Joe Wright torna in carreggiata dopo il non etusiasmante Pan, richiamandosi al suo precedente Espiazione (*) ed affidandosi ad una prova d'attore eccellente, ad opera di un Gary Oldman che riesce, grazie anche ad un supporto al trucco molto efficace, a rendere in modo a tratti stupefacente Winston Churchill. Molto brava anche Kristin Scott Thomas (moglie), efficaci anche gli altri comprimari, anche se a loro restano poco più che le briciole. Ha un poco più di spazio Lily James, nel ruolo della dattilografa che ha l'improbo compito di mettere su carta quello che le detta Churchill.
Il fuoco dell'azione è il breve periodo in cui Churchill assume la carica di primo ministro in un momento in cui nessuno se la sente di farlo. La Germania nazista è sul punto di mangiarsi l'intera Europa continentale, digerendosi nell'atto praticamente l'intero esercito inglese, schierato in quel momento in Francia. Viene fatto capire che l'idea del suo maggior nemico interno, il visconte Halifax, sarebbe quella di lasciarlo friggere nella situazione impossibile, per poi entare in gioco come salvatore della patria proponendo una umiliante resa che però possa evitare guai peggiori.
Le cose andranno ovviamente in maniera diversa, e dovremmo ben saperlo tutti, ma la narrazione è tale da tenere inchiodati per le due ore per vedere come la matassa verrà sgarbugliata.
Ovvio il riferimento a Dunkirk, che ci mostra fondamentalmente la stessa cosa ma dal punto di vista delle persone fuori dalle stanze del potere, e a Il discorso del re, dove lo spazio se lo mangia quasi tutto re Giorgio VI.
Come al solito, ottimo il lavoro di Dario Marianelli alla colonna sonora, che gioca benissimo in accordo alla regia di Wright.
Cine BlaBla
Morto Stalin se ne fa un altro
Come spiegato icasticamente dal titolo (*) si racconta della morte del Baffone sovietico, preceduta da un prologo in cui veniamo resi edotti del terrore che dominava la società del tempo, e seguita dalla lotta di potere che ne seguì. Sapendo che si tratta di un film di Armando Iannucci (**), il tono narrativo usato non dovrebbe sorprenderci, e infatti si satirizza senza risparmio sul potere e su chi lo mette al centro della propria vita.
Se nel prologo vediamo come anche solo trasmettere un concerto di musica classica da Radio Mosca poteva essere un'esperienza da perderci la testa, almeno per il responsabile del programma (Paddy Considine), nel proseguio assistiamo ad una lotta per il potere senza esclusione di colpi tra due partiti, uno capeggiato dal terribile Beria (Simon Russell Beale), l'altro dall'apparentemente inconsistente Nikita Chruščёv (Steve Buscemi). Il primo riesce a legare a sé Georgy Malenkov (Jeffrey Tambor), ufficialmente seconda carica del Partito e quindi nella posizione di succedere, almeno temporaneamente, al Piccolo Padre, in realtà un imbecille incapace di avere un qualunque sentore su cosa stia succedendo. Il secondo trama per costruire una qualche rete di protezione contro quello che potrebbe essere lo strapotere del suo avversario, ma si scontra con una specie di ipnosi collettiva che avvolge i suoi colleghi, vedasi ad esempio il ministro degli esteri Molotov (Michael Palin), che avrebbe dovuto essere morto per effetto dell'ultima purga staliniana, e che già avrebbe dovuto essere vedovo in seguito ad una precedente epurazione, e che nonostante questo mantiene una limpida quanto inesplicabile linea stalinista.
A indebolire la apparente inattaccabile posizione di Beria ci pensa lui stesso, abusando del proprio potere di capo del NKVD (***) scontentando l'esercito, che vediamo rappresentato nella figura del generale Zhukov (Jason Isaacs °), eroe dell'Armata Rossa nella seconda guerra mondiale, e facendo balenare agli altri elementi del comitato l'ipotesi di fare a breve una bruttissima fine, se e quando ne avesse la possibilità.
Svariati colpi di scena, e di pistola, cambiano più volte gli equilibri in campo, fino ad una soluzione che però sappiamo già avere al suo interno i germi per un ulteriore ribaltamento.
