La lingua del santo

Sant'Antonio fa il miracolo, e un depresso ritrova la fiducia in sé stesso e, metaforicamente parlando, la lingua.

Ogni tanto mi chiedo come mai Carlo Mazzacurati sia sottovalutato, poi mi rendo conto che in realtà non è vero, è proprio ignorato. Il pubblico a vedere i suoi film non ci va. Tanto per fare un paragone scoraggiante, al cinema ha incassato la metà di Faccia di Picasso del buon Ceccherini.

Eppure si tratta di un buon film, con qualche difettuccio minore di sceneggiatura, ma ben scritto, diretto, interpretato, filmato (belli i luoghi che fanno da contorno, azione centrata in Padova, ma spazia dai monti alla laguna), interpretato da un buon cast dominato da un ottimo Fabrizio Bentivoglio con un bravo Antonio Albanese che gli fa da spalla, sottolineato da una piacevole colonna sonora.

Seguiamo la vicenda di Willy (Bentivoglio), un noto "mona" locale conosciuto con il soprannome di Alain Delon. Non c'entra molto qui, ma mi riesce difficile ignorare un altro noto pseudo Alain Delon, quello che anni dopo verrà narrato da De Sfroos (L'Alain Delon de Lenn). Decisamente diversi i due personaggi, ma caratterizzati dal fatto di essere figure deboli (nonostante quel che pensi di sé quello di Lenno), che rimandano ad altri, e non hanno una propria connotazione.

Dicevo che il nostro Alain Delon è in piena decadenza. Mollato dalla bella moglie (Isabella Ferrari), che per tutto il film sembra più una lontana visione del passato che una persona in carne ed ossa, ha perso la parlantina che lo caratterizzava (era una rappresentante di commercio) e conseguentemente il lavoro. In realtà lo sentiamo parlare un sacco, ma sono i suoi pensieri, quello che vorrebbe dire, ma non ha più la capacità di tradurre in parole reali. Il mutismo più assoluto lo coglie quando vorrebbe parlare con la ex, con cui non riesce a spiaccicare parola, nemmeno al telefono.

Decide quindi di darsi alla delinquenza, e l'azione parte con il suo primo furto. Penetra nottetempo in una scuola elementare per rubare un computer, che però non sa nemmeno bene cosa sia. Per sua fortuna, incontra un altro derelitto, Antonio (Albanese), malmesso quanto lui, ma che almeno sa cosa rubare. I due, in un qualche strano modo, si fanno simpatia, e decidono di fare coppia fissa, compiendo una serie di azioni da rubagalline, di così bassa livello che finiscono per essere ignorati anche dalle forze dell'ordine.

Caso vuole che i due finiscano per fare un furto inaudito, rubano addirittura le reliquie di Sant'Antonio (che tra l'altro sono state realmente rubate dieci anni prima, un caso che non è mai stato chiarito). Antonio sarebbe più pratico, fondere l'oro, piazzare le pietre preziose e via. Ma Willy vede in quello che è successo una via per uscire dallo sprofondo in cui sono finiti, smettere di essere una copia sbiadita di un grande attore francese, ed essere finalmente riconosciuto come individuo.

Riusciranno due perdenti come loro a vincere la partita della loro vita? Contro hanno la polizia, gli zingari (con Toni Bertorelli a capo), che considerano Sant'Antonio il loro patrono, i padovani devoti, rappresentati da un bizzarro imprenditore (Giulio Brogi), oltre che loro stessi, con le loro debolezze e difetti.

E cosa vorrà dire per loro vincere?

Particina per Marco Paolini, che appare in un incubo di Antonio come Sant'Antonio senza lingua.

La notevole colonna sonora è curata da Ivano Fossati, include molti brani di Riccardo Tesi, un Guantanamera su cui il film inizia e finisce (sottolineando che la storia è in realtà raccontata in flashback, e il presente storico è quello del finale), e altri brani, tra cui un paio di Talvin Singh, che creano un curioso effetto di spiazzamento sulle atmosfere venete che dominano visualmente.

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