Invero al momento di questo film non esiste una versione italiana, e quindi il titolo che ho messo al post è basato sull'illazione che un possibile distributore utilizzi il titolo del primo romanzo di S.J. Watson su cui è basata la sceneggiatura (*). Strano che il film abbia girato tutto il mondo, compresa Papua Nuova Guinea, Giappone, Lettonia e Uruguay ma da non non abbia fatto nemmeno una apparizione simbolica. Meraviglie del mercato europeo, ce lo si può comunque procurare facilmente, in versione originale inglese, tedesca o francese (**) a seconda dei gusti personali.
Protagonista della storia è Christine (Nicole Kidman), che ha un problema simile a quello narrato in Memento (2000). Da quando anni prima ha picchiato malamente la testa, riesce a ricordare solo quello che le succede nella giornata, come si addormenta tutto si svapora, e si risveglia con la memoria ferma a quando aveva venti anni.
Difficile immaginarsi lo shock di scoprire al risveglio di essere invecchiata in un lampo e di non sapere cosa è successo per una metà della propria vita. Christine si risveglia di fianco a un uomo (Colin Firth) che dice di essere Ben, suo marito, ma di cui lei non ha nemmeno il minimo ricordo. E ci sono cose peggiori, perché sembra che Christine si sia comportata in passato in un modo che ora non riconosce più come suo, e ci sono anche pesanti ombre sulle circostanze dei fatti che l'hanno portata a perdere la memoria.
Inoltre, c'è pure un medico, il dottor Nasch (Mark Strong) che l'ha incontrata per caso, si è interessato al caso, e ora cerca di aiutarla, ma di nascosto dal marito, per motivi che non appaiono chiari.
Ci pare evidente che qualcuno non la conti giusta, ma chi? Forse la botta in testa ha migliorato Christine, sono cose che capitano, vedasi ad esempio Total recall, meglio se quello di Paul Verhoeven (1990), anche se lì la perdita della memoria aveva altre ragioni. Oppure Ben non è il marito amorevolmente disperato che sembra e nasconde invece qualcosa di torbido. Ma anche il dottor Nasch ha qualcosa di strano e direi che a tratti si può legittimamente dubitare dei suoi metodi.
Notevole il trio di protagonisti, con la Kidman in primo piano e i due uomini che, purtroppo, sono messi un po' da parte. Peccato in particolare che Strong e Firth abbiano solo pochi secondi per duettare. La storia ha svariate debolezze, sia perchè il confronto con Memento è troppo pesante, sia perché non c'è tempo e modo per approfondire alcunchè. Resta a dominare la scena il lato thriller, facendoci chiedere chi sia davvero il cattivo e quale sia il suo senso di agire. Che purtroppo non mi pare abbastanza.
(*) Che, come la regia, è stata affidata a Rowan Joffe
(**) Intitolate rispettivamente Before I go to sleep, Ich. Darf. Nicht. Schlafen, e Avant d'aller dormir.
Julieta
Julieta (Emma Suárez) è una splendida cinquantenne che vive a Madrid con Lorenzo (Darío Grandinetti), noto scrittore locale. I due sono sul punto di trasferirsi in Portogallo un incontro intempestivo, spinge Julieta a cambiare programma, scaricare brutalmente Lorenzo, e a farla cadere (*) in una brutta depressione.
Un lungo flashback ci spiega l'arcano. Una trentina di anni prima, Julieta (Adriana Ugarte) aveva avuto una burrascosa notte in treno, prima respingendo un anziano viaggiatore che cercava di attaccar discorso, poi accettando la compagnia di un giovane e nerboruto pescatore galiziano, Xoan (Daniel Grao). Sia come sia, Julieta si trova incinta di Antía e con una serie di sensi di colpa a cui cerca di non dar peso ma di cui non si riuscirà a liberare nei decenni successivi.
Come spesso accade nei film di Pedro Almodóvar, le cose sono ben più complicate. Succede infatti che Xoan ha una tendenza poligamica piuttosto marcata, e coltiva allegramente una amicizia dai contorni poco definiti con una artista locale, Ava (Inma Cuesta). Anche i genitori di Julieta hanno i loro problemi, lei ha l'Alzheimer, e lui si consola con la giovane donna che, teoricamente, dovrebbe badare alla moglie.
L'equilibrio molto instabile alla fine cede, Julieta perde prima Xoan, poi Antìa, e riuscirà solo con gran fatica, grazie anche all'incontro con Lorenzo (**), riuscirà a trovarne uno nuovo. Che però si rivela anch'esso molto fragile, il flashback è terminato, e siamo tornati alla Julieta cinquantenne, che non sa nuovamente cosa fare della sua vita.
Sarà un ennesimo lutto, e la testardaggine di Lorenzo, a darle una nuova possibilità di mettere a posto le cose.
Lo spettatore che conosca Almodóvar si ritroverà nei suoi temi classici, ma noterà anche come questa volta la trattazione sia molto più asciutta. La sua tipica irriverente comicità, spesso spinta al paradosso e anche oltre, qui è praticamente del tutto assente. La sola Rossy de Palma, qui nel ruolo della perfida donna delle pulizie di Xoan, mantiene un ricordo dei personaggi al limite del surreale che ha precedentemente interpretato in altri suoi film (***). Le vicende che sembrano soap opera (°) questa volta vengono lasciate sviluppare con gran serietà. Almodóvar qui non ci vuol far ridere dell'assurdità della vita, vuole che la guardiamo in faccia, per quanto male possa fare.
In linea con il tono del film la colonna sonora di Alberto Iglesias, con un quieto crescendo della tensione che mi ha fatto pensare al supporto che Bernard Herrmann dava alle pellicole di Alfred Hitchcock.
(*) Scopriremo più avanti che si tratta di una ricaduta.
(**) Che lei scherzando dirà di aver ereditato da Ava.
(***) Impossibile non citare almeno Donne sull'orlo di una crisi di nervi (1988).
(°) Suicidi, morti drammatiche per malattie e incidenti, sparizioni misteriose, incontri casuali nei posti meno attesi ma proprio al momento opportuno per lo svolgimento della trama.
Un lungo flashback ci spiega l'arcano. Una trentina di anni prima, Julieta (Adriana Ugarte) aveva avuto una burrascosa notte in treno, prima respingendo un anziano viaggiatore che cercava di attaccar discorso, poi accettando la compagnia di un giovane e nerboruto pescatore galiziano, Xoan (Daniel Grao). Sia come sia, Julieta si trova incinta di Antía e con una serie di sensi di colpa a cui cerca di non dar peso ma di cui non si riuscirà a liberare nei decenni successivi.
Come spesso accade nei film di Pedro Almodóvar, le cose sono ben più complicate. Succede infatti che Xoan ha una tendenza poligamica piuttosto marcata, e coltiva allegramente una amicizia dai contorni poco definiti con una artista locale, Ava (Inma Cuesta). Anche i genitori di Julieta hanno i loro problemi, lei ha l'Alzheimer, e lui si consola con la giovane donna che, teoricamente, dovrebbe badare alla moglie.
