Con il senno di poi è facile notare come il ribaltamento della relazione tra Sherlock Holmes (Jonny Lee Miller) e la dottoressa Watson (Lucy Liu) fosse potenzialmente presente sin dal pilot della serie. Con una calcolata lentezza lo abbiamo visto svilupparsi per una quindicina di episodi e infine nel sedicesimo capitolo abbiamo avuto la conferma. Watson non è più stipendiata da Holmes senior (*) ma è diventata una apprendista consulting detective che prende lezioni da Holmes junior. La cosa non mi soddisfa, ma almeno ci siamo tolti un tema ricorrente che cominciava ad essere più un peso che una attrattiva.
Abbiamo dunque uno Sherlock che fa il maestro e propina all'allieva una serie di compiti che, secondo il suo punto di vista, dovrebbero servire a risvegliare le capacità investigative in lei. L'effetto che ho avuto è stato quello di rivedere le lezioni di karate che Miyagi (Pat Morita) dava al karate kid Daniel (Ralph Macchio) nel noto film del 1984 (**).
Il caso principale mi è sembrato troppo complesso e improbabile per riuscirmi interessante. Un tale super-ricco scopre di avere un raro malanno che è di origine ereditaria, lo strano è che lui non ha nessuno in famiglia con lo stesso problema. E dunque ritiene che qualcuno, chissà come, lo abbia infettato. Watson, però, che più che un ex medico sembra spesso una biblioteca medica ambulante, nota che tra gli effetti collaterali della malattia c'è anche una crescente paranoia, che porta a sospettare tutto di tutti. Sherlock decide perciò che non può seguire il caso, in quanto non sente di poterne dare una soluzione soddisfacente.
Cose che succedono dopo lo spingono a cambiare idea, indagare, e trovare una sorprendente, per quanto arzigogolata, soluzione.
(*) Particolare inquietante, non abbiamo nessuna prova dell'esistenza di questo personaggio. Per quanto ne sappiamo potrebbe essere il parto della fantasia malata di Sherlock.
(**) Per chi non fosse interessato al cinema del secolo scorso è disponibile anche un remake sostanzialmente equivalente datato 2010.
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