Ho l'impressione che svariati tra i film più interessanti di questo periodo vertano principalmente su due temi, cosa qualifichi un essere umano come tale, e cosa sia il tempo. Anche 12 anni schiavo di Steve McQueen narra di come alcuni individui, prevalentemente bianchi di origine europea, abbiano deciso che altri, prevalentemente neri di origine africana, potessero essere considerati subumani, e di come un povero diavolo caduto nel meccanismo sia riuscito a sopravvivere grazie alla speranza, relativizzando i dodici anni del titolo in funzione di quello che aveva prima e avrebbe potuto riottenere dopo.
Però è più interessante il parallelo con The imitation game, visto che entrambi hanno al centro la figura di un professore universitario inglese, entrambi sono figure centrali della scienza del secondo novecento, entrambi avrebbero potuto dare molto di più all'umanità se circostanze al contorno non li avessero colpiti duramente.
Alan Turing, tra l'altro, era interessato a capire cosa definisse l'umanità. Quello che ora è noto come il test di Turing, viene considerato come un criterio per stabilire se una intelligenza artificiale può essere considerata come umana. Ma, come viene evidenziato nel film, può essere usato per mostrare l'assurdità dei pregiudizi nei confronti di chi viene etichettato come "altro". Difficile giustificare il senso di costringere ad una condizione disumana un individuo se è a tutti gli effetti indistinguibile da chi si reputa superiore al punto di permettersi di giudicarlo.
Qui invece si parla di Stephen Hawking (Eddie Redmayne) che ha messo al centro della sua carriera di cosmologo il tentativo di dare una definizione coerente di tempo. Già, perché sembra una banalità, ma prova a spiegare cosa sia, o lettore, e magari ti guadagni un Nobel.
Ed è proprio il tempo al centro del racconto, che viene distorto, piegato e presentato allo spettatore in modo che trenta anni passino in un baleno. Un attimo prima i figli di Stephen e Jane (Felicity Jones) sono dei poppanti, improvvisamente ce li troviamo davanti che sono dei ragazzotti. E allo stesso modo le due ore di pellicola mi sono sembrate brevissime, al punto che mi sono sorpreso, uscendo la cinema, a scoprire che era ormai quasi mezzanotte. Non che succeda niente di particolarmente appassionante o inatteso nella narrazione, è come se un buco nero si sia misteriosamente mangiato il tempo.
In breve abbiamo che Steve è un fisico di belle speranze, sul punto di scrivere una tesi di ricerca destinata a rivoluzionare la scienza del tempo, e ha pure conosciuto una bella ragazza con cui le cose sembrano filare alla meraviglia. Epperò gli diagnosticano una malattia a dir poco terribile che lo lascerà in breve incapace di un qualunque movimento muscolare che non sia automatico. Si stima che dovrebbe portarlo alla morte nel giro di due anni.
Da bravo nerd, Steve vorrebbe rinunciare a tutto quello che percepisce come superfluo e dedicare il poco tempo che gli resta allo studio. Per sua fortuna Jane è cocciuta al punto da costringerlo ad una vita meno deprimente.
La malattia avanza rapidamente, e qui entra in gioco il test di Turing. A vederlo sulla sua carrozzella, costretto all'immobilità, Hawking può ispirare al massimo compassione. Ma grazie al cielo riesce a comunicare, ed è ascoltando i suoi pensieri che ci si rende conto di chi abbiamo realmente di fronte.
Il bello di Hawking è la sua capacità di ammettere i propri errori. Sia in campo scientifico, anche se il film non usa molto tempo in questo ambito, sia in campo umano. Nel finale infatti dirà a Jane che quello che lo riempe di orgoglio non sono tanto i suoi studi quanto i tre figli.
Bella la colonna sonora post minimalista di Jóhann Jóhannsson.
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