The Bourne Ultimatum

La cosa più soprendente del terzo episodio di Bourne è il sottotitolo italiano, Il ritorno dello sciacallo, che sarebbe poi il titolo italiano del terzo e ultimo libro di Ludlum dedicato a Bourne. Il fatto è che lo sciacallo sarebbe il soprannome del pericoloso killer nemico giurato di Bourne che nella versione cinematografica non appare nemmeno. Era presente nella versione televisiva di The Bourne Identity, per chi fosse interessato.

Anche questo episodio, come il precedente The Bourne Supremacy, è diretto da Paul Greengrass che evidentemente deve aver fatto amicizia con Matt Damon, visto che ha poi lo ha diretto anche in Green zone e, se ho capito bene, il fatto che Greengrass si è detto non interessato a Bourne 4 ha portato Damon a chiamarsi fuori pure lui dal progetto.

Non sono sicuro se sono io che ho assunto troppo Bourne in troppo poco tempo, o se è proprio Greengrass che ha deciso di fare di testa sua, ma la visione di Ultimatum mi ha fatto venire la nausea. Troppe scene riprese con la camera a mano e un montaggio frenetico all'eccesso. Per non parlare della sceneggiatura. Movimento ce ne era parecchio anche nei precedenti episodi, ma qui mi pare davvero troppo. Torino, Parigi, Londra, Madrid, Tangeri, New York. Finisce per diventare una girandola, non un film. Bizzarra anche l'idea di fare in modo che tre quarti dell'azione risulti essere una sorta di flash back inserito nel finale dell'episodio precedente.

The Bourne Supremacy

Secondo episodio della serie di Bourne che riprende la vicenda con i due piccioncini del primo episodio, Jason Bourne/Matt Damon e Marie/Franka Potente, intenti a tubare sulla spiaggia di Goa in India. Purtroppo per loro, il mondo è piccolo e a farne le spese è Marie (o, a ben vedere la Potente, che chiude qui la sua partecipazione alla saga). Giustamente imbizzarrito, Bourne torna in Europa in nave, scende a Napoli, e si fa una lunga tirata in auto fino in Germania, ammazza un po' di gente, sventa il tentativo di fargli fare da carpo espiatorio, grazie ad un risolutivo viaggio a Mosca, esponendo quello che risulta essere il vero supercattivo.

Finalino a New York, dove la nuova capa del suo dipartimento gli rivela la sua vera identità.

Risultato paragonabile all'episodio precedente. Il cambio di regia, ora affidata a Paul Greengrass, non mi sembra abbia modificato alcunché nel prodotto finale.

The Bourne Identity

Chi non rimanesse soddisfatto di questa versione cinematografica del romanzo di Robert Ludlum, potrebbe vedere la precedente versione televisiva. A seconda dei gusti finirà o per apprezzare l'intepretazione di Richard Chamberlain o per rivalutare Matt Damon.

Una buona produzione industriale, buon senso del ritmo, buona sceneggiatura, che modifica il testo originale per adattarlo ai tempi moderni e per togliere elementi secondari che avrebbero solo appesantito l'azione. Regia abbastanza anonima (Doug Liman - anche alla produzione, dove ha dato il suo meglio) ma capace di gestire bene il materiale affidatogli.

Ottimo il cast che include, oltre a Damon/Jason Bourne, Franka Potente; Chris Cooper - efficace nei panni cattivo che finisce male (nello stesso anno era in Interstate 60); Clive Owen (appena reduce da Gosford Park) - un pari di Bourne che cerca di bloccarlo; Brian Cox, ottimo caratterista in un ruolo che gli si confà, è il capo-struttura che decide chi vive e chi muore. C'è pure spazio per il nostro Orso Maria Guerrini nei panni del marinaio che ricuce Bourne all'inizio del film.

The Bourne Identity

Miniserie televisiva, in due parti da un'ora e mezza l'una. Molto più fedele al romanzo originale di Robert Ludlum di quanto sia il primo episodio della serie cinematografica. Altri pregi non me ne vengono in mente, se non che qui Zurigo ci viene mostrata meglio.

La regia è di uno specialista del genere, Roger Young, reponsabile anche di molti polpettoni religiosi televisivi (quello su San Paolo, ad esempio).

Colonna sonora molto anni ottanta, nel senso peggiore del termine. La scena iniziale in cui Jason Bourne (interpretato da un improbabile Richard Chamberlain) piomba in acqua mi è sembrato un omaggio alla pubblicità dell'"uomo in ammollo" Franco Cerri - ma questo lo può apprezzare solo chi abbia una certa età:

Il ruolo che sarà di Franka Potente qui è intepretato da Jaclyn Smith (una delle Charlie's Angels nel telefilm originale) che, essendo texana con un accento bello marcato, si spaccia per canadese dal nome francofono ma che non spiccica una parola in francese pur essendo a Parigi.

Particina secondaria per Peter Vaughan, visto di recente in Funeral party, qui arruolato tra i cattivi - anche lui non esattamente in parte.

L'azione si svolge tra la Costa Azzurra, Zurigo, Parigi e New York, in un appartamento dell'Upper East Side dove Jason Bourne potrà ritrovare la sua identità - e avere uno sconto fatale con il suo mortale nemico.

La duchessa

La duchessa del titolo è tale Georgiana Cavendish, nota come duchessa di Devon per aver sposato il duca omonimo nel tardo settecento e aver avuto una vita decisamente turbolenta. La sceneggiatura punta praticamente tutto sull'aspetto romantico della vicenda e minimizza il resto della sua storia. Francamente, io avrei fatto il contrario.