L'equilibrio molto instabile alla fine cede, Julieta perde prima Xoan, poi Antìa, e riuscirà solo con gran fatica, grazie anche all'incontro con Lorenzo (**), riuscirà a trovarne uno nuovo. Che però si rivela anch'esso molto fragile, il flashback è terminato, e siamo tornati alla Julieta cinquantenne, che non sa nuovamente cosa fare della sua vita.
Sarà un ennesimo lutto, e la testardaggine di Lorenzo, a darle una nuova possibilità di mettere a posto le cose.
Lo spettatore che conosca Almodóvar si ritroverà nei suoi temi classici, ma noterà anche come questa volta la trattazione sia molto più asciutta. La sua tipica irriverente comicità, spesso spinta al paradosso e anche oltre, qui è praticamente del tutto assente. La sola Rossy de Palma, qui nel ruolo della perfida donna delle pulizie di Xoan, mantiene un ricordo dei personaggi al limite del surreale che ha precedentemente interpretato in altri suoi film (***). Le vicende che sembrano soap opera (°) questa volta vengono lasciate sviluppare con gran serietà. Almodóvar qui non ci vuol far ridere dell'assurdità della vita, vuole che la guardiamo in faccia, per quanto male possa fare.
In linea con il tono del film la colonna sonora di Alberto Iglesias, con un quieto crescendo della tensione che mi ha fatto pensare al supporto che Bernard Herrmann dava alle pellicole di Alfred Hitchcock.
(*) Scopriremo più avanti che si tratta di una ricaduta.
(**) Che lei scherzando dirà di aver ereditato da Ava.
(***) Impossibile non citare almeno Donne sull'orlo di una crisi di nervi (1988).
(°) Suicidi, morti drammatiche per malattie e incidenti, sparizioni misteriose, incontri casuali nei posti meno attesi ma proprio al momento opportuno per lo svolgimento della trama.
La ricompensa del gatto
Nonostante il buon successo ottenuto in Giappone, è uscito da noi solo quest'anno, grazie alla Lucky Red. E adesso è disponibile in DVD. Trattasi dell'unica regia di Hiroyuki Morita, che ha iniziato la sua carriera come disegnatore allo Studio Ghibli con Kiki (1989) e che poi non ha avuto altre opportunità direttoriali.
La sceneggiatura è nata in modo peculiare, un progetto su richiesta di un parco a tema giapponese che aveva commissionato un cortometraggio specificando che ci dovevano essere dentro tanti gatti. Hayao Miyazaki pensò di sfruttare il nucleo de I sospiri del mio cuore, dove un gatto sovrappeso pareva saperla molto più lunga di quanto sia lecito aspettarsi e una statuetta di gatto antropomorfo sembrava dotato di una scintilla di vita indipendente. Il committente cambiò idea poco dopo, ma la storia ormai aveva preso una sua consistenza, e si decise di rimpolparla fino a farla diventare un lungometraggio.
La protagonista è Haru, ragazzina sul punto di diventare una giovane donna, che però ha alcuni problemi risolvere prima di compiere il passo. In particolare è distratta e piuttosto dormigliona (*), il che le complica le relazioni sociali, al punto che il compagno di classe di cui s'è infatuata non le presta la minima attenzione.
Un giorno di ordinarie delusioni, Haru ha modo di salvare la vita ad un gatto, che si rivela essere addirittura Lune, il principe del regno dei gatti. La gratitudine di suo padre il re è tale che Haru viene omaggiata di una quantità enorme di erba gatta e di topolini vivi in scatola (**). In più, le viene prospettato il matrimonio con il principe.
La risposta di Haru è così confusa che viene presa per un sì, e il meccanismo per trasferirla nel regno dei gatti parte. Come se ne rende conto, Haru, grazie anche ad una misteriosa soffiata, cerca un ufficio affari felini che è tenuto da Muta (***), il quale lo porta da Baron, meglio noto come Barone Humbert von Gikkingen, che, con l'aiuto di una garguglia-corvo a nome Toto, si interessano alla vicenda della ragazza.
Seguono una serie di folli avventure, con Haru che si rimpicciolisce e assume sembianze sempre più feline, Muta che combatte da par suo con ingenti quantità di cibo, Baron che dispensa validi consigli, e Toto che interviene come deus ex-machina nei momenti più delicati.
Il bello è che Haru riesce a trovare il bandolo della matassa, capire quello che apparentemente potrebbe sembrare una storia priva di senso, ed usarla come quello stimolo che le mancava per crescere.
(*) Caratteristiche che me la rendono automaticamente molto simpatica.
(**) A scopo ludico-gastronomico, temo.
(***) Il gatto bianco diversamente snello da I sospiri del mio cuore, che più avanti scopriremo chiamarsi Renaldo Moon ed essere stato bandito dal regno dei gatti a causa della sua mancanza di rispetto e per il suo appetito prodigioso.
La sceneggiatura è nata in modo peculiare, un progetto su richiesta di un parco a tema giapponese che aveva commissionato un cortometraggio specificando che ci dovevano essere dentro tanti gatti. Hayao Miyazaki pensò di sfruttare il nucleo de I sospiri del mio cuore, dove un gatto sovrappeso pareva saperla molto più lunga di quanto sia lecito aspettarsi e una statuetta di gatto antropomorfo sembrava dotato di una scintilla di vita indipendente. Il committente cambiò idea poco dopo, ma la storia ormai aveva preso una sua consistenza, e si decise di rimpolparla fino a farla diventare un lungometraggio.
La protagonista è Haru, ragazzina sul punto di diventare una giovane donna, che però ha alcuni problemi risolvere prima di compiere il passo. In particolare è distratta e piuttosto dormigliona (*), il che le complica le relazioni sociali, al punto che il compagno di classe di cui s'è infatuata non le presta la minima attenzione.
Un giorno di ordinarie delusioni, Haru ha modo di salvare la vita ad un gatto, che si rivela essere addirittura Lune, il principe del regno dei gatti. La gratitudine di suo padre il re è tale che Haru viene omaggiata di una quantità enorme di erba gatta e di topolini vivi in scatola (**). In più, le viene prospettato il matrimonio con il principe.
La risposta di Haru è così confusa che viene presa per un sì, e il meccanismo per trasferirla nel regno dei gatti parte. Come se ne rende conto, Haru, grazie anche ad una misteriosa soffiata, cerca un ufficio affari felini che è tenuto da Muta (***), il quale lo porta da Baron, meglio noto come Barone Humbert von Gikkingen, che, con l'aiuto di una garguglia-corvo a nome Toto, si interessano alla vicenda della ragazza.
Seguono una serie di folli avventure, con Haru che si rimpicciolisce e assume sembianze sempre più feline, Muta che combatte da par suo con ingenti quantità di cibo, Baron che dispensa validi consigli, e Toto che interviene come deus ex-machina nei momenti più delicati.
Il bello è che Haru riesce a trovare il bandolo della matassa, capire quello che apparentemente potrebbe sembrare una storia priva di senso, ed usarla come quello stimolo che le mancava per crescere.