Difficilmente chi è ancora legato al mito stalinista gradirà la pellicola, ma questo non credo che sorprenderà nessuno. Meno chiara mi è sembrata la critica al film che ho sentito da parte di chi lo ha trovato non abbastanza rispettoso delle vittime di quella drammatica pagina di Storia. A mio parere Iannucci ha bilanciato adeguatamente gli aspetti tragici e quelli comici, e pur ridendo spesso delle battute e situazioni non ho potuto fare a meno dal rabbrividire per gli accadimenti mostrati spesso solo sullo sfondo.
(*) Meglio ancora il più asciutto originale The death of Stalin, traduzione letterale di quello della fonte su cui è basata la sceneggiatura, la graphic novel francese La mort de Staline.
(**) Vedasi In the loop (2009) e la precedente serie televisiva, due stagioni e uno speciale The thick of it (2005-2007).
(***) Quello che poi diventerà il KGB.
(°) Hello!
Se nel prologo vediamo come anche solo trasmettere un concerto di musica classica da Radio Mosca poteva essere un'esperienza da perderci la testa, almeno per il responsabile del programma (Paddy Considine), nel proseguio assistiamo ad una lotta per il potere senza esclusione di colpi tra due partiti, uno capeggiato dal terribile Beria (Simon Russell Beale), l'altro dall'apparentemente inconsistente Nikita Chruščёv (Steve Buscemi). Il primo riesce a legare a sé Georgy Malenkov (Jeffrey Tambor), ufficialmente seconda carica del Partito e quindi nella posizione di succedere, almeno temporaneamente, al Piccolo Padre, in realtà un imbecille incapace di avere un qualunque sentore su cosa stia succedendo. Il secondo trama per costruire una qualche rete di protezione contro quello che potrebbe essere lo strapotere del suo avversario, ma si scontra con una specie di ipnosi collettiva che avvolge i suoi colleghi, vedasi ad esempio il ministro degli esteri Molotov (Michael Palin), che avrebbe dovuto essere morto per effetto dell'ultima purga staliniana, e che già avrebbe dovuto essere vedovo in seguito ad una precedente epurazione, e che nonostante questo mantiene una limpida quanto inesplicabile linea stalinista.
A indebolire la apparente inattaccabile posizione di Beria ci pensa lui stesso, abusando del proprio potere di capo del NKVD (***) scontentando l'esercito, che vediamo rappresentato nella figura del generale Zhukov (Jason Isaacs °), eroe dell'Armata Rossa nella seconda guerra mondiale, e facendo balenare agli altri elementi del comitato l'ipotesi di fare a breve una bruttissima fine, se e quando ne avesse la possibilità.
Svariati colpi di scena, e di pistola, cambiano più volte gli equilibri in campo, fino ad una soluzione che però sappiamo già avere al suo interno i germi per un ulteriore ribaltamento.
Difficilmente chi è ancora legato al mito stalinista gradirà la pellicola, ma questo non credo che sorprenderà nessuno. Meno chiara mi è sembrata la critica al film che ho sentito da parte di chi lo ha trovato non abbastanza rispettoso delle vittime di quella drammatica pagina di Storia. A mio parere Iannucci ha bilanciato adeguatamente gli aspetti tragici e quelli comici, e pur ridendo spesso delle battute e situazioni non ho potuto fare a meno dal rabbrividire per gli accadimenti mostrati spesso solo sullo sfondo.
(*) Meglio ancora il più asciutto originale The death of Stalin, traduzione letterale di quello della fonte su cui è basata la sceneggiatura, la graphic novel francese La mort de Staline.
(**) Vedasi In the loop (2009) e la precedente serie televisiva, due stagioni e uno speciale The thick of it (2005-2007).
(***) Quello che poi diventerà il KGB.
(°) Hello!
Blade runner 2049
Sono passati trenta anni e Deckard (Harrison Ford) non sa ancora bene se è un replicante o un umano a tutti gli effetti. Lui, comunque, sembra aver messo da parte il problema e ha deciso indipendentemente da quale sia la risposta la sua via, che consiste fondamentalmente nel tenersi lontano da tutto e tutti - il che ha l'effetto collaterale di farlo apparire in scena solo molto avanti nell'azione. A spiegagli come sono andate le cose potrebbe essere Wallace (Jared Leto), big boss dell'azienda omonima che ha assorbito la Tyrell. Trattandosi però di torbido personaggio, si limita a pungolare il nostro vecchio blade runner, pensando probabilmente di spingerlo a dire o fare qualcosa di sbagliato. Niente da fare, Deckard è una pellaccia, e seguirà la sua strada senza deviazioni.