Regia piacevole (Saul Dibb, al suo primo grosso film - e ha messo lo zampino anche nella sceneggiatura), in linea con lo stile inglese che sfrutta a dovere i bei paesaggi rurali e le fastose residenze di cui è costellata l'Inghilterra. Bene integrata da una gradevole colonna sonora (Rachel Portman).

Protagonista Keira Knightley, di cui non vado pazzo e che mi è piaciuta di più in Orgoglio e pregiudizio o in Atonement. C'è da dire che sta diventando come il prezzemolo, la vedremo nei prossimi due film di Cronenberg.

Il duca è interpretato a dovere da Ralph Fiennes (il Lord Voldemord della saga di Potter) anche se, purtroppo, al suo personaggio non è stato dato lo spazio che si sarebbe potuto dare.

M'ha fatto piacere vedere Charlotte Rampling, nonostante sia solo una parte secondaria (madre della duchessa).

Delitto per delitto

Noto anche come L'altro uomo, visto su DVD bifaccia del Corriere. Su un lato la versione USA, sull'altra la versione UK, con qualche dettaglio che nella versione più conosciuta è stato tagliato ma senza il finale sdrammatizzante in cui, sul treno, il protagonista è con la sua bella ma vengono tampinati da un prete. Dopo quello che è successo appunto per un incontro fortuito sul treno, i due piccioncini preferiscono lasciare il vagone.

Regia di Alfred Hitchcock che fa buon uso della sceneggiatura di Raymond Chandler, a sua volta basata su un racconto di Patricia Highsmith. Conoscendo il titolo originale - Strangers on a train - si apprezza di più quello scelto da Danny De Vito per il suo scherzoso remake con Billy Crystal: Getta la mamma dal treno.

Un tale con un matrimonio fallito sulle spalle, ma con problemi nell'ottenere il divorzio, incontra in treno un ricco lunatico (ben interpretato da Robert Walker) che gli propone un piano diabolico che non può fallire: crisscross, si scambiano gli omicidi. Infatti lui si vuole liberare del padre, unico in famiglia che non sembra completamente fuori di testa, visto che anche la madre (una eccellente Marion Lorne, più nota come zia Clara nel telefilm Vita da strega) non ha tutte le rotelle a posto. Vaglielo a spiegare a uno svitato che il suo piano è una idiozia.

Alcuni elementi che parrebbero sbilanciare il racconto (ad es: un insegnante universitario in periodo sabbatico che si ubriaca al punto di non ricordarsi chi abbia visto o cosa abbia fatto la sera prima; un poliziotto che spara in un lunapark affollato ammazzando il manovratore di una giostra; un addetto che, con gran sprezzo del pericolo, tira una leva che causa la distruzione rovinosa della giostra stessa) gli danno invece un suo equilibrio peculiare, a ricordarci quanto la vita sia piena di assurdità.

Interstate 60

Toni da commedia scanzonata, quasi da teen flick, per una storia di formazione che vira al filosofico stile Monty Python - anche se qui non si scappa dall'happy ending.

Un ragazzetto deve decidere che fare della sua vita: seguire la comoda via che gli segna un padre molto invadente, o le sue ambizioni e interessi, che vanno in una direzione completamente opposta. Alcune bizzarre circostanze e un provvidenziale trauma cranico lo aiutano a scegliere.

Molteplici gli aspetti interessanti di questa pellicola. In primo luogo il soggetto e la regia sono di Bob Gale, sodale di Robert Zemeckis, e si percepisce l'aria di famiglia.

La storia, poi, inizia a Saint Louis, si dipana in una serie di episodi sull'orlo dell'assurdo sull'inesistente strada del titolo, fino a raggiungere un'altrettanto inesistente Danver e quindi tornare alla conclusione in Saint Louis.

Divertente poi la carrellata di attori che ci troviamo sotto gli occhi in ruoli minori. Abbiamo infatti un protagonista, James Marsden (in ragazzetto di cui sopra - più noto credo come Ciclope in X-Man - fra l'altro un fumetto di questa serie appare "causalmente" in una inquadratura) e una serie di svariati personaggi bislacchi. Gary Oldman è un bizzarro ometto che ha la capacità di esaudire un unico desiderio per ogni persona che lo incontri, spesso con risultati catastrofici per il beneficiario, come scopre Michael J.Fox in una apparizione lampo. Christopher Lloyd (proprio il Dr.Emmett Brown di Back to the future) è il cugino di Oldman. Chris Cooper (Breach, Syriana, American Beauty ...) è un tizio che odia la menzogna, pronto a farsi esplodere se viene contrariato. Kurt Russel è un poliziotto piuttosto spregevole e Amy Smart colei che esprime il desiderio di incontrare Marsden.

I giorni del vino e delle rose

Blake Edwards è ricordato prevalentemente per le sue commedie, che del resto sono davvero efficaci, ma si è dedicato anche a temi drammatico-sentimentali con ottimi risultati. Il titolo che viene immediatamente in mente in questo caso è Colazione da Tiffany, con una indimenticabile Audrey Hepburn che strimpella amabilmente fuori sincrono Moon River dalla premiata coppia Henry Mancini - Johnny Mercier.

Ma l'anno successivo esce Days of Wine and Roses, anche qui con una canzone di Mancini-Mercier, non così memorabile ma che fu comunque anch'essa premiata con l'oscar. E le analogie non si fermano qua. Anche qui c'è una storia d'amore che finisce male, legata a temi sociali piuttosto tosti. E anche qui il cast ha protagonisti di tutto rispetto: Jack Lemmon e Lee Remick.