(*) Caratteristiche che me la rendono automaticamente molto simpatica.
(**) A scopo ludico-gastronomico, temo.
(***) Il gatto bianco diversamente snello da I sospiri del mio cuore, che più avanti scopriremo chiamarsi Renaldo Moon ed essere stato bandito dal regno dei gatti a causa della sua mancanza di rispetto e per il suo appetito prodigioso.
Lo chiamavano Jeeg Robot
Enzo Ceccotti (Claudio Santamaria) è uno scarsissimo piccolo delinquente romano a cui sembrano andare tutte storte. Inseguito da ingenti forze di polizia per aver rubato un orologio, per evitare l'arresto si tuffa nel Tevere e finisce dritto in un bidone di una qualche porcheria marchiata come radioattiva. Più morto che vivo torna nel suo squallido appartamento di Tor Bella Monaca, si fa una bella dormita e si risveglia quasi a posto. Va dal suo ricettatore di fiducia, il massiccio Sergio (Stefano Ambrogi), e aspetta mentre costui è impegnato in una riunione con gli altri membri della sua banda, capitanata dallo Zingaro (Luca Marinelli), un tipaccio completamente fuori di testa, che anni prima aveva avuto una piccola notorietà televisiva che gli fa sembrare la sua attuale condizione di balordo di periferia ancor peggio di quello che è.
Sergio si tira dietro Enzo per fare il solito lavoretto semplice che si rivela più complicato di quel che si pensava. Risultato, Sergio esce di scena ed Enzo si trova a doversi gestire la figlia di quello, Alessia (Ilenia Pastorelli), una povera disgraziata che ne deve aver passate di tutti i colori nella sua breve vita, e si comporta come se avesse dodici anni. L'unica cosa che pare le interessi sono le avventure di Jeeg robot d'acciaio, e associa tutto quello che succede a quella serie, al punto di vedere in Enzo Hiroshi Shiba. Anche perché lui, nel frattempo, ha scoperto che il bagno mefitico gli ha dato una forza sovrumana e alcune capacità aggiuntive da supereroe.
Il lavoretto malriuscito mette nei guai lo Zingaro, che deve un mucchio di soldi ai camorristi di Nunzia Lo Cosimo (Antonia Truppo). Che prima cerca Alessia pensando così di risalire al padre, poi si interessa del Ceccotti e dei suoi superpoteri, che vorrebbe per sé. I camorristi di Nunzia, a loro volta, da un lato premono sullo Zingaro per riavere i loro soldi, dall'altro mettono bombe in giro per Roma, non si sa bene perché.
Dopo Il ragazzo invisibile di Gabriele Salvatores (2014), ecco qua un'altro film che cerca di portare le tematiche da fumetto supereroico dalle nostre parti. Il risultato è divertente, ed è stato premiato sia ai David di Donatello sia al botteghino.
Ho condiviso con buona parte del pubblico in sala le perplessità sulla parlata di alcuni attori, che sarà aderente alla realtà (*), ma che era a tratti poco comprensibile a noi poveri nordici. Tra i personaggi principali, premio per la minore intelligibilità alla Pastorelli. Meno problemi ha dato il dialetto campano dei camorristi, anche perché mostravano chiaramente con l'azione il significato delle loro parole.
La parte che mi è piaciuta meno è il pistolotto finale in cui si inneggia al supereroe come portatore di speranza per le masse oppresse. Roba che in un Paese come il nostro, da sempre in cerca dell'uomo solo al comando che risolva magicamente i nostri problemi, mi fa venire i brividi. Non potevano Nicola Guaglianone (sceneggiatura) e Gabriele Mainetti (regia) evitarcela?
(*) Epperò in un film di questo genere, dove l'aderenza alla realtà non è certo un requisito fondamentale, si poteva mantenere un accento più pulito, come del resto hanno fatto il Santamaria, l'Ambrogi, il Marinelli.
Sergio si tira dietro Enzo per fare il solito lavoretto semplice che si rivela più complicato di quel che si pensava. Risultato, Sergio esce di scena ed Enzo si trova a doversi gestire la figlia di quello, Alessia (Ilenia Pastorelli), una povera disgraziata che ne deve aver passate di tutti i colori nella sua breve vita, e si comporta come se avesse dodici anni. L'unica cosa che pare le interessi sono le avventure di Jeeg robot d'acciaio, e associa tutto quello che succede a quella serie, al punto di vedere in Enzo Hiroshi Shiba. Anche perché lui, nel frattempo, ha scoperto che il bagno mefitico gli ha dato una forza sovrumana e alcune capacità aggiuntive da supereroe.
Il lavoretto malriuscito mette nei guai lo Zingaro, che deve un mucchio di soldi ai camorristi di Nunzia Lo Cosimo (Antonia Truppo). Che prima cerca Alessia pensando così di risalire al padre, poi si interessa del Ceccotti e dei suoi superpoteri, che vorrebbe per sé. I camorristi di Nunzia, a loro volta, da un lato premono sullo Zingaro per riavere i loro soldi, dall'altro mettono bombe in giro per Roma, non si sa bene perché.
Dopo Il ragazzo invisibile di Gabriele Salvatores (2014), ecco qua un'altro film che cerca di portare le tematiche da fumetto supereroico dalle nostre parti. Il risultato è divertente, ed è stato premiato sia ai David di Donatello sia al botteghino.
Ho condiviso con buona parte del pubblico in sala le perplessità sulla parlata di alcuni attori, che sarà aderente alla realtà (*), ma che era a tratti poco comprensibile a noi poveri nordici. Tra i personaggi principali, premio per la minore intelligibilità alla Pastorelli. Meno problemi ha dato il dialetto campano dei camorristi, anche perché mostravano chiaramente con l'azione il significato delle loro parole.
La parte che mi è piaciuta meno è il pistolotto finale in cui si inneggia al supereroe come portatore di speranza per le masse oppresse. Roba che in un Paese come il nostro, da sempre in cerca dell'uomo solo al comando che risolva magicamente i nostri problemi, mi fa venire i brividi. Non potevano Nicola Guaglianone (sceneggiatura) e Gabriele Mainetti (regia) evitarcela?
(*) Epperò in un film di questo genere, dove l'aderenza alla realtà non è certo un requisito fondamentale, si poteva mantenere un accento più pulito, come del resto hanno fatto il Santamaria, l'Ambrogi, il Marinelli.
La pazza gioia
La nobildonna Beatrice Morandini Valdirana (Valeria Bruni Tedeschi) è decaduta a tal punto da essere internata in quella che era (*) la tenuta nella bella campagna toscana di una sua prozia, ora trasformato in ospedale psichiatrico giudiziario (**). Spocchiosa, guarda tutti dall'alto in basso, sommergendo chiunque di feroci critiche, ruba, insulta, minaccia. Non sorprende scoprire che non riesca a legare con nessuno. Sorprende invece che le nasca una inspiegabile simpatia per Donatella Morelli (Micaela Ramazzotti), giunta nella struttura in seguito a quello che sembra un ennesimo rovinoso tentativo di suicidio in prigione.