Al centro della storia, però, c'è un altro blade runner, che risponde al kafkiano nome di K (Ryan Gosling). Costui non ha il dilemma di Deckard, sa bene di essere un replicante, epperò spera in un qualcosa di apparentemente impossibile che, sorprendentemente, scopriamo essere effettivamente avvenuto, anche se non si capisce bene se e quanto questo lo coinvolga davvero (*).
Se nell'originale il tema dominante quanto i replicanti dovessero essere considerati umani a tutti gli effetti o se potessero essere "ritirati" senza starci a pensare tanto sopra quando non più utili, ora questa sembra essere rimasta solo una scusa degli umani per mantenere la loro posizione di potere. Il punto chiave qui è trovare il modo di fare cadere le deboli argomentazioni umane. Anche la tecnologia ha cospirato ad indebolire la posizione umana, con le intelligenze artificiali, vedasi in particolare
Joi (Ana de Armas), che pur partendo da un setup iniziale di puro sfruttamento (**) evolve in qualcosa di molto più umano.
Ottima la regia di Denis Villeneuve che non mi ha fatto per niente rimpiangere la decisione di Ridley Scott di occuparsi solo della produzione, che mi sembra di aver capito sia il ruolo che più gli piace tenere. Molto adatta anche la colonna sonora, del solito Hans Zimmer.
(*) Apparentemente il finale dà una risposta definitiva sulla questione. Viene lasciato solo un piccolo spiraglio aperto, in modo da lasciare la massima libertà a chi scriverà il seguito, se si deciderà di farlo.
(**) L'incontro ravvicinato tra K e la gigantesca versione pubblicitaria di Joi ci chiarisce di quella che era l'idea del produttore, la si confronti con la "vera" Joi di K per notare gli imprevisti sviluppi.
Al centro della storia, però, c'è un altro blade runner, che risponde al kafkiano nome di K (Ryan Gosling). Costui non ha il dilemma di Deckard, sa bene di essere un replicante, epperò spera in un qualcosa di apparentemente impossibile che, sorprendentemente, scopriamo essere effettivamente avvenuto, anche se non si capisce bene se e quanto questo lo coinvolga davvero (*).
Se nell'originale il tema dominante quanto i replicanti dovessero essere considerati umani a tutti gli effetti o se potessero essere "ritirati" senza starci a pensare tanto sopra quando non più utili, ora questa sembra essere rimasta solo una scusa degli umani per mantenere la loro posizione di potere. Il punto chiave qui è trovare il modo di fare cadere le deboli argomentazioni umane. Anche la tecnologia ha cospirato ad indebolire la posizione umana, con le intelligenze artificiali, vedasi in particolare
Joi (Ana de Armas), che pur partendo da un setup iniziale di puro sfruttamento (**) evolve in qualcosa di molto più umano.
Ottima la regia di Denis Villeneuve che non mi ha fatto per niente rimpiangere la decisione di Ridley Scott di occuparsi solo della produzione, che mi sembra di aver capito sia il ruolo che più gli piace tenere. Molto adatta anche la colonna sonora, del solito Hans Zimmer.
(*) Apparentemente il finale dà una risposta definitiva sulla questione. Viene lasciato solo un piccolo spiraglio aperto, in modo da lasciare la massima libertà a chi scriverà il seguito, se si deciderà di farlo.
(**) L'incontro ravvicinato tra K e la gigantesca versione pubblicitaria di Joi ci chiarisce di quella che era l'idea del produttore, la si confronti con la "vera" Joi di K per notare gli imprevisti sviluppi.
La ruota delle meraviglie
Un estate negli anni cinquanta. Mickey (Justin Timberlake) fa il bagnino a Coney Island per raggranellare i soldi che gli servono per andare all'università. Ha qualche annetto di più di un normale studente, ma pare che costui abbia girato il mondo per conto dell'esercito. Dico "pare", perché lui stesso (che gran parte del tempo parla a noi direttamente) ammette di essere poco affidabile in quello che dice, avendo una tendenza verso il melodramma.