A sorpresa, in una parte piuttosto secondaria, c'è pure Jack Klugman, meglio noto (ahilui) come il dottor Quincy dei telefilm, in uno dei suoi pochi ruoli decenti sul grande schermo assieme a La parola ai giurati. Stranezza aggiuntiva, Klugman è un tipico attore televisivo e questi due film sono basati entrambi su un soggetto nato per la televisione.

La sceneggiatura ha in effetti delle debolezze, dovute anche al mutare dei tempi. In breve la storia è che Lemmon alza parecchio il gomito, praticamente per lavoro, fa il PR, il che a quei tempi negli USA voleva dire praticamente organizzare festicciole con donnine allegre. Vista la cronaca di questi giorni si direbbe che in Italia siamo indietro di mezzo secolo. Conosce la Remick, in quanto collega, si piacciono, si sposano, hanno una figlia. Problema è che diventano entrambi degli ubriaconi, rovinandosi la vita. Lemmon riesce a venirne fuori, lei forse no.

Le parti in cui ci viene fatto vedere lo squallore dell'ubriachezza e che illustrano il funzionamento dei gruppi degli alcolisti anonimi risultano noiosette - ma ai tempi deve essere stato impressionante per il pubblico.

Bizzarro, sempre in prospettiva, vedere come alla riunione degli alcolisti anonimi tutti fumino senza ritegno - la stanza è praticamente avvolta nella nebbia.

Edmond

Tratto da un lavoro teatrale di David Mamet e dallo stesso adattato allo schermo. Diretto da Stuart Gordon, regista non propriamente di primo piano. Piacevole colonna sonora.

La storia è quella di un pacifico ometto (ben interpretato da William Macy) che dà fuori di testa. Esce dal lavoro venerdì, contrariato, una curiosa coincidenza lo spinge a farsi leggere il futuro (con un terribile quanto corretto risultato) nelle carte, torna a casa (Upper West Side, naturalmente) dalla moglie e decide di mollarla. Esce, scambia qualche chiacchiera balorda con Joe Mantegna in un bar, che lo saluta consigliandogli di fare un po' di sesso a pagamento. Da qui le cose precipitano, con svariati incontri nel sottobosco newyorkese (tra cui Denise Richards), finché non incappa in una cameriera (Julia Stiles) che fa una brutta fine. L'ometto girovaga ancora po', finché non viene preso e sbattuto in galera, dove finisce in cella con un omaccione di colore con cui passerà assieme molto, ma molto tempo.

Soprendentemente, a parte alcuni dettagli, sembra che tutto sommato l'ometto sia felice di come sono andate a finire le cose.

Credo che renda di più a teatro che sullo schermo.

Closer

Dramma sentimentale molto britannico e di robusto impianto teatrale, basato su una piece convertita in sceneggiatura dall'autore stesso, Patrick Marber. Buona la regia di Mike Nichols.

Si indaga sui sentimenti dei quattro protagonisti, seguendo le circonvoluzioni delle loro storie personali.

Jude Law, bravo come al solito, interpreta un idiota (come conferma esplicitamente il personaggio stesso) che essendo prima legato ad una splendida Natalie Portman, averla mollata per Julia Roberts, mollata di nuovo la Roberts, tornato con la Portman, fattasela scappare una seconda volta, finisce per essere il principale perdente del film.

Nonostante le apparenze, non è che vada particolarmente bene neanche all'ottimo Clive Owen, dermatologo che aggancia fortunosamente la Roberts, se ne innamora profondamente - anche se non riesce a resistere alle attrazioni esterne - viene scaricato, ha un one night stand con la Portman, non la capisce, forse sarebbero stati un'ottima coppia, in compenso capisce benissimo la Roberts e, giocando con la sua psicologia, riesce a farla tornare con lui. Ma nel finale si intuisce che la Roberts non è che sia così soddisfatta.

La Portman è nei (succinti) panni di una ragazzetta americana piuttosto instabile, piomba a Londra da New York, ha il classico problema dei non inglesi a Londra - attraversa una strada guardando dalla parte sbagliata e viene travolta da un taxi. Colpo di fulmine con Law, che però la scaricherà per la Roberts. Nel finale sarà lei a scaricare lui e tornarsene a NY, cambiata. Scopriamo solo negli ultimi minuti che in tutto il film era stata sincera solo con Owen.

La Roberts m'è sembrata la meno in palla del cast - comunque è sempre una brava attrice, nonché bella donna, e dunque non è che dispiaccia. Americana anche lei, evidentemente, ma stanziale a Londra, divorziata, incontra Law che sta già con la Portman, lui cerca di concludere con lei, ma lei gli dà, giustamente, del dodicenne. Sposa Owen, lo molla, si mette con Law, lo rimolla per tornare con Owen. Ma nel finale la vediamo inquieta.

La prima ora è volata via, poi l'azione si è un po' rallentata, riprendendosi nel finale. Non male la colonna sonora basata fondamentalmente su una canzone di Damien Rice (apre e chiude il film), una serie di estratti da opere liriche (Mozart - Rossini), e un po' di techno per le scene in un club di malaffare (Smack my bitch up dei Prodigy mi è parsa una scelta azzeccata).

California Skate

La curiosità principale di questo film è che ha un notevole numero di titoli. Quello originale è Gleaming the cube ma lo si può vedere anche come A brother's justice o anche Skate or die. Per restare solo alle versioni per il mercato di lingua inglese. In Germania, ad esempio, è noto anche come Tödliches Risiko (rischio mortale) e Rebellen auf Skateboards.