Quanto Beatrice è vulcanica ed estroversa, tanto Donatella è chiusa in se stessa. La prima vanta amicizie in altissimo loco, l'altra, scopriremo, potrebbe ribattere con la sua popolarità come cubista in una nota discoteca della costa. Le due diventano amiche e caso vuole che evadano, iniziando una breve avventura (***) che le porterà a scavare nella loro storia.
Ci vengono rapidamente presentati una serie di personaggi, qualche brava persona ma anche tanti, troppi brutti ceffi che ci fanno dubitare su che senso abbia etichettare come matte Beatrice e Donatella, dando quindi implicitamente una patente di normalità a persone come i genitori di Donatella (Anna Galiena e Marco Messeri) che fanno venire la pelle d'oca.
Causa il problema psicologico delle due protagoniste, il peso dello sviluppo narrativo cade quasi completamente sulla Bruni Tedeschi, che ne approfitta (°) per costruire un personaggio memorabile, così eccessivo da risultare simpatico (°°) nel suo essere insopportabile. La Ramazzotti per gran parte del tempo tace, cerca di scomparire dalla scena, lascia che la sua compare debordi.
Scopriremo solo quando ormai siamo vicini al finale la ragione dell'istintiva amicizia tra Beatrice e Donatella. Nonostante le apparenze, il percorso di vita assolutamente diverso che hanno compiuto, le due donne sono così simili che, quando Donatella si deciderà a raccontare la sua vita, l'amica chioserà il monologo con una lunga serie di "anch'io".
(*) O almeno, lei sostiene così.
(**) L'azione si svolge nel recente passato, quando ancora gli OPG esistevano.
(***) Vagamente alla Thelma e Louise.
(°) Grazie anche alla regia di Paolo Virzì, ovviamente.
(°°) Potendole stare a opportuna distanza.
Quanto Beatrice è vulcanica ed estroversa, tanto Donatella è chiusa in se stessa. La prima vanta amicizie in altissimo loco, l'altra, scopriremo, potrebbe ribattere con la sua popolarità come cubista in una nota discoteca della costa. Le due diventano amiche e caso vuole che evadano, iniziando una breve avventura (***) che le porterà a scavare nella loro storia.
Ci vengono rapidamente presentati una serie di personaggi, qualche brava persona ma anche tanti, troppi brutti ceffi che ci fanno dubitare su che senso abbia etichettare come matte Beatrice e Donatella, dando quindi implicitamente una patente di normalità a persone come i genitori di Donatella (Anna Galiena e Marco Messeri) che fanno venire la pelle d'oca.
Causa il problema psicologico delle due protagoniste, il peso dello sviluppo narrativo cade quasi completamente sulla Bruni Tedeschi, che ne approfitta (°) per costruire un personaggio memorabile, così eccessivo da risultare simpatico (°°) nel suo essere insopportabile. La Ramazzotti per gran parte del tempo tace, cerca di scomparire dalla scena, lascia che la sua compare debordi.
Scopriremo solo quando ormai siamo vicini al finale la ragione dell'istintiva amicizia tra Beatrice e Donatella. Nonostante le apparenze, il percorso di vita assolutamente diverso che hanno compiuto, le due donne sono così simili che, quando Donatella si deciderà a raccontare la sua vita, l'amica chioserà il monologo con una lunga serie di "anch'io".
(*) O almeno, lei sostiene così.
(**) L'azione si svolge nel recente passato, quando ancora gli OPG esistevano.
(***) Vagamente alla Thelma e Louise.
(°) Grazie anche alla regia di Paolo Virzì, ovviamente.
(°°) Potendole stare a opportuna distanza.
Where to invade next
La definizione di documentario gli sta stretta. Lo è nel senso che ha dato al genere Michael Moore. Ovvero, se si deve scegliere tra illustrare approfonditamente i fatti, dando magari dati precisi, o ricorrere a immagini ad effetto che diano il senso di quello che Moore vuole dire, non c'è storia, si preferisce intrattenere lo spettatore, magari fargli fare una bella risata, ma restando sul vago.
Vedasi l'unico grafico mostrato nelle due ore del film. Una rappresentazione delle tasse pagate in USA e Francia con due pile di monete, senza fornire alcun numero. Dopodiché viene confrontata una busta paga francese con una americana, e si ipotizza come sarebbe quella di oltreoceano se fosse fatta allo stesso modo, e lì sì che si fanno vedere numeri, ma per pochi secondi, e senza grandi spiegazioni, solo per sottolineare quanto sia pesante la fetta di bilancio pubblico americano dedicato alle spese militari.
Il punto della storia, narrata come se a Michael Moore fosse stato dato il mandato di visitare il mondo (*) per scoprire dove andare a fare la prossima guerra, anche se solo in senso metaforico (**), con lo scopo di prendere qualcosa e portarlo a casa.
La prima tappa è l'Italia, e quindi abbiamo modo di vedere subito come le tesi di Moore siano un pochino forzate, come dice lui stesso, è interessato alle buone idee, non sta tanto a vedere il lato negativo della medaglia. Si mostra infatti come siamo fortunati noi ad avere contrattualmente un numero incredibile di giorni di vacanza, il che è comprensibile dal punto di vista americano, dove non esiste una soglia minima di giorni di ferie, e normalmente avere due settimane all'anno (sì, dieci giorni) è considerato un buon risultato. Nella lente deformata di questo "documentario" sembra che l'Italia sia una specie di paradiso, dove le occupazioni principali siano fare sesso e mangiare bene. Il che sarebbe molto bello, ma non è che sia proprio così.
Occorre quindi non lasciarsi prendere troppo dall'entusiasmo, comunque è bello vedere quante buone cose ci siano in Europa (***), e come siano percepite con stupore oltreoceano.
Se tutto il racconto è fin troppo lusinghiero per noi, il finale ribalta le cose. Lo scopo è ovviamente quello di ingraziarsi il pubblico americano per cui il film è stato pensato. Moore, infatti, afferma che tutte le buone cose che ha trovato sono in realtà invenzioni americane, di cui loro nel frattempo si sono dimenticati e di cui noi abbiamo approfittato. Il che ovviamente non è vero, ma permette allo statunitense tipo di non deprimersi troppo.
Io che già conoscevo il modo di operare di Moore non mi sono sorpreso di quel che vedevo, ho notato però che i rari altri spettatori sono rimasti perplessi dal primo capitolo, quello italiano di cui avevano conoscenza diretta, ma poi si sono lasciati prendere per mano per le narrazioni relative agli altri Stati, finendo per accettare più acriticamente le tesi.
E, secondo me, questo il brutto di questo modo di raccontare storie. Moore dovrebbe avere più coraggio, mostrare anche gli aspetti che vanno contro quelle che sono le sue convinzioni. Un documentario dovrebbe in primo luogo mostrare fatti, e semmai solo secondariamente portare le convinzioni dell'autore.
(*) In realtà solo alcuni Paesi europei e la Tunisia.