Ci narra dunque una storia, che pare essere quella di Carolina (Juno Temple), che si è sposata giovanissima ad un delinquente italoamericano, da cui ora è in fuga. Ha deciso quindi di tornare dal padre, il giostraio Humpty (Jim Belushi), con cui aveva bruscamente rotto per scappare con il suo bello. Nel frattempo Humpty si è risposato con Ginny (Kate Winslet), ex attrice di secondo piano, a sua volta divorziata con figlio piromane, costretta a fare la cameriera per tirare avanti.
Cambio improvviso di prospettiva, e ora la protagonista sembra essere Ginny, che tradisce Humpty proprio con Mickey, che vede come sua via di uscita da quello che le sembra essere un vicolo cieco. O forse il protagonista è Mickey, con tutte le sue incertezze su Ginny, di cui è innamorato, ma forse anche no.
Trattasi di storia piuttosto complessa, e non invidio i miei vicini di posto al cinema, che hanno delegato la scelta del film a uno del gruppo, non aspettandosi un Woody Allen tragico. A dire il vero, visto che alcuni del gruppo sostenevano che sarebbe stato meglio per loro puntare su di un cinepanettone, probabilmente anche un Woody Allen comico non sarebbe stato adatto a loro. E insomma, un minimo di preparazione prima di comprare il biglietto!
Ci narra dunque una storia, che pare essere quella di Carolina (Juno Temple), che si è sposata giovanissima ad un delinquente italoamericano, da cui ora è in fuga. Ha deciso quindi di tornare dal padre, il giostraio Humpty (Jim Belushi), con cui aveva bruscamente rotto per scappare con il suo bello. Nel frattempo Humpty si è risposato con Ginny (Kate Winslet), ex attrice di secondo piano, a sua volta divorziata con figlio piromane, costretta a fare la cameriera per tirare avanti.
Cambio improvviso di prospettiva, e ora la protagonista sembra essere Ginny, che tradisce Humpty proprio con Mickey, che vede come sua via di uscita da quello che le sembra essere un vicolo cieco. O forse il protagonista è Mickey, con tutte le sue incertezze su Ginny, di cui è innamorato, ma forse anche no.
Trattasi di storia piuttosto complessa, e non invidio i miei vicini di posto al cinema, che hanno delegato la scelta del film a uno del gruppo, non aspettandosi un Woody Allen tragico. A dire il vero, visto che alcuni del gruppo sostenevano che sarebbe stato meglio per loro puntare su di un cinepanettone, probabilmente anche un Woody Allen comico non sarebbe stato adatto a loro. E insomma, un minimo di preparazione prima di comprare il biglietto!
Paddington 2
Secondo episodio delle avventure dell'impossibile orsetto peruviano trasferitosi a Londra. La breve introduzione, oltre a spiegare tutto quel che serve allo spettatore che si fosse dimenticato cos'era successo nella prima puntata, ci racconta anche un particolare che non era stato chiarito, ovvero come Paddington era entrato a far parte della sua prima famiglia adottiva.
La storia verte sul desiderio dell'orsetto di fare un degno regalo a sua zia Lucy, in occasione del suo centesimo compleanno. Non sembrerebbe un gran problema, eppure questo scatenerà una serie di eventi che porterà il nostro piccolo plantigrado addirittura in galera.
Il ruolo del supercattivo viene occupato questa volta da uno spassoso Hugh Grant che non teme di impersonare un attore a cui è rimasto solo il ricordo del passato, ma che continua ad essere eccessivamente pieno di sé. Ha meno spazio, ma altrettanto succoso, Brendan Gleeson, terribile galeotto che sembra aldilà di ogni possibile redenzione.
Il target è sempre quello dei ragazzini che potrebbero riconoscersi nei fratelli adottivi dell'orso, e questo giustifica una certa leggerezza nella realizzazione. Il risultato m'è sembrato comunque apprezzabile per tutte le età. A patto di sapere a cosa si sta andando incontro, si intende.