La storia (di Michael Tolkin) potrebbe anche reggere ma, soprattutto a livello di sceneggiatura, richiederebbe una bella riscrittura. La regia è da telefilm (Graeme Clifford - Frances, poi è finito a fare film per la TV, per l'appunto), e l'interpretazione varia tra il mediocre e il terribile. In compenso l'uso dello skateboard è notevole e a tratti memorabile.

Protagonista Christian Slater (era Adso da Melk ne Il nome della rosa) abbastanza credibile nel ruolo di ragazzetto teppistoide dedito allo skating. Più fuori ruolo Steven Bauer (cubano, nonostante il nome d'arte) nei panni di un poliziotto italoamericano. Ruolo secondario per Tony Hawk (in persona e board - leggere Tutto per una ragazza di Nick Hornby per vederlo in azione come personaggio).

I difetti maggiori nella parte mystery; tutto sommato sopra media se lo si considera un teen movie.

The hours

Chissà come mai questa volta la distribuzione italiana ha deciso di mantenere il titolo originale. Un altro mistero riguarda il naso di Nicole Kidman che la rende (vagamente) simile al personaggio interpretato - nientepopodimeno che Virginia Woolf - ma a che prezzo? Ne è valsa la pena?

Cast stellare: a fianco della Kidman ci sono Meryl Streep e Julianne Moore nei ruoli principali. Tra i ruoli secondari John C. Reilly (nello stesso anno è uscito anche in Chicago e Gangs of New York) e Jeff Daniels.

Storia molto drammatica, non fa in tempo ad iniziare il film che la Kidman si suicida, anche se, fortunatamente, si tratta solo di un flash forward. Un altro personaggio si butta dalla finestra verso la fine - ma del resto aveva l'AIDS e era in condizioni precarie sin dall'inizio - un paio di altre morti ci vengono liquidate in una battuta secondaria. E anche ai sopravvissuti non è che le cose vadano poi molto meglio.

Si tratta di tre storie, una versione romanzata e abbastanza stravolta della vita della Woolf, una vicenda che ricalca sommariamente quella di un romanzo della Woolf stessa (in cui fa da protagonista la Streep) ma che viene trasposta nella New York di inizio millennio, e una terza che pare sia ispirata alla storia della madre di chi ha scritto il romanzo omonimo da cui è tratta la sceneggiatura - interpretata dalla Moore. A fine film la Moore, invecchiatissima, finisce per incontrare la Streep.

M'è risultato difficile entrare in sintonia con una vicenda centrata quasi esclusivamente su personaggi femminili, tutti più o meno omosessuali e con vari disturbi caratteriali. Del resto anche buona parte dei personaggi maschili sono omosessuali e con problemi vari.

Regia (non particolarmente entusiasmante) di Stephen Daldry (Billy Elliot), colonna sonora memorabile di Philip Glass.

Incredibilmente, tutto sommato lo ritengo un buon film. Interessanti i contributi aggiuntivi nel DVD.

Pranzo di ferragosto

Scritto, diretto, interpretato da Gianni Di Gregorio (tra i co-sceneggiatori di Gomorra, alla sua prima regia), è un film a bassissimo costo che ha riscosso un inaspettato successo sia di critica sia di pubblico.

Si tratta di una commedia leggera ambientata nell'afosa estate romana che racconta più uno stato d'animo che una storia. Un cinquantenne semialcolizzato si trova a gestire un gruppetto di arzille vegliarde che mettono a dura prova la sua indolenza.

Piacevole la colonna sonora, opera del duo Stefano Ratchev e Mattia Carratello.

Transporter 3

In linea con i precedenti episodi, con qualche cambiamento in meglio (un "cattivo" finalmente in parte, Robert Knepper) ed altri in peggio per un risultato tutto sommato equivalente.

Lasciamo la Miami della seconda puntata (e pure la coproduzione Century Fox) per tornare nella Costa Azzurra degli inizi ma ci restiamo poco, visto che l'azione si snoda in viaggio per l'Europa fino ad arrivare ad Odessa.

Alla regia passa Olivier Megaton (contento lui del suo nome de plume, contenti tutti) portando qualche vezzo manierista di inizio secolo (accelerazioni, salti di fotogrammi) che non ho gradito. Resta comunque affiancato dal solito Yuen qui accreditato come coreografo per le arti marziali. Sceneggiatura attribuita ancora a Besson-Kamen anche se mi pare di aver visto nei titoli di coda che la storia originale fosse di qualcun altro. Ovviamente il protagonista è sempre Jason Statham, e François Berléand gli fa sempre da spalla, guadagnando anche un po' di minutaggio. Protagonista femminile tal Natalya Rudakova, al suo primo film (e si vede).

Dopo l'abbassamento di età di riferimento del secondo episodio, si è tornati ad alzarla, riducendo (leggermente) l'improbabilità dell'azione (ma anche le occasioni di comicità più o meno volontaria) e aggiungendo una sottotrama romantica francamente stucchevole.

Transporter 2

Noto anche come Transporter: Extreme probabilmente ad indicare quanto quello che succeda sia estremamente irrealistico. Secondo episodio della serie iniziata con un relativamente più pacato episodio ambientato sulla Costa Azzurra sempre con protagonista Jason Statham, stessi sceneggiatori Besson-Kamen, stessa regia Leterrier-Yuen, stessa produzione ma con più soldi.

Uguale anche l'inizio, ma poi la vicenda cambia - e non saprei dire se in meglio o in peggio. C'è da dire che più di una volta l'improbabilità delle vicende è stata tale da farmi ridere. Il dubbio è se sia un effetto atteso dalla produzione o no, ma tutto sommato direi di sì. Direi che il target si è abbassato e questo episodio miri a spettatori molto giovani.

La storia in breve: inspiegabilmente il transporter ha mollato Nizza per Miami e per far un piacere ad un amico fa praticamente da baby sitter. Il supercattivo, un Alessandro Gassman al limite dell'assurdo affiancato da una psicopatica Kate Nauta che ama girare praticamente nuda ammazzando a schioppettate chiunque gli passi vicino, ordisce un piano bislacco per fare una strage su commissione di un cartello della droga. Piano che riuscirebbe se non si mettesse in mezzo il trasporter, ovviamente.

The transporter

Tipico film di produzione, in questo caso del giro di Luc Besson. La regia è accreditata a Corey Yuen, ma quella "artistica" (qualunque cosa questo voglia dire) a Louis Leterrier che poi avrebbe diretto Danny The Dog con risultati che mi sembrano migliori. Per rendere la sceneggiatura più appetibile al pubblico americano, Besson si è appoggiato al solito Robert Kamen.

Non riesco a spiegarmi il successo che ha ottenuto, se non forse con il fatto che è stato coprodotto da una major americana, la 20th Century Fox, che avrà fatto valere il suo peso nella distribuzione.

La storia è tipica per Besson. Il protagonista (qui Jason Statham, che ha iniziato la sua carriera con Guy Ritchy con Lock, stock and two smoking barrels e poi in Snatch) s'è tirato in disparte a far un lavoretto decisamente sotto le sue possibilità, una giovin e piacente donna (Qi Shu) lo "costringe" a rientrare in azione.

Piacevole l'ambientazione, la Costa Azzurra, simpatico e realistico l'inglese incomprensibile dell'ispettore francese (François Berléand), insopportabile il "cattivo" (Matt Schulze).

Funeral party

Simpatica commedia inglese diretta da Frank Oz, più noto per la sua attività con il Muppet Show.

A dire il vero non mi ha convinto del tutto. L'impianto è quello classico di una black comedy inglese (a proposito, ne è stato fatto un remake americano, passato inosservato, che era black anche nel senso del colore dominante tra gli attori) con un funerale e tanti equivoci finché nel finale il protagonista mette tutto a posto, ma mi pare che la sceneggiatura avrebbe avuto bisogno di una bella riscrittura. Non fila tutto liscio come dovrebbe.

Comunque una buona occasione per farsi quattro risate.

Il diavolo veste Prada

Strepitosa interpretazione di Meryl Streep nei panni della supercarogna direttrice editoriale di una rivista che ha una stupefacente somiglianza con Vogue. Alla regia David Frankel che mette a frutto l'esperienza televisiva con Sex and the City e ci ammannisce alcune belle cartoline da New York e qualche instantanea da Parigi.

Nel cast anche un ottimo Stanley Tucci, qui in un ruolo diametralmente opposto da quello di Amabili resti.

Non ho capito bene la morale della storia, e mi viene come il sospetto che in realtà non ve ne sia alcuna. La protagonista (Anne Hathaway, caruccia ma non memorabile) sembra avanzare una mezza critica al sistema ipercompetitivo in cui capita, al punto di dare le dimissioni proprio nel momento in cui sembrerebbe aver "vinto". D'altro canto mostra simpatia per direttrice, arrivando a giustificare il suo comportamento buttandola sul femminismo (se si comportasse così un uomo, nessuno avrebbe niente da dire).

Memorie di una geisha

Una produzione di lusso per una melodramma di cui mi sfugge un po' il senso. A voler essere generosi, si potrebbe fare un paragone con la Madama Butterfly di Puccini, in entrambi i casi occidentali parlano del Giappone senza entrare troppo nei dettagli. Però Puccini ha prodotto un capolavoro della lirica primo-novecentesca, qui invece abbiamo a che fare con un buon prodotto medio della cinematografia americana contemporanea.

La regia è di Rob Marshall (Chicago), su sceneggiatura di Robin Swicord (specializzata in chick-flicks) da un romanzo di Arthur Golden (autore americano, nato a Chattanooga - città del Tennessee più nota per un famoso ma inesistente treno messo in musica per la big band di Glenn Miller, che si può ascoltare qui sotto grazie a youtube). Il tutto è stato prodotto da Steven Spielberg.

Cosa diamine ha a che fare tutto ciò con il Giappone? La risposta che nasce spontanea é: nulla.

Immagino che il tutto sia stato fatto sull'onda di una certa fascinazione nei riguardi di questo per noi lontano e quasi incomprensibile Paese, e da una certa curiosità, anche un po' morbosa, per il ruolo della geisha.

Veramente notevole l'impegno della produzione, che ha generato un cast di tutto rispetto con Gong Li nella parte della geisha bella e "cattiva"; Michelle Yeoh (il cui bellissimo inglese internazionale m'è sembrato un po' fuori tono in questo caso) come geisha rivale di Gong Li e "buona"; Ken Watanabe, l'amore impossibile della geisha; Cary-Hiroyuki Tagawa eccetera.

Montaggio di Pietro Scalia, premiato col nastro d'argento, notevole la colonna sonora, per lo meno nella parte occidentale - la musica giapponese è aldilà delle mie capacità di ascolto, diretta da John Williams con parti assegnate a personaggi del calibro di Yo-Yo Ma e Itzhak Perlman.

Black Hawk down

Abbastanza standard come film di guerra, se non fosse che alla regia c'è Ridley Scott e almeno nella parte iniziale, prima che si inizi a sparare e a prendere il sopravvento sia la produzione (di lusso, non c'è che dire) che fa ballare con grazia elicotteri e piovere proiettili come se fossero acqua.