(**) Fortunatamente per noi.
(***) E in Tunisia.
Vedasi l'unico grafico mostrato nelle due ore del film. Una rappresentazione delle tasse pagate in USA e Francia con due pile di monete, senza fornire alcun numero. Dopodiché viene confrontata una busta paga francese con una americana, e si ipotizza come sarebbe quella di oltreoceano se fosse fatta allo stesso modo, e lì sì che si fanno vedere numeri, ma per pochi secondi, e senza grandi spiegazioni, solo per sottolineare quanto sia pesante la fetta di bilancio pubblico americano dedicato alle spese militari.
Il punto della storia, narrata come se a Michael Moore fosse stato dato il mandato di visitare il mondo (*) per scoprire dove andare a fare la prossima guerra, anche se solo in senso metaforico (**), con lo scopo di prendere qualcosa e portarlo a casa.
La prima tappa è l'Italia, e quindi abbiamo modo di vedere subito come le tesi di Moore siano un pochino forzate, come dice lui stesso, è interessato alle buone idee, non sta tanto a vedere il lato negativo della medaglia. Si mostra infatti come siamo fortunati noi ad avere contrattualmente un numero incredibile di giorni di vacanza, il che è comprensibile dal punto di vista americano, dove non esiste una soglia minima di giorni di ferie, e normalmente avere due settimane all'anno (sì, dieci giorni) è considerato un buon risultato. Nella lente deformata di questo "documentario" sembra che l'Italia sia una specie di paradiso, dove le occupazioni principali siano fare sesso e mangiare bene. Il che sarebbe molto bello, ma non è che sia proprio così.
Occorre quindi non lasciarsi prendere troppo dall'entusiasmo, comunque è bello vedere quante buone cose ci siano in Europa (***), e come siano percepite con stupore oltreoceano.
Se tutto il racconto è fin troppo lusinghiero per noi, il finale ribalta le cose. Lo scopo è ovviamente quello di ingraziarsi il pubblico americano per cui il film è stato pensato. Moore, infatti, afferma che tutte le buone cose che ha trovato sono in realtà invenzioni americane, di cui loro nel frattempo si sono dimenticati e di cui noi abbiamo approfittato. Il che ovviamente non è vero, ma permette allo statunitense tipo di non deprimersi troppo.
Io che già conoscevo il modo di operare di Moore non mi sono sorpreso di quel che vedevo, ho notato però che i rari altri spettatori sono rimasti perplessi dal primo capitolo, quello italiano di cui avevano conoscenza diretta, ma poi si sono lasciati prendere per mano per le narrazioni relative agli altri Stati, finendo per accettare più acriticamente le tesi.
E, secondo me, questo il brutto di questo modo di raccontare storie. Moore dovrebbe avere più coraggio, mostrare anche gli aspetti che vanno contro quelle che sono le sue convinzioni. Un documentario dovrebbe in primo luogo mostrare fatti, e semmai solo secondariamente portare le convinzioni dell'autore.
(*) In realtà solo alcuni Paesi europei e la Tunisia.
(**) Fortunatamente per noi.
(***) E in Tunisia.
Mr. Bean's holiday
Nella featurette presente nei contenuti speciali del DVD si spiega, senza girarci tanto attorno, che alla base della sceneggiatura (*) c'è Le vacanze di Monsieur Hulot (1953). Giusto omaggio al personaggio inventato da Jacques Tati che non è difficile capire sia stato nella mente di Rowan Atkinson e Richard Curtis quando hanno creato Mr. Bean. Come viene spiegato, le vacanze di Bean sono una specie di negativo (**) di quelle di Hulot. Se nel film di Tati il viaggio di Hulot porta via poco, e tutta l'azione si svolge sulla spiaggia, qui solo la scena finale è in riva al mare, tutto succede nel lungo tentativo di Bean di raggiungere la sua agognata meta.
Mr. Bean (Atkinson) lascia la sua bigia e piovosa Londra per passare una settimana nell'assolata Cannes, proprio in occasione del festival - che però a lui non interessa per niente. Come spesso gli accade, il suo piano è semplice, guidato da un unico interesse, godersi il mare e il sole, ma la sua totale incapacità di relazionarsi con chicchessia e di complicare le cose più semplici, il tutto aiutato da un destino beffardo che sembra accanirsi su di lui (***), lo trasforma in una odissea. C'è da dire che la sua scarsa conoscenza del francese non aiuta. Sa infatti una parola, oui, sfrutta la comprensibilità del no inglese, e pensa di sapere come dire grazie, ovvero gracias.
Arrivato a Parigi, perso un TGV per un paio di intoppi minori (°), gustata la raffinata cucina locale sotto l'occhio attento di un perplesso maitre (Jean Rochefort), riesce a far perdere il treno ad un famoso regista russo, il che lo mette di buon umore (°°), almeno fino a quando non si accorge che lo ha separato da suo figlio Stepan (Max Baldry). I due finiscono per legare e unire le loro forze per raggiungere Cannes, il che complica ancora di più le cose, almeno fino a quando arriva Sabine (Emma de Caunes), giovine attrice di belle speranze, che si sta recando a Cannes per far passerella e vedere la prima del film di Carson Clay (Willem Dafoe), in cui ha una minuscola particina che potrebbe però schiuderle la porta del mondo del grande cinema.
Forse è inutile dire che la direzione presa sembra quella della catastrofe assoluta generalizzata eppure, inspiegabilmente, un finale tocco di imbecillità del nostro, che sembrerebbe destinato a far precipitare completamente la situazione causando una serie di sciagure impressionanti, riesce invece a salvare la giornata di ognuno.
Finale con tutti quanti che cantano a squarciagola La mer di Charles Trenet.
(*) Di Simon McBurney, Hamish McColl e Robin Driscoll.
(**) In senso fotografico.
(***) E su chi ha la (s)ventura di incrociare il suo percorso.
(°) Per una curiosa coincidenza il taxi lo porta a La Défense invece che in stazione.
(°°) A volte Mr. Bean riesce ad essere davvero una carogna.
Mr. Bean (Atkinson) lascia la sua bigia e piovosa Londra per passare una settimana nell'assolata Cannes, proprio in occasione del festival - che però a lui non interessa per niente. Come spesso gli accade, il suo piano è semplice, guidato da un unico interesse, godersi il mare e il sole, ma la sua totale incapacità di relazionarsi con chicchessia e di complicare le cose più semplici, il tutto aiutato da un destino beffardo che sembra accanirsi su di lui (***), lo trasforma in una odissea. C'è da dire che la sua scarsa conoscenza del francese non aiuta. Sa infatti una parola, oui, sfrutta la comprensibilità del no inglese, e pensa di sapere come dire grazie, ovvero gracias.
