Frankenstein Junior

Girato come se fosse un film degli anni '30, in bianco e nero, con forti contrasti tra luci ed ombre, è una riscrittura in chiave comica dei film horror di quel periodo incentrati sulla figura di Frankenstein e del suo mostro.

La regia (Mel Brooks) e la sceneggiatura (Gene Wilder e lo stesso Brooks) cadono quindi felicemente negli errori tipici dei B-movie di quel periodo, usando effetti speciali risibili e caratterizzazioni incongruenti.

Il protagonista della vicenda qui narrata è un Frederick Frankenstein (Gene Wilder), nipote del famoso Frankenstein, che nulla vuole avere a che fare col nonno. Vive a New York, dove ha una brillante carriera universitaria, e sottolinea sempre che il suo cognome si pronuncia con uno "stiin" finale (all'americana) e non "schtain" (alla tedesca). È sul punto di sposarsi con una viziatissima ereditiera (Madeline Kahn) a cui sembra essere interessato principalmente come via per entrare nell'alta società americana, ma giunge la notizia che il nonno è morto, lasciandolo erede universale.

Nonostante che Mary Shelley avesse ben chiarito che i Frankenstein erano svizzeri da molte generazioni, in questa versione Frankenstein Senior era invece transilvano, e viveva in un castello dominante su un villaggetto popolato da bifolchi di origine germanica che il suo mostro aveva messo in subbuglio anni prima. Vien da pensare che la storia della Shelley sia stata incrociata con quella del conte Dracula di Bram Stoker, forse, pensando ai film anni trenta di riferimento, per risparmiare sulle scenografie.

Il giovane Frankenstein prima nicchia, poi accetta l'eredità. Il castello è fornito di servitù, il fedele (?) assistente Igor (Marty Feldman), gobbo variabile che ci tiene a farsi chiamare Aigor (per prendere in giro il padrone "stiin"), la bella Inga e la spaventosa Frau Blücher. Le atmosfere del posto convinceranno il nipote a riprendere gli studi del nonno, e a creare un nuovo mostro (Peter Boyle) a cui, per errore di Igor, viene dato un cervello subnormale.

Il povero mostro ne subisce di tutti i colori, incontra persino un monaco cieco (Gene Hackman) che lo ustiona in vari modi senza rendersene conto. Cercando di renderlo simpatico, il buon dottore lo presenta alla comunità scientifica facendogli ballare il tip tap alla Fred Astaire, ma il tentativo si risolve in una catastrofe.

Nel frattempo giunge al castello anche la fidanzata americana, che viene rapita dal mostro. Rapido corteggiamento, e tra i due scocca la scintilla fatale. Il che casca a fagiolo per Frankenstein, che nel frattempo si è innamorato della bella assistente.

Resta da risolvere il problema della popolazione inferocita che vuole la morte del mostro. Il dottore ha un rimedio pronto, una connessione tra il suo cervello e quello della sua creatura. Incredibilmente, l'accrocchio funziona, e il mostro diventa eloquente al punto da convincere la torma inferocita a più miti propositi. Dallo scambio ci guadagnerà qualcosa anche Frankenstein.

Alcune battute nel doppiaggio italiano si perdono, a causa della loro intraducibilità, e i traduttori hanno dovuto fare i salti mortali per rendere in qualche modo discorsi che virano sull'assurdo. Ad esempio, nell'arrivo al castello in carrozza di Frankenstein, si perde un accenno ad un lupo mannaro (werewolf) che in originale Igor annulla interpretando l'affermazione come infantile gioco di parole del dottore (where wolf? there wolf, there castle - dove lupo? là lupo, lì castello). In italiano, invece, sembra che Igor sia patito per bizzarri giochi di parole (lupo ululà, castello ululì).

Il fatto che, nonostante gli aggiustamenti, la comicità passi nella traduzione credo sia dovuto alla notevole espressività degli attori, in particolare dell'indimenticabile Marty Feldman.

Paradiso amaro

Seconda visione, questa volta televisiva, ad un anno di distanza dall'Oscar per la migliore sceneggiatura non originale.

Già mi era piaciuto la prima volta, a rivederlo ho apprezzato ancora di più la solida sceneggiatura, l'autorevole regia (Alexander Payne, anche co-sceneggiatore), e il lavoro attoriale del cast, in particolare del protagonista, George Clooney.

Curioso vedere Hononulu, nelle Hawaii, come una qualunque metropoli americana, stessi grattacieli, stesso traffico, stessi problemi, graziata solo dal clima tropicale.

La storia, tendenzialmente drammatica, viene svolta con leggerezza, anche con tratti da commedia, e viene sviluppata in modo non banale, approfondendo adeguatamente il carattere dei vari personaggi.

Piacevole la colonna sonora, che direi essere composta solo da canzoni locali.

Bello il finale, in cui la famiglia ritrovata siede in poltrona, mangiando gelato e guardando un documentario sui pinguini. Hanno trovato una vita, forse noiosetta, ma con una sorta di stabilità.