Non male la colonna sonora babelica, sempre prima che le mitragliatrici coprano ogni possibilità di sentire qualcos'altro. Notevole il montaggio, del sempre ottimo Pietro Scalia, che qui si è preso un secondo oscar, dopo quello per JFK.

In pratica è la storia di una catastrofe: gli americani in Somalia pensano una operazione chirurgica per colpire lo stato maggiore di un potente signore della guerra che però finisce fuori controllo e causa una carneficina inumana, soprattutto tra i somali. Si parla di un rapporto vittime uno a cinquanta. Il punto di vista non può che essere di parte - film del genere devono necessariamente avere il beneplacito dell'esercito, sennò figurati se ti danno tutti quegli elicotteri con cui giocare - e quindi il migliaio di somali che ha lasciato le penne lascia una traccia appena percepibile sullo schermo.

Oliver Twist

Sono state fatti svariati adattamenti cinematografici e televisi da questo ben noto romanzo di Charles Dickens, che in genere virano sul film per ragazzi, sacrificando la complessità morale dell'opera per mirare più al colore e ai facili effetti drammatici e comici.

Grazie al cielo non è così nella versione di Roman Polanski che taglia molto della trama originale, riducendo molti personaggi a poco più di semplici apparizioni che il lettore del romanzo potrà considerare come rimandi lasciati per esercizio di memoria per focalizzare l'azione sul rapporto tra Oliver e Fagin, interpretato da uno strepitoso (e irriconoscibile) Ben Kingsley che in pratica dà il senso del film.

Bella la rappresentazione di una Londra ottocentesca sporca e caotica. Deludente il DVD (era un allegato a Panorama) che non contiene alcun contenuto extra, mentre in quello "ufficiale" ci dovrebbe essere una interessante featurette.

Zodiac

La cosa migliore del film è la regia. David Fincher è davvero in gamba, niente da dire.

Buono il cast, anche se nessuno ha il tempo materiale di apparire a sufficienza, data la tumultuosa vicenda.

Quello che credo vada considerato come il protagonista, Jake Gyllenhaal, mi è sembrato un po' spento, e non so bene se lo sia in quanto richiesto dalla parte, un disegnatore di vignette satiriche sul depresso andante, o gli venga proprio naturale. Mi pare di averlo visto solo in un altro ruolo (Donnie Darko, lì era certamente il protagonista) e anche lì non è che avesse un carattere brillante. Nel dubbio, lo accredito di un buon lavoro.

Piacevole l'interpretazione del poliziotto italo-americano, accento pesante e abiti sgargianti il giusto, di Mark Ruffalo (per vedere come non sia monocorde nella sua recitazione, lo si può rivedere in Tutti gli uomini del re o Se mi lasci ti cancello.

Davvero notevole Robert Downey Jr. nel ruolo di un giornalista talentuoso ma troppo pieno di sé, al punto da arrivare all'autodistruzione a base di alcolici e altre sostanze.

La storia in sé sarebbe una di quelle che mi lasciano molto freddo: la vicenda di un serial killer basata su fatti reali. Fortunatamente l'enfasi è stata tolta dal lato criminale della vicenda e messa più sull'indagine compiuta dal vignettista. Invece di parlare (tutto il tempo) degli omicidi, si tratta della fissazione che ha portato quel tale a quasi rovinarsi la vita nella ricerca del colpevole.

Peccato, a questo punto, che non si è data ancora meno rilevanza alle varie morti. Ma d'altronde questo è il problema di quando si trattano storie vere, soprattutto se così popolari - almeno negli USA, e di riflesso anche da noi. Si creano delle aspettative che poi vanno mantenute.

Interessante anche il fatto che la figura dell'assassino risulti essere quella di un mezzo babbeo, che se l'è cavata solo per problemi burocratici - i vari indizi e spezzoni di indagine erano divisi tra innumerevoli rivoli. Anche qui, peccato che non c'è stato tempo di evidenziare meglio questa parte.

Blood diamond - Diamanti di sangue

Solido film tradizionale, forse con una trama un po' troppo complessa che sarebbe stato meglio sfoltire.

A proposito del titolo, mi chiedo come mai si sia passati dal singolare in originale al plurale in italiano. Pare che si sia voluto dare più risalto al commercio illegale di diamanti che al singolo diamante che fa da perno alla storia.

Nonostante il tema dello sfruttamento delle risorse del terzo mondo a nostro vantaggio sia stato tenuto sullo sfondo, pare che non abbia riscosso un gran apprezzamento negli USA, meno di quanto abbia fatto nel resto del mondo.

Strano perché, dopotutto, si tratta di un prodotto tipico made in Hollywood. Regia di Edward Zwick, una star di primo piano come Leonardo Di Caprio, attorniato da un buon gruppo di attori (Djimon Hounsou, Jennifer Connelly e anche Michael Sheen in un piccolo ruolo), una ricca produzione, scenari affascinanti.

Dicevo che la trama m'è sembrata troppo ricca. Infatti si incastrano diverse storie, tutte con il loro baricentro in Di Caprio, ex mercenario riciclatosi come contrabbandiere di diamanti sporchi.

La sua storia, che è da leggere tra le righe, è quella di un ragazzino bianco che ha vissuto il passaggio drammatico dalla Rhodesia dell'apartheid nello Zimbabwe. Perde drammaticamente i genitori e l'anima. Finché i fatti narrati nel film gli fanno ritrovare la retta via, ma a caro prezzo.

La sua storia si intreccia con quella di una giornalista americana (la Connelly) anche lei in cerca di non sa bene che cosa. La trova (forse) in lui, ma le circostanze non fanno sì che la storia vada nel modo migliore.