Arrivato a Parigi, perso un TGV per un paio di intoppi minori (°), gustata la raffinata cucina locale sotto l'occhio attento di un perplesso maitre (Jean Rochefort), riesce a far perdere il treno ad un famoso regista russo, il che lo mette di buon umore (°°), almeno fino a quando non si accorge che lo ha separato da suo figlio Stepan (Max Baldry). I due finiscono per legare e unire le loro forze per raggiungere Cannes, il che complica ancora di più le cose, almeno fino a quando arriva Sabine (Emma de Caunes), giovine attrice di belle speranze, che si sta recando a Cannes per far passerella e vedere la prima del film di Carson Clay (Willem Dafoe), in cui ha una minuscola particina che potrebbe però schiuderle la porta del mondo del grande cinema.
Forse è inutile dire che la direzione presa sembra quella della catastrofe assoluta generalizzata eppure, inspiegabilmente, un finale tocco di imbecillità del nostro, che sembrerebbe destinato a far precipitare completamente la situazione causando una serie di sciagure impressionanti, riesce invece a salvare la giornata di ognuno.
Finale con tutti quanti che cantano a squarciagola La mer di Charles Trenet.
(*) Di Simon McBurney, Hamish McColl e Robin Driscoll.
(**) In senso fotografico.
(***) E su chi ha la (s)ventura di incrociare il suo percorso.
(°) Per una curiosa coincidenza il taxi lo porta a La Défense invece che in stazione.
(°°) A volte Mr. Bean riesce ad essere davvero una carogna.
10 Cloverfield Lane
Nel mio caso, povera anima a cui Cloverfield (2008) non era piaciuto per niente, la disgraziata scelta del titolo stava per ottenere l'effetto opposto di quello preventivato, allontanandomi dalla sala. Questa volta la colpa non è della distribuzione italiana, bensì della produzione. La sceneggiatura originale, infatti, era titolata The cellar (Il sotterraneo) e non aveva alcun riferimento a quel noioso finto-povero disaster movie fracassone. Poi è finito nelle mani della Bad robot di J.J. Abrams (*), e lì hanno pensato di approfittare di un possibile aggancio per dargli una maggiore visibilità commerciale.
Se dal punto di vista del rientro economico hanno probabilmente avuto ragione, come spettatore non sono molto soddisfatto della scelta sia perché finisce per essere un gigantesco spoiler, indirizzandoci a pensare che la trama vada in una certa direzione (**), sia perché ho il forte sospetto che la stesura originale (***) sia stata presa a martellate in alcune parti per adattarla alla parentela decisa in corso d'opera.
Come da primo titolo, passiamo la quasi totalità del tempo nel rifugio anti fine del mondo che un pazzo scatenato, Howard (John Goodman), ha costruito sotto la sua fattoria nel mezzo del midwest americano. Il punto di vista che seguiamo è quello di Michelle (Mary Elizabeth Winstead), che è rimasta coinvolta in un incidente stradale e si risveglia lì sotto. A rendere più movimentata l'azione c'è pure un terzo personaggio, Emmett (John Gallagher Jr.) che, forse suggestionato da Howard, ha fatto a botte con il padrone di casa per avere il privilegio di entrare in quella specie di galera interrata.
Howard sostiene che è in corso un attacco atomico, chimico, o chissà che, da parte di russi, coreani, terroristi musulmani, marziani o qualcun altro. Michelle è convinta di avere a che fare con un lunatico, e dunque ritiene che tutto quello che lui dice sia privo di fondamento. Noi, che abbiamo la fortuna di non essere direttamente implicati negli accadimenti, e che magari ci siamo visti film come Take shelter (2011) o Ipotesi di complotto (1997) dovremmo avere una posizione meno netta. Forse Howard è un maniaco alla Room (2015) con la differenza che non ha mire sessuali, "solo" un modo molto distorto di interpretare la relazione con giovani donne, ma non è detto che questo escluda che qualche disastro sia davvero successo.
Se non fosse per il deludente finale, che mi è sembrato voler ricalcare cose come Io sono leggenda (2007), saremmo stati nel territorio del thriller psicologico a basso costo con una potenziale venatura fantascientifica. E forse sarebbe stato meglio se ci si fermava lì.
(*) Accreditato tra i produttori.
(**) Ma potrebbe anche prenderne un'altra.
(***) Lavoro di Josh Campbell e Matt Stuecken.
Se dal punto di vista del rientro economico hanno probabilmente avuto ragione, come spettatore non sono molto soddisfatto della scelta sia perché finisce per essere un gigantesco spoiler, indirizzandoci a pensare che la trama vada in una certa direzione (**), sia perché ho il forte sospetto che la stesura originale (***) sia stata presa a martellate in alcune parti per adattarla alla parentela decisa in corso d'opera.
Come da primo titolo, passiamo la quasi totalità del tempo nel rifugio anti fine del mondo che un pazzo scatenato, Howard (John Goodman), ha costruito sotto la sua fattoria nel mezzo del midwest americano. Il punto di vista che seguiamo è quello di Michelle (Mary Elizabeth Winstead), che è rimasta coinvolta in un incidente stradale e si risveglia lì sotto. A rendere più movimentata l'azione c'è pure un terzo personaggio, Emmett (John Gallagher Jr.) che, forse suggestionato da Howard, ha fatto a botte con il padrone di casa per avere il privilegio di entrare in quella specie di galera interrata.
Howard sostiene che è in corso un attacco atomico, chimico, o chissà che, da parte di russi, coreani, terroristi musulmani, marziani o qualcun altro. Michelle è convinta di avere a che fare con un lunatico, e dunque ritiene che tutto quello che lui dice sia privo di fondamento. Noi, che abbiamo la fortuna di non essere direttamente implicati negli accadimenti, e che magari ci siamo visti film come Take shelter (2011) o Ipotesi di complotto (1997) dovremmo avere una posizione meno netta. Forse Howard è un maniaco alla Room (2015) con la differenza che non ha mire sessuali, "solo" un modo molto distorto di interpretare la relazione con giovani donne, ma non è detto che questo escluda che qualche disastro sia davvero successo.
Se non fosse per il deludente finale, che mi è sembrato voler ricalcare cose come Io sono leggenda (2007), saremmo stati nel territorio del thriller psicologico a basso costo con una potenziale venatura fantascientifica. E forse sarebbe stato meglio se ci si fermava lì.
(*) Accreditato tra i produttori.
(**) Ma potrebbe anche prenderne un'altra.
(***) Lavoro di Josh Campbell e Matt Stuecken.
La foresta dei sogni
Difficile che io mi veda un film senza sapere, almeno sommariamente, di che cosa si tratti. Questa volta ha fatto eccezione, non ne sapevo praticamente nulla, sono andato a vedere qualcosa solo dopo. E meno male, perché se avessi letto prima la gran massa di critiche negative, qualche dubbio sull'andare al cinema mi sarebbe venuto. Mi spiace un po' per tutti quelli coinvolti nel progetto (*) ma fino ad un certo punto capisco i numerosi detrattori di questo film. Solo parzialmente, però. Mi pare innegabile che la sceneggiatura (Chris Sparling) abbia debolezze strutturali (**) e che la regia, stilisticamente inappuntabile di Gus Van Sant, scivoli a volte sulla comicità involontaria (***). Però, ad esempio, scrivere su Wired che la visione sia sconsigliata a chi piaccia Van Sant o Matthew McConaughey mi pare davvero eccessivo.
