante di suo. Idem per la colonna sonora, che reitera ad libitum l'esecuzione dell'ouverture del Tristano e Isotta di Wagner - opera perfettamente in linea con le tendenze depressive del film.

Al centro della vicenda ci sono due sorelle, nettamente contrapposte. Kirsten Dunst bella e depressa cronica, e Charlotte Gainsbourg bruttina (con rispetto parlando) ma estremamente motivata. Nella prima parte vediamo la serata seguente al matrimonio della Dunst con lo scialbo Alexander Skarsgård, organizzata dalla sorella, sposata a Kiefer Sutherland, nel loro maniero-albergo-ristorante nel nulla campagnolo. Tutti le dicono di essere felice, lei fa la felice, ma evidentemente non lo è, e fa una fatica immonda per cercare di sembrarlo. Alla fine decide di mollare la finzione, manda il matrimonio (e la sua carriera) a catafascio e tanti saluti.

Se nella prima parte è la Gainsbourg a fare l'antipatichella "organizzo tutto io", nella seconda parte, quando la catastrofe diventa sempre più vicina, è la Dunst a prendere quel ruolo, con un ghignetto "l'avevo detto io". Solo nel finale le due sorelle si riconciliano, per far sì che la fine sembri al figlio della bruttina solo un gioco.

Cast notevole. Oltre ai suddetti si fanno notare Charlotte Rampling, Stellan Skarsgård (chissà se i due Skarsgård hanno fatto uno sconto famiglia alla produzione) e John Hurt. Regia impegnativa, che ha cercato di rendere il disinteresse della protagonista per tutto quanto esiste al mondo con fin troppa esuberanza. L'uso della camera a mano, funzionale fin che si vuole, a me è risultato a tratti esagerato. Magari se ci si fermava prima si rendeva un servigio minore all'illustrazione nella problematica, ma si otteneva un risultato meno stremante per lo spettatore.

Le amiche della sposa

È ben noto che in certe cose gli americani tendono alla pacchianeria, ad esempio nei matrimoni. Quello per una coppia medio(alto) borghese è un matrimonio normale, per il gusto italiano risulta eccessivo al punto da sembrare ridicolo. Figuriamoci cosa succede in un film che ha tra i suoi bersagli anche il cattivo gusto da "bel matrimonio".

L'azione ruota tutta attorno al matrimonio dell'amica della protagonista (Kristen Wiig, che ha anche co-scritto la storia, assieme a Annie Mumolo, che a sua volta ha una particina - la vediamo impanicarsi nel viaggio in aereo), e alla sorta di legame che nasce tra le damigella della sposa (da cui il titolo originale: Bridesmaids). Gente che non si conosce che si trova a gestire un evento molto complicato, con rituali che da noi hanno poco attecchito e solo in forma molto leggera. Scenario eccellente per un buddy movie al femminile, in cui emergono diversi caratteri e situazioni, e qui soprattutto la competizione tra l'amica d'infanzia della sposa e la nuova amica (Rose Byrne, nel difficile ruolo dell'antipatica).

Il tema principale direi che è la paura del cambiamento. Il personaggio della Wiig ne ha una paura folle, e la possiamo capire. Aveva un bella pasticceria che era la sua passione, spazzata via dalla crisi; aveva un uomo che amava, che però evidentemente era lì più per la pasticceria che per lei. E questo è solo il setup iniziale. Sua madre le dice che non è male cadere, perché quando si cade dopo ci si può solo rialzare, ma lei scopre che non sempre è vero. A volte si può cadere ancora più in basso, e la seguiamo in altri cambiamenti, sempre in peggio.

Così quando per puro caso si imbatte in una brava persona (Chris O'Dowd, particina, ma simpatica e ben recitata) lei rizza gli aculei, lo ferisce e scappa. Ma si tratta di una commedia, e tutto finirà per il meglio.

Altre sottotrame e personaggi che narrano la loro vicenda bene, anche se spesso solo in poche battute, rendono lo svolgimento piacevolmente complesso. Nulla da dire, né nel bene né nel male, sulla regia di Paul Feig, che lascia correre lo sviluppo verso la sua naturale conclusione.