Si intreccia anche con quella di una famigliola della Sierra Leone, in particolare con il capofamiglia (Hounsou) che trova fortunosamente il diamante del titolo.

Tanti, quindi, i temi trattati: lo sfruttamento dell'Africa, l'eredità dell'apartheid, i bambini soldato, il rapporto padre-figlio, la storia romantica tra il duro e la pupa, la strana coppia unita per una missione comune. E, pure altri temi (l'anomalo cameratismo disilluso tra mercenari, ad esempio) che finiscono per essere solo accennati.

Aurora

Sulla copertina del DVD campeggia un giudizio di François Truffaut: "Il più bel film della storia del cinema". Troppo perentorio, forse, ma siamo comunque in quell'ordine di idee.

Ovviamente, dato che si tratta di un film muto, in bianco e nero, di più di ottanta anni fa, bisogna mettersi nell'ottica giusta per gustarselo. Ma con la giusta predisposizione d'animo si possono apprezzare le sfumature della storia e, soprattutto, la regia tutt'oggi soprendente di Friedrich Wilhelm Murnau.

Non conoscendo a priori la storia, sono rimasto colpito dal cambiamento di registri. Si parte con un melodramma a forti tinte - una donna fatale convince l'innamorato ad uccidere la sua moglie, vendere la fattoria e trasferirsi in città con lei - per poi passare alla commedia romantica - il marito fedifrago si pente all'ultimo momento, i due vanno (in tram) in città e lì ricostruiscono il loro rapporto - con puntate nel comico (alcune scenette mi hanno fatto pensare a Mack Sennett) - per poi finire nella tragedia.

Il racconto originale, molto tedesco, avrebbe previsto la catastrofe finale, ma l'aria di Holliwood ha spinto verso il lieto fine.

Disturbia

Un tale si trova bloccato in casa, la noia lo porta a spiare i vicini. Guarda di qui, guarda di là, si imbatte in un vicino che sembra proprio un assassino, e dunque gli sguinzaglia dietro la bellissima fidanzata in un piano fallimentare per riuscire a trovare le tracce del presunto omicidio. Ma il losco figuro non è scemo, annusa la trappola e fa venire un bello spavento alla bellezza del film. Poi i ruoli si invertono ed è il cattivo ad inseguire il buono, che rischia brutto ma alla fine si salva.

Purtroppo non si tratta de La finestra sul cortire bensì di Disturbia, e perciò il regista non è Alfred Hitchcock, il protagonista non è Jimmy Steward e lei non è (sospiro) Grace Kelly.

Direi che solo lo spettatore più disattento può non notare la somiglianza tra le due storie, e quindi anche il detentore dei diritti del racconto da cui è tratta la sceneggiatura del capolavoro hitchcockiano, quando ha scoperto l'inghippo s'è imbizzarrito e ha fatto causa a Steven Spielberg e alla sua Dreamworks per aver utilizzato una storia (scritta da Christopher Landon) malamente scopiazzata. Però il tribunale gli ha dato torto: troppe le differenze.

Tutto questo l'ho scoperto dopo aver visto il DVD (tra l'altro c'è da notare quanto sia ricco di contenuti extra), se no probabilmente ne avrei evitato la visione.

Si diceva delle differenze. Alcune sono lapalissiane: D.J. Caruso è un regista mediocre, anche se in certe scene ricorda John Badham, che lo ha formato. I protagonisti sono ragazzetti (lo Shia LaBeouf di Transformer e Sarah Roemer che curiosamente ho appena visto in Hachiko) per cui, per fare in modo che la casa sia vuota, la sceneggiatura ha dovuto eliminare cruentemente il padre e fare in modo che la madre (una Carrie-Anne Moss sprecata, appare in una manciata di minuti) sia inesplicabilmente quasi sempre assente. Il protagonista resta bloccato in casa non da una gamba rotta ma da una cavigliera elettronica, rifilatagli per aver tirato un cazzotto ad un professore. Data l'età dei protagonisti lo svolgimento del thriller si mescola in maniera quasi demenziale ad una commedia adolescenziale, con gran gioia dei pubblicitari che così riescono a fare product placement di Xbox, iPod, iTunes e chissà quanta altra roba che mi è sfuggita. Inoltre mica ci si poteva accontentare di un omicidio, il tizio doveva essere perlomeno un serial killer e, giusto per aggiungere un tocco di horror, si tiene in casa una serie di vittime, ad un diverso stato di decomposizione.

Io sono leggenda

Molto (ma molto) meglio il romanzo omonimo di Richard Matheson che, pur risalendo agli anni cinquanta, è decisamente più moderno di questa versione cinematografica.

Si sono spesi dei gran soldi e si vedono tutti, ed è decisamente divertente vedere New York, the city that never sleeps, spopolata e invasa da erbacce, gazzelle e leoni - però dieci minuti può bastare, cento risulta eccessivo. Bravo Will Smith ma lasciato, come dire, un po' troppo da solo. Gli zombi sembrano Gollum del Signore degli anelli.

Regia senza infamia e senza lode di Francis Lawrence (noto per i suoi videoclip per JLo, Green Day, etc).

Avrebbe potuto comunque avere un senso con questa versione del finale, che è stata però bocciata:

Almeno qui il protagonista capisce di aver sbagliato tutto, chiede scusa, e trova un modo per cercare di rabbrecciare ai gran danni che ha combinato. Nel finale scelto, invece, preferisce far l'eroe e farsi esplodere. Morale: per molti è più facile farsi saltare per aria che ammettere di aver fatto un errore.