Si narra di una coppia, i coniugi Brennan. I rapporti tra i due sono molto tesi, lui, Arthur (McConaughey) è un ricercatore scientifico che ha lasciato un lavoro ben retribuito per insegnare a quella che sembra essere una scuola superiore. Lei, Joan (Naomi Watts), ha un evidente problema di alcolismo e sembra sfruttare la testa fra le nuvole di lui come scusa per attaccarsi alla bottiglia.
Succede poi qualcosa di molto brutto, e scoprono che tutte quelle punzecchiature che si infliggevano a vicenda erano una nebbia dietro a cui si nascondeva il grande amore che ognuno dei due aveva per l'altro. Cercano di ricucire il loro rapporto ma, ohimé, il caso glielo impedisce.
C'è dunque una separazione, e noi seguiamo solo il percorso di Arthur, che decide di andare in Giappone, ad Aokigahara, una foresta ai piedi del monte Fuji meglio nota come Il mare di alberi (°) o anche come La foresta dei suicidi, in quanto è spesso scelta come destinazione finale da molti disperati. Capita però che un tale, Takumi Nakamura (Ken Watanabe), incroci il percorso di Arthur, e sia messo così male che il nostro decida di mettere da parte, almeno temporaneamente, il suo proposito per aiutarlo.
E qui le cose diventano più complicate, ed è forse meglio se io mi astenga da scrivere altro.
A mio gusto, avrei preferito se la piega spirituale seguita dalla sviluppo fosse stata perseguita con minor radicalità. Nel senso, avrei lasciato aperta una porta ad una spiegazione più triviale agli accadimenti, mentre qui alcuni elementi, in particolare quelli rivelati solo negli ultimi minuti, guidano necessariamente verso una interpretazione che, per un bieco razionalista come il sottoscritto, è duretta da digerire. Non ce ne sarebbe stato bisogno, non è poi così importante, secondo me, sapere cosa davvero sia accaduto ad Arthur nella foresta, l'importante è il cambiamento avvenuto in lui.
(*) Tra cui Pietro Scalia. Uno dei più bravi montatori al mondo, due premi Oscar, qui anche alla sua seconda esperienza come produttore.
(**) La iella dei due protagonisti ha del prodigioso, il punto del racconto avrebbe retto benissimo anche con solo la metà delle sciagure che si abbattono sulla coppia.
(***) Ci momenti in cui l'effetto comico è voluto, come il riferimento al National Geographic. Non penso però sia il caso dei mitologici gli occhiali di lui, che sembrano capaci di resistere a qualunque catastrofe.
(°) Da cui il titolo originale, The sea of trees. La versione italiana, come spesso accade, ha origine sconosciuta e sembra avere l'unico scopo di spoilerare impietosamente sulla vicenda. Il bello è che esiste una serie televisiva inglese, In the night garden..., che da noi è stata chiamata come questo film. Trattasi di programma per bimbi in età prescolare, progettato dallo stesso team creativo che ha prodotto i Teletubbies.
Si narra di una coppia, i coniugi Brennan. I rapporti tra i due sono molto tesi, lui, Arthur (McConaughey) è un ricercatore scientifico che ha lasciato un lavoro ben retribuito per insegnare a quella che sembra essere una scuola superiore. Lei, Joan (Naomi Watts), ha un evidente problema di alcolismo e sembra sfruttare la testa fra le nuvole di lui come scusa per attaccarsi alla bottiglia.
Succede poi qualcosa di molto brutto, e scoprono che tutte quelle punzecchiature che si infliggevano a vicenda erano una nebbia dietro a cui si nascondeva il grande amore che ognuno dei due aveva per l'altro. Cercano di ricucire il loro rapporto ma, ohimé, il caso glielo impedisce.
C'è dunque una separazione, e noi seguiamo solo il percorso di Arthur, che decide di andare in Giappone, ad Aokigahara, una foresta ai piedi del monte Fuji meglio nota come Il mare di alberi (°) o anche come La foresta dei suicidi, in quanto è spesso scelta come destinazione finale da molti disperati. Capita però che un tale, Takumi Nakamura (Ken Watanabe), incroci il percorso di Arthur, e sia messo così male che il nostro decida di mettere da parte, almeno temporaneamente, il suo proposito per aiutarlo.
E qui le cose diventano più complicate, ed è forse meglio se io mi astenga da scrivere altro.
A mio gusto, avrei preferito se la piega spirituale seguita dalla sviluppo fosse stata perseguita con minor radicalità. Nel senso, avrei lasciato aperta una porta ad una spiegazione più triviale agli accadimenti, mentre qui alcuni elementi, in particolare quelli rivelati solo negli ultimi minuti, guidano necessariamente verso una interpretazione che, per un bieco razionalista come il sottoscritto, è duretta da digerire. Non ce ne sarebbe stato bisogno, non è poi così importante, secondo me, sapere cosa davvero sia accaduto ad Arthur nella foresta, l'importante è il cambiamento avvenuto in lui.
(*) Tra cui Pietro Scalia. Uno dei più bravi montatori al mondo, due premi Oscar, qui anche alla sua seconda esperienza come produttore.
(**) La iella dei due protagonisti ha del prodigioso, il punto del racconto avrebbe retto benissimo anche con solo la metà delle sciagure che si abbattono sulla coppia.
(***) Ci momenti in cui l'effetto comico è voluto, come il riferimento al National Geographic. Non penso però sia il caso dei mitologici gli occhiali di lui, che sembrano capaci di resistere a qualunque catastrofe.
(°) Da cui il titolo originale, The sea of trees. La versione italiana, come spesso accade, ha origine sconosciuta e sembra avere l'unico scopo di spoilerare impietosamente sulla vicenda. Il bello è che esiste una serie televisiva inglese, In the night garden..., che da noi è stata chiamata come questo film. Trattasi di programma per bimbi in età prescolare, progettato dallo stesso team creativo che ha prodotto i Teletubbies.
The dressmaker - Il diavolo è tornato
Il riferimento a Il diavolo veste Prada ha il solo scopo di attirare spettatori distratti. La solita geniale invenzione della distribuzione nostrana che normalmente ha un effetto boomerang, visto che chi si aspetta qualcosa di completamente differente finisce per restare deluso dalle aspettative sbagliate.
La storia si svolge integralmente negli anni cinquanta in un desolato paesino nell'outback australiano, a cui fa ritorno, dopo un lungo forzato esilio, Myrtle Dunnage, che ora si fa chiamare Tilly (Kate Winslet), animata da una feroce sete di vendetta nei confronti dei suoi compaesani, e dal desiderio di accudire la sua anziana e malmessa madre, Molly Dunnage (Judy Davis), meglio nota nel circondario come La pazza.