C'è una nota dolente, però. Non ho gradito i momenti di comicità grossolana che piuttosto incongruamente emergono come un fiume carsico e ci consegnano momenti disgustosi e infantili (cacca e vomito). Li avrei tagliati volentieri, e secondo me l'equilibrio del film ne avrebbe giovato.

Babbo Bastardo

Messo in lista dopo averne letto una bollarecensione natalizia, è finalmente arrivato il turno di Bad Santa, accolto del resto da nevicate e temperature polari.

Avevo un ottimo ricordo di Ghost World, un piccolo film del 2001 con un bel cast (Steve Buscemi, Thora Birch, Scarlett Johansson) ma non mi ricordavo chi fosse il regista. D'altronde Terry Zwigoff non è che sia un personaggio molto socievole e, con tre film in un decennio, nemmeno molto attivo. Fatto è che nel vedere Babbo Bastardo ho riconosciuto la sua mano. Tragedie di personaggi secondari mascherate da commedie.

In questo caso il protagonista (Billy Bob Thornton) è un oltraggioso disadattato che fuma, bestemmia, beve, fa sesso casuale con praticamente ogni donna che gli dia retta, prediligendo fra l'altro la sodomia. Per mestiere forza casseforti, anche se questi lavori li fa solo di Natale, reclutato da un nanetto villanzone (Tony Cox) che ha pensato ad un piano geniale. Per le festa lavorano in coppia come Babbo Natale e il suo fidato elfo in un qualche grande centro commerciale, e il giorno di Natale fanno il colpo.

Basta pensare allo shock che avrà avuto qualche distratta famiglia americana che pensava di assistere alla solita commediola natalizia per trovare l'idea divertente. Me li immagino che fanno il tifo per il direttore del centro commerciale (John Ritter a fine carriera, spassoso) che cerca di essere politically correct nel parlare di e con quei due loschi individui che ha distrattamente assunto per un lavoro così delicato.

Il Babbo è evidentemente alla fine di una parabola autodistruttiva, e visto che l'alcool ci mette troppo a fare il suo mestiere, cercherà pure altre vie. Nemmeno l'incontro con un bel pezzo di fanciulla (Lauren Graham) che resta incomprensibilmente affascinata da quel relitto umano (pare che la scintilla sia uno strano feticismo natalizio) riesce a farlo rinsavire. Ci riuscirà invece un bambino. "Uh, che palle", dirà il lettore che non ha ancora visto il film ed è incappato in questo post, "il solito bambinetto strappacuore che redime il cattivaccio". No, non proprio. Un imperturbabile bimbetto grasso mezzo citrullo che vive con una nonna completamente fusa, dopo che i suoi genitori sono misteriosamente (per lui, che non è molto sveglio) spariti.

Il bambino è un mezzo demente, però, diamine, è un bambino. Avrebbe diritto anche lui al suo briciolo di felicità. Non è che vorrebbe molto, un peluche di elefante rosa, spiega a Babbo Natale, gli pare di averne quasi diritto, visto che per due natali non ha ricevuto niente. Ma il Babbo è veramente Bastardo e se ne frega. Gli mangia persino i cioccolatini del calendario dell'avvento. I bulli lo ridicolizzano? Babbo se ne frega, anzi, gli dice è colpa sua. Gli fanno un occhio nero? Ah no, questo è troppo anche per lui.

Segue una sorta di lieto fine, che sarebbe più opportuno chiamare non-catastrofe. Le cose in qualche modo si aggiustano e, chissà, forse proseguiranno in una direzione migliore.

Curiosa anche la colonna sonora, che mescola una sfilza di canzoni in puro stile natalizio (Let it snow, let it snow, let it snow cantata da Dean Martin, ad esempio) con Chopin, Tchaikovsky (vabbè, diamoli per natalizi), opera italiana (il barbiere di Rossini, Verdi con il coro degli zingari dal Trovatore, ma cantata in inglese) e francese (Carmen di Bizet). Ah, c'è pure spazio per la Jazz suite di Shostakovich, più nota per l'uso fattone da Kubrick in Eyes wide shut.

Milk

Film sconsigliabile allo spettatore omofobico, anche perché mostra come, a volte, chi ha questo atteggiamento nasconde in realtà una omosessualità non dichiarata. Cosa non piacevole da sentirsi dire.