Credo che la sceneggiatura originale prevedesse il finale scartato, che infatti raccoglie indizi sparsi nel film che altrimenti non portano a niente (o a poco).

E' un peccato che la storia sia stata svuotata del senso originale - il protagonista lì si accorgeva di essere lui in errore e, seppure ormai troppo tardi, accettava la sua sorte. Con il finale scelto diventa la solita storia in cui i "diversi" sono i cattivi, e l'unica cosa che si può fare è ammazzarne il più possibile. Meglio, allora, vedersi 28 giorni dopo, diretto da Danny Boyle, che finisce per essere curiosamente simile.

Deludente il DVD nell'edizione di Panorama che come extra prevede dei fumetti animati (che non mi hanno convinto) e non il finale alternativo mostrato sopra.

Il quinto elemento

Dopo Nikita, di cui è stato fatto un remake ad hoc per poter essere distribuito negli USA, e dopo Léon, girato in inglese a New York e che ha dimostrato ai produttori che era possibile per un regista francese fare un film che vende biglietti oltreoceano, Luc Besson è riuscito a convincere la Gaumont a sborsare una cifra stratosferica (per il cinema europeo) per un lavoro in cui la fantascienza va a braccetto con una buona dose di autoironia.

Scommessa vinta, anche se più a livello planetario che americano. E mi vien difficile pensare che qualche altro regista europeo possa far meglio di Besson.

Da notare che, per andar meglio incontro al gusto americano, Besson si è fatto aiutare nella stesura della sceneggiatura da Robert Kamen, con cui, a quanto pare, si è instaurata una sorta di collaborazione permanente (The Transporter, Io vi troverò).

Due ore di pellicola che scorrono via bene con una vicenda ambientata fra un paio di secoli, con una impellente fine dell'universo che può essere impedita solo da uno squinternato gruppetto composto da un ex-militare, ora tassista depresso (Bruce Willis), un prete di una strana e antica religione (Ian Holm che diventerà Bilbo nel Signore degli anelli) e il suo assistente, un assurdo conduttore radiofonico (Chris Tucker) e il quinto elemento in persona, un superguerriero ingegnerizzato da alieni per sconfiggere il supercattivo, che non è interpretato da altri che Milla Jovovich.
Il supercattivo invece è di difficile rappresentazione, in quanto si tratta di una sorta di planetoide senziente, che però ha come degno rappresentante in Terra un cattivissimo magnate interpretato con gusto da Gary Oldman.

Il punto debole è sicuramente rappresentato dagli effetti speciali, fortunatamente tenuti a galla da un look futuribile di impronta tipicamente francese dovuto a nomi del calibro di Jean-Paul Gaultier e Moebius (noto all'anagrafe come Jean Giraud).

Breach - L'infiltrato

Ennesimo film basato su una storia "vera" che viene aggiustata alle esigenze delle sceneggiatura. In questo caso si tratta della vicenda dell'agente FBI che ha causato il maggior danno agli USA a vantaggio dell'URSS (finché è esistita, poi della Russia) che, dopo una ventina d'anni è stato scoperto.

La vicenda è tutta centrata sul suo ultimo periodo di libertà, mentre i suoi colleghi gli stanno costruendo attorno il trappolone che finirà per mandarlo all'ergastolo. Poca (quasi nulla) l'azione, tutto si gioca sul confronto tra le personalità dell'anziano agente (Chris Cooper, perfettamente in parte, grazie alla grande esperienza in ruoli simili vedi anche The Kingdom, Syriana, i due Bourne, ...) e del novellino (Ryan Phillippe) che gli vien messo al fianco per cercare di carpire qualche dettaglio che possa servire ad incriminarlo.

Diretto (e co-scritto) da Billy Ray con un budget relativamente basso, ha ottenuto un certo riscontro negli USA, probabilmente per la risonanza che il fatto raeale ha avuto, meno nel resto del mondo. Ho avuto come l'impressione che la parte del novellino sia stata scritta pensando a Matt Damon, e per l'agente FBI che conduce l'indagine Julianne Moore (invece della pur valida Laura Linney) ma che il budget limitato abbia condotto a più miti consigli.

Completamente fuori parte l'incolpevole Caroline Dhavernas nel ruolo della moglie tedesca del giovin agente. Avranno pensato che essendo canadese di madrelingua francese poteva passare come europea al pubblico americano.

Oltre al confronto tra "maestro" e "allievo", il tema "giallo" sarebbe quello di capire cosa ha portato un agente americano, fervente cattolico, a tradire la sua adorata patria per dei nemici che, per di più, erano pure atei. Si crea una gran aspettativa, l'agente che l'arresta (Dennis Haysbert) glielo chiede anche esplicitamente ma non c'è una vera risposta. I soldi? Nah. Il disgusto per non essere riconosciuto per quanto vale? Sembra poco. Il voler mostrare come il sistema di intelligence americano non funzioni? Sembra ridicolo.

Hachiko - Il tuo migliore amico

Per estremisti cinofili.

Richard Gere è un bravo attore, e i cani che interpretano il protagonista sono belli e in parte. La storia è anche commovente ma ha, per i miei gusti, il difetto fondamentale di essere fasulla e di essere spacciata come "vera" per avere una lontana assonanza con un fatto realmente successo mezzo secolo prima in un altro continente (Giappone) e con modalità piuttosto diverse.

Buona la rappresentazione del New England, anche se il tutto è virato nel favolistico da Lasse Hallström (credo sia Chocolat il film che gli è riuscito meglio, crudelmente spero che venga ricordato come il regista di ABBA: The definitive collection).

Piacevole la colonna sonora di Kaczmarek.