La storia verte sul desiderio dell'orsetto di fare un degno regalo a sua zia Lucy, in occasione del suo centesimo compleanno. Non sembrerebbe un gran problema, eppure questo scatenerà una serie di eventi che porterà il nostro piccolo plantigrado addirittura in galera.
Il ruolo del supercattivo viene occupato questa volta da uno spassoso Hugh Grant che non teme di impersonare un attore a cui è rimasto solo il ricordo del passato, ma che continua ad essere eccessivamente pieno di sé. Ha meno spazio, ma altrettanto succoso, Brendan Gleeson, terribile galeotto che sembra aldilà di ogni possibile redenzione.
Il target è sempre quello dei ragazzini che potrebbero riconoscersi nei fratelli adottivi dell'orso, e questo giustifica una certa leggerezza nella realizzazione. Il risultato m'è sembrato comunque apprezzabile per tutte le età. A patto di sapere a cosa si sta andando incontro, si intende.
Assassinio sull'Orient Express
Il bello di vedere un film giallo che si sa già come va a finire è che si può lasciare che chi di dovere si occupi delle investigazioni, mentre noi ci occupiamo degli aspetti solitamente considerati secondari. Lo stesso dicesi per chi sta dall'altra parte dello schermo. Se la tensione sul fatto di sangue non è poi così importante, si può dare più enfasi ad altri elementi della storia.
Il grosso problema di questa storia di Agatha Christie sta nel cospicuo numero di sospettati. Praticamente un intero vagone di prima classe dell'Orient Express partito da Istanbul è sospettato dello strano omicidio del sordido affarista americano Ratchett (Johnny Depp). Una dozzina di personaggi che potrebbero rendere la narrazione frammentaria e poco godibile. Fortuna che la regia (Kenneth Branagh) e l'alto tasso medio di professionalità del cast evitano il rischio. Così quasi tutti riescono a tratteggiare il proprio personaggio efficacemente nonostante i pochi minuti a disposizione. Invero nemmeno Hercule Poirot (ancora Kenneth Branagh) ha moltissimo tempo per dirci molto di lui, ma scopriamo come il nostro uomo viva il suo dono investigativo come una dannazione. Il fatto è che non riesce ad accettare l'imperfezione del nostro mondo, la sua mancanza di bilanciamento, e questo, che gli rende spesso impossibile anche fare una semplice colazione, gli ritorna utile nello scoprire i buchi logici nei piani dei delinquenti con cui ha a che fare.
Questo caso, però, non è come gli altri. Al povero Poirot deve essere sembrato un inferno. Nessuno si comporta correttamente, tutti mentono, tutti hanno lati oscuri, eppure nessuno sembra essere un assassino. Riuscirà, nonostante tutto, a trovare il bandolo della matassa?
Il grosso problema di questa storia di Agatha Christie sta nel cospicuo numero di sospettati. Praticamente un intero vagone di prima classe dell'Orient Express partito da Istanbul è sospettato dello strano omicidio del sordido affarista americano Ratchett (Johnny Depp). Una dozzina di personaggi che potrebbero rendere la narrazione frammentaria e poco godibile. Fortuna che la regia (Kenneth Branagh) e l'alto tasso medio di professionalità del cast evitano il rischio. Così quasi tutti riescono a tratteggiare il proprio personaggio efficacemente nonostante i pochi minuti a disposizione. Invero nemmeno Hercule Poirot (ancora Kenneth Branagh) ha moltissimo tempo per dirci molto di lui, ma scopriamo come il nostro uomo viva il suo dono investigativo come una dannazione. Il fatto è che non riesce ad accettare l'imperfezione del nostro mondo, la sua mancanza di bilanciamento, e questo, che gli rende spesso impossibile anche fare una semplice colazione, gli ritorna utile nello scoprire i buchi logici nei piani dei delinquenti con cui ha a che fare.
Questo caso, però, non è come gli altri. Al povero Poirot deve essere sembrato un inferno. Nessuno si comporta correttamente, tutti mentono, tutti hanno lati oscuri, eppure nessuno sembra essere un assassino. Riuscirà, nonostante tutto, a trovare il bandolo della matassa?
The square
Perdinci, causa improvviso attacco di pigrizia, ho accumulato una lista di film visti e non riportati nel blog. Fortuna che la suddetta pigrizia si è riverberata pure sulle visioni, e così la lista non è poi così lunga. Iniziamo dal fondo, lo scorso weekend ho visto il film dello svedese Ruben Östlund (*), palma d'oro a Cannes, probabile candidato agli Oscar a venire.
Christian (Claes Bang) è apparentemente nel pieno della forma e del successo. Dirige un museo d'arte moderna a Stoccolma (**), ha evidentemente un lauto stipendio e una certa considerazione nel bel mondo. Scopriremo nel proseguio della storia che è in realtà un blade runner (***), nel senso che sta correndo da tempo sull'orlo del precipizio, e basterebbe un nulla a farlo cadere. Come sarebbe lecito attendersi, questo accade, nella veste di un bizzarro furto che il nostro subisce. La sua meccanica è così curiosa da far pensare che si tratti di una installazione, una di quelle che Christian potrebbe ospitare nel suo museo, ma a lui sfugge l'ironia del fatto e diventa morbosamente fissato sul recuperare quello che gli è stato sottratto. Distrazione fatale che gli causa una serie di contrattempi, portandolo ad una catastrofe.
Non è una tragedia, e quindi le conseguenze non saranno troppo pesanti, ma non è nemmeno una commedia, e dunque non è che si rida molto, almeno durante la proiezione. Trattasi piuttosto di una satira, sul mondo dell'arte moderna e un po' su tutta la gente che le gira attorno.
Avrei preferito uno svolgimento più snello, credo che si sarebbe tranquillamente potuta tagliare una mezz'oretta di pellicola, ma ho comunque apprezzato il curioso senso dell'umorismo dell'autore che mi ha lasciato più perplesso che divertito al momento, e che è poi riemerso con il passare del tempo.
(*) Per me uno sconosciuto. Il suo precedente Forza maggiore (2014) era già stato premiato a Cannes - ma nella selezione Un certain regard, ed era anche piaciuto oltreoceano, da cui, immagino, le maggiori ambizioni di questa volta.
(**) Ovviamente finto, non credo che nessun museo avrebbe accettato di essere rappresentato come si vede qui. Si finge che i regnanti locali abbiano ceduto parte del loro palazzo nel centro città per questa iniziativa.
(***) Del vero Blade runner 2049 parlerò in altro post, spero presto.
Christian (Claes Bang) è apparentemente nel pieno della forma e del successo. Dirige un museo d'arte moderna a Stoccolma (**), ha evidentemente un lauto stipendio e una certa considerazione nel bel mondo. Scopriremo nel proseguio della storia che è in realtà un blade runner (***), nel senso che sta correndo da tempo sull'orlo del precipizio, e basterebbe un nulla a farlo cadere. Come sarebbe lecito attendersi, questo accade, nella veste di un bizzarro furto che il nostro subisce. La sua meccanica è così curiosa da far pensare che si tratti di una installazione, una di quelle che Christian potrebbe ospitare nel suo museo, ma a lui sfugge l'ironia del fatto e diventa morbosamente fissato sul recuperare quello che gli è stato sottratto. Distrazione fatale che gli causa una serie di contrattempi, portandolo ad una catastrofe.
Non è una tragedia, e quindi le conseguenze non saranno troppo pesanti, ma non è nemmeno una commedia, e dunque non è che si rida molto, almeno durante la proiezione. Trattasi piuttosto di una satira, sul mondo dell'arte moderna e un po' su tutta la gente che le gira attorno.
Avrei preferito uno svolgimento più snello, credo che si sarebbe tranquillamente potuta tagliare una mezz'oretta di pellicola, ma ho comunque apprezzato il curioso senso dell'umorismo dell'autore che mi ha lasciato più perplesso che divertito al momento, e che è poi riemerso con il passare del tempo.
(*) Per me uno sconosciuto. Il suo precedente Forza maggiore (2014) era già stato premiato a Cannes - ma nella selezione Un certain regard, ed era anche piaciuto oltreoceano, da cui, immagino, le maggiori ambizioni di questa volta.
(**) Ovviamente finto, non credo che nessun museo avrebbe accettato di essere rappresentato come si vede qui. Si finge che i regnanti locali abbiano ceduto parte del loro palazzo nel centro città per questa iniziativa.
(***) Del vero Blade runner 2049 parlerò in altro post, spero presto.
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