Chi non abbia di questi problemi può godersi l'ottima prova attoriale di Sean Penn, protagonista premiato con un meritato Oscar, la regia di Gus Van Sant, la non semplice interpretazione di Josh Brolin di un duplice omicida dal carattere confuso, e in genere da un buon cast a supporto.

La storia non mi ha preso più di tanto, ma direi che la sceneggiatura (scritta da Dustin Lance Black, anche lui Oscar) è riuscita ad evitare il trappolone della biografia, raccontando la vicenda con un taglio molto personale.

Ci sono alcuni aspetti che sono mera documentazione della fine anni settanta in USA, molto meno liberi di quanto normalmente si immagini. Sorprendente, ad esempio, che un tale possa aver ucciso il sindaco e un consigliere di San Francisco a pistolettate e se la sia cavata con pochi anni di galera.

Ma il punto narrativo fatto dal film è interessante. Milk viene praticamente costretto a fare politica, spinto dalla necessità, per cercare di garantire i propri diritti fondamentali. Rinuncia quindi paradossalmente alla sua vita privata, in quanto unico modo per avere una speranza di averne una accettabile.

Altro elemento su cui pensare: finché hanno pensato ai loro problemi di minoranza in maniera esclusiva, i gay americani non sono riusciti a contar nulla. Milk è riuscito ad ottenere risultati rendendo comprensibile la loro posizione a tutti. Ognuno è una minoranza, e ognuno ha diritto di essere trattato da pari. Se si riesce a far capire che essere gay (o latino, cinese, ...) è solo un accidente che non cambia poi di molto la natura umana, cessa quasi automaticamente ogni discriminazione.

The big bang theory - Prima stagione /2

Il blocco centrale della stagione mi è parso meglio della prima mezza dozzina di episodi. Credo che sia dovuto ad un rodaggio del cast, e anche dello spettatore. Loro hanno forse migliorato l'amalgama, io forse mi sono adattato al loro stile. Fatto sta che finalmente al settimo episodio mi è partita una risata, e gli episodi successivi hanno proseguito nel trend con l'eccezione del dodicesimo, che mi è invece sembrato fiacco.

7 - The Dumpling Paradox. Il paradosso del raviolo a vapore, che sarebbe poi il motivo pratico che getta nel panico i tre nerd superstiti alla momentanea uscita di Howard dal gruppo, per motivi prettamente sessuali, naturalmente. Senza di lui i rodati meccanismi di divisione delle portate al ristorante cinese saltano.

8 - The Grasshopper Experiment. L'esperimento del cocktail, dove la bevanda è un grasshopper (cavalletta, che rende il titolo originale più buffo), un melange di creme (menta, cacao, latte) a cui si può dare un twist sostituendo la crema di latte con la vodka, flying grasshopper (cavalletta in volo). Qui galeotta è la cavalletta, perché il solitamente analcolico Rajesh scopre che gli basta bere un po' di alcol per rompere il suo silenzio con il gentil sesso. Proprio al momento giusto, perché i suoi genitori gli avevano organizzato una serata con una ragazza indiana, sperando in un matrimonio.

9 - The Cooper-Hofstadter Polarization. La polarizzazione di Cooper e Hofstadter, Leonard e Sheldon ai ferri corti.

10 - The Loobenfeld Decay. La decadenza di Loobenfeld, in senso scientifico decay starebbe per decadimento, ma il doppio senso del titolo originale in italiano si perde. Loobenfeld è un collega del gruppo che si presta, su richiesta di Sheldon, a recitare la parte di un suo cugino tossico, per una complicata vicenda nata da una innocente bugia di Leonard.

11 - The Pancake Batter Anomaly. L'anomalia della pastella per le frittelle, anomalia causata da un uso errato di contenitori da parte di Leonard. Sheldon si piglia una leggera influenza e, sapendo quanto sia insopportabile in tali circostanze, Leonard e gli altri cercano di evitarlo.

12 - The Jerusalem Duality. La città replicata, o meglio il dualismo di Gerusalemme. Evidentemente la distribuzione italiana ha pensato che citare esplicitamente il nome della città fosse troppo pericoloso. Sheldon decide di abbandonare la fisica per mirare al Nobel per la pace pensando ad un assurdo piano che coinvolge la creazione di una seconda Gerusalemme in Messico. Motivo della crisi, un giovanissimo coreano più in gamba di lui.