Lo sviluppo è quello tipico di uno spaghetti western, Tilly è inizialmente sola contro tutti, però a dalla sua parte la ragione di chi ha subito un torto, trova un alleato nel prestante vicino di casa, Teddy McSwiney (Liam Hemsworth), anche lui un reietto, accettato nella comunità perché la famiglia fa un lavoro che nessuno vuol fare e perché lui è il campione della locale squadra di rugby. Da qui le cose evolvono, lei riesce a far breccia nella comunità, per arrivare con abbastanza frecce nella sua faretra per lo scontro finale.
Ci sono però alcune variazioni sostanziali. In primo luogo Tilly non è una pistolera ma una sarta. E dovrà usare la sua capacità di realizzare abiti strepitosi (*) per ottenere i suoi fini. Questo causa, ad esempio, che riuscirà a portare dalla sua parte il locale rappresentante della legge, il sergente Farrat (Hugo Weaving), sfruttando la sua fatale attrazione per il cross-dressing (**).
Alla base della sceneggiatura c'è il primo romanzo di Rosalie Ham, risalente al 2000, e che ha avuto un buon successo dalle sue parti, ma mi pare di capire abbia avuto una accoglienza molto tiepida nel resto del mondo, e credo che da noi sia stato pubblicato solo in abbinata con l'uscita del film. La traduzione in pellicola non è stata cosa semplice, risolta grazie al lavoro dei coniugi Jocelyn Moorhouse e P.J. Hogan (***), che sono riusciti a condensare in due ore l'abbondanza del materiale originale e la sua varietà di toni riuscendo ad evitare il rischio di debordare in una farsa sconclusionata.
Ad ottenere il risultato ha contribuito di certo l'ottimo cast che, oltre ai nomi sopra citati (°), include anche Sarah Snook, nel ruolo di Gertrude Pratt, poi detta Trudy. E anche la bella colonna sonora di David Hirschfelder che alterna opportunamente temi da western all'italiana a suggestioni post-minimaliste.
Il tema della vendetta contro una piccola comunità che si autorappresenta come superiore per poi mostrare di avere una lunga serie di peccati con cui dover fare i conti mi sembra sia in debito nei confronti di Friedrich Dürrenmatt, vedasi La vendetta della signora (1964), tratto da La visita della vecchia signora (1956), e con buona parte della produzione cinematografica di Lars Von Trier, come ad esempio Dogville. La mancanza di memoria di Tilly sul fatto chiave della sua infanzia che ha determinato tutta la storia mi ha ricordato L'amore molesto (1995) di Mario Martone, ma non credo che la Ham avesse avuto modo di conoscerlo. O forse sì, visto che la sceneggiatura è tratta dal romanzo omonimo di Elena Ferrante (1992) che ha avuto una buona risonanza internazionale.
(*) Il suo esilio l'ha portata a vivere e imparare l'arte in Europa, vengono espressamente citate Milano e Parigi.
(**) E non si può non ricordare come Weaving fosse al centro delle vicende narrate in Priscilla - La regina del deserto.
(***) Lui ha lavorato al testo, lei lo ha affiancato e si è concentrata sulla regia. La Moorhouse non è stata molto produttiva, causa complicazioni della sua vita privata, ma il poco che ha fatto è certamente degno di attenzione, vedasi ad esempio Istantanee.
(°) Credo che se la Winslet non avesse accettato la parte difficilmente questo film avrebbe avuto una distribuzione così diffusa.
La storia si svolge integralmente negli anni cinquanta in un desolato paesino nell'outback australiano, a cui fa ritorno, dopo un lungo forzato esilio, Myrtle Dunnage, che ora si fa chiamare Tilly (Kate Winslet), animata da una feroce sete di vendetta nei confronti dei suoi compaesani, e dal desiderio di accudire la sua anziana e malmessa madre, Molly Dunnage (Judy Davis), meglio nota nel circondario come La pazza.
Lo sviluppo è quello tipico di uno spaghetti western, Tilly è inizialmente sola contro tutti, però a dalla sua parte la ragione di chi ha subito un torto, trova un alleato nel prestante vicino di casa, Teddy McSwiney (Liam Hemsworth), anche lui un reietto, accettato nella comunità perché la famiglia fa un lavoro che nessuno vuol fare e perché lui è il campione della locale squadra di rugby. Da qui le cose evolvono, lei riesce a far breccia nella comunità, per arrivare con abbastanza frecce nella sua faretra per lo scontro finale.
Ci sono però alcune variazioni sostanziali. In primo luogo Tilly non è una pistolera ma una sarta. E dovrà usare la sua capacità di realizzare abiti strepitosi (*) per ottenere i suoi fini. Questo causa, ad esempio, che riuscirà a portare dalla sua parte il locale rappresentante della legge, il sergente Farrat (Hugo Weaving), sfruttando la sua fatale attrazione per il cross-dressing (**).
Alla base della sceneggiatura c'è il primo romanzo di Rosalie Ham, risalente al 2000, e che ha avuto un buon successo dalle sue parti, ma mi pare di capire abbia avuto una accoglienza molto tiepida nel resto del mondo, e credo che da noi sia stato pubblicato solo in abbinata con l'uscita del film. La traduzione in pellicola non è stata cosa semplice, risolta grazie al lavoro dei coniugi Jocelyn Moorhouse e P.J. Hogan (***), che sono riusciti a condensare in due ore l'abbondanza del materiale originale e la sua varietà di toni riuscendo ad evitare il rischio di debordare in una farsa sconclusionata.
Ad ottenere il risultato ha contribuito di certo l'ottimo cast che, oltre ai nomi sopra citati (°), include anche Sarah Snook, nel ruolo di Gertrude Pratt, poi detta Trudy. E anche la bella colonna sonora di David Hirschfelder che alterna opportunamente temi da western all'italiana a suggestioni post-minimaliste.
Il tema della vendetta contro una piccola comunità che si autorappresenta come superiore per poi mostrare di avere una lunga serie di peccati con cui dover fare i conti mi sembra sia in debito nei confronti di Friedrich Dürrenmatt, vedasi La vendetta della signora (1964), tratto da La visita della vecchia signora (1956), e con buona parte della produzione cinematografica di Lars Von Trier, come ad esempio Dogville. La mancanza di memoria di Tilly sul fatto chiave della sua infanzia che ha determinato tutta la storia mi ha ricordato L'amore molesto (1995) di Mario Martone, ma non credo che la Ham avesse avuto modo di conoscerlo. O forse sì, visto che la sceneggiatura è tratta dal romanzo omonimo di Elena Ferrante (1992) che ha avuto una buona risonanza internazionale.
(*) Il suo esilio l'ha portata a vivere e imparare l'arte in Europa, vengono espressamente citate Milano e Parigi.
(**) E non si può non ricordare come Weaving fosse al centro delle vicende narrate in Priscilla - La regina del deserto.
(***) Lui ha lavorato al testo, lei lo ha affiancato e si è concentrata sulla regia. La Moorhouse non è stata molto produttiva, causa complicazioni della sua vita privata, ma il poco che ha fatto è certamente degno di attenzione, vedasi ad esempio Istantanee.
(°) Credo che se la Winslet non avesse accettato la parte difficilmente questo film avrebbe avuto una distribuzione così diffusa.
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