Anna Karenina

Lei (Keira Knightley) è sposata a un noioso burocrate (Jude Law), un giorno incappa nel ragazzetto tutto chiacchiere e distintivo (anzi, divisa) di cui è innamorata la nipote Kitty, il quale le fa capire di preferire la zia. Dopo qualche titubanza, lei cede al GAR (vedi per dettagli la spiegazione de Il Bibliofilo, che include anche un parallelo con la vicenda di Madame Bovary) con le funeste conseguenze che, per l'appunto, ne conseguono.

La base della storia è fornita dal romanzo di Tolstoi, trasposto un gran numero di volte sia per il cinema sia per la televisione. Ma questa versione, diretta da Joe Wright, usa un adattamento di Tom Stoppard che riesce a dire qualcosa di diverso, cambiando qualche dettaglio e il punto di vista.

In particolare viene sottolineata la contrapposizione tra la vuotezza della vita della Karenina, e di tutto il mondo che le gira attorno, e quella di Konstantin Levin, un nobile di campagna amico del fratello di Anna, innamorato di Kitty, e da lei rifiutato. L'espediente scenico è quello di mostrare gli accadimenti del bel mondo aristocratico come se avvenissero su di un palco teatrale, un effetto che mi ha fatto pensare a Pirandello e Fellini, e anche a Von Trier. Dal punto di vista della recitazione, a volte gli attori sfiorano l'impostazione da musical (vedi quando Stiva, fratello di Anna, appare nel suo ufficio tra una torma di solerti travet tutti presi dal timbrare documenti a tempo), con cambi di scena e costumi che non sfigurerebbero in una rappresentazione teatrale.

Se Anna diventa meno simpatica (viene il dubbio che non sia realmente innamorata di Vronsky, ma che reciti di esserlo, per dimenticare la noia della sua vita), ne guadagna la figura del marito, che infatti nel finale riesce ad evadere dal palcoscenico.

Eccellente la colonna sonora di Dario Marianelli, che meriterebbe un secondo oscar (l'ha già vinto per Espiazione, sempre per la regia di Wright).

Amici miei

Commedia all'italiana dell'ultimo periodo, come si capisce dal più esplicito emergere dei temi tragici ed erotici. Progetto di un maestro del genere (Pietro Germi, vedasi ad esempio Divorzio all'italiana, che ha dato il nome all'intero filone) per cause di forza maggiore diretto da un degno collega (Mario Monicelli).

Vengono mostrate le gesta di un gruppo di amici fiorentini (Philippe Noiret, Ugo Tognazzi, Gastone Moschin, Duilio Del Prete, Adolfo Celi) che si imbarcano in avventure insensate ("zingarate") per non soccombere al vuoto delle loro vite.

Molte le scene diventate memorabili, come gli schiaffoni tirati in stazione ai partenti. È anche il film che codifica la supercàzzola, sproloquio che ha lo scopo di confondere la vittima mescolando parole note, altre che sembrano minacciose, con altre ancora incomprensibili. Nel film sembra che sia l'arma segreta di Tognazzi, ma nel finale sarà Noiret ad usarla in un modo che direi metafisico.

Noiret è un caporedattore, orari sfasati, vita sfasata, divorziato (o separato?) con un figlio che è il suo opposto che lo critica costantemente per la sua incapacità di essere serio.

Tognazzi è un nobile decaduto, che ha dilapidato il patrimonio suo e della moglie (Milena Vukotic) e ora vive sull'orlo della miseria, mantenendo però il suo carattere pieno di contraddizioni. Tradisce la moglie con una giovanissima amante (Silvia Dionisio), di cui è geloso.

Moschin è un architetto in costante cerca di un amore, per il quale abbandonerebbe volentieri la compagnia. Era riuscito a trovarlo nella moglie di Celi (Olga Karlatos) ma, anche a causa del perfido marito, la cosa non è andata a buon fine.

Del Prete ha un bar, che gestisce con la moglie. Ma, essendo uno sfaticato congenito (fa fatica anche ad accettare le schedine del totocalcio per i clienti), trascura il lavoro (ma non la moglie) per dedicarsi più volentieri al biliardo e alle marachelle con gli amici.

Celi è un medico di una clinica privata, Moschin gli ha scippato la giovane moglie (col concorso degli amici) ma lui ha trovato il modo di rendergli la vittoria amara. Riconoscendo la sua abilità, viene assorbito dal gruppo.

Tra le burle narrate, gran peso viene dato quella ai danni di un pensionato (Bernard Blier) a cui vien fatto credere che gli amici sono narcotrafficanti in lotta contro i marsigliesi.

Si noti la scarsa presenza femminile, e in particolare come la Dionisio appaia per gran parte del tempo in deshabillé. A rimarcare la contiguità con la commedia erotica all'italiana, che proprio in quegli anni stava prendendo piede.

Il cammino per Santiago

Un quarantenne americano (Emilio Estevez, anche regista su propria sceneggiatura non originale), colto da crisi di mezza età, molla tutto per andare a fare un gran tour in Europa, e poi magari anche oltre. Il padre (Martin Sheen, padre di Estevez anche nella realtà, non ci si stupisca della somiglianza) non ne è per niente entusiasta, ma non ci può fare molto.

Però, giorni dopo, gli capita di ricevere una telefonata da un poliziotto francese che gli comunica la morte del figlio, che si era appena incamminato per Santiago. Senza indugi, prende e parte, con l'idea di recuperare la salma e riportarla a casa. Per motivi che non sto qui a specificare, le cose andranno differentemente, e un settantenne non particolarmente portato al camminare si farà tutta la Spagna a piedi, in compagnia di un massiccio olandese (Yorick van Wageningen), una appetitosa, per quanto matura, canadese (Deborah Kara Unger), e un bizzarro scrittore irlandese (James Nesbitt).

Il film funziona bene in alcuni momenti ad alto tasso emozionale, e direi che la sorpresa aiuta l'effetto, dunque tralascio di parlarne, per dedicarmi invece ad alcune cose meno riuscite. Ci sono scene che sembrano scritte a scopo promozionale. Fatica sprecata, bastava lasciare parlare le immagini. I personaggi sono troppo stereotipati (ad esempio l'olandese ha una montagna infinita di sostanze più o meno legali, almeno in Olanda) e non cambiano molto tra partenza e arrivo, e non alludo tanto a un cambiamento di carattere (lì qualcosa accade), quanto al fisico. Uno non si fa tutti quei chilometri a piedi senza conseguenze. E invece niente fiacche, calli, dolori muscolari vari. E nemmeno punture di insetti, raffreddori ... a proposito, al protagonista capita di finire in un fiumiciattolo, e inzupparsi miserevolmente. Indi passa la notte su un materassino e si risveglia al mattino fresco come una rosa. A settantanni.

Nonostante le suddette debolezze (e una certa lentezza nello sviluppo dell'azione) il risultato non mi ha deluso. Ci sono alcune cose su cui vale la pena di riflettere.

Total recall - Atto di forza

Il tema di fondo è la memoria, o la fuga della realtà, a seconda di come si voglia leggere la storia. È un quasi-remake del Total recall del '90, firmato da Paul Verhoeven che aveva come protagonisti Arnold Schwarzenegger e Sharon Stone (Basic instinct è di due anni dopo) che però, almeno per certi aspetti, si mantiene più vicino al racconto originale di Philip K. Dick, per altri duplica, semplicemente aggiornando le tecnologie, scene del film precedente, e i finali sono tutti e tre diversi.

Se non si hanno aspettative eccessive, direi che ci si può divertire. C'è qualche particolare poco ragionevole nella sceneggiatura, la regia di Len Wiseman non è certo memorabile, colonna sonora dimenticabile senza problemi, nel cast artistico Colin Farrell domina incontrastato tra le donne (Kate Beckinsale e Jessica Biel) anche per colpa dei loro personaggi. Piccola parte per Bill Nighy.

Siamo in un futuro prossimo da incubo, una guerra totale ha reso l'intero mondo inabitabile, con l'eccezione di parte della Gran Bretagna e dell'Australia. A Londra vivono i ricchi, dall'altra parte del mondo i poveri. Per motivi inspiegabili, i poveri sono costretti a fare i pendolari via uno scientificamente interessante tunnel che taglia dritto per il centro della Terra. Un'opera ingegneristica affascinante e impossibile sia con le tecnologie attuali sia con quelle mostrate dal film. Il tunnel potrebbe essere letto come metafora della difficoltà del passaggio tra i Paesi Ricchi (noi, ma direi che gli sceneggiatori pensavano più a loro, ovvero gli Stati Uniti) e Quelli Poveri (il resto del mondo, tra cui in un certo senso ancora noi). Si vedano ad esempio i controlli di frontiera, che ricordano fastidiosamente quelli ai confini americani. L'uso di Londra al posto di New York direi che serve a rendere meno disturbante il finale, i cui i Ricchi vengono indicati come molto, ma molto, cattivi.

Un tale (Colin Farrell) ha uno strano sogno ricorrente, in cui è imprigionato, cerca di fuggire con l'aiuto di una bella figliola (Jessica Biel) ma non ci riesce. La moglie (Kate Beckinsale), che non è scema, ha il dubbio che lui sia stufo della loro relazione, ma lui nega. È un povero, e dunque pendola per andare produrre dei robot poliziotti che ricordano guerre stellari (e un po' anche Robocop). Per avere un sollievo dalla sua vitaccia, si reca in uno strano posto, Rekall, in cui fanno impianti di memorie a richiesta. Chiede che gli venga creato il ricordo in cui lui è una spia doppiogiochista per Ricchi e Poveri, e ha una storia complicata con tanta azione e belle donne. Segue una storia complicata con tanta azione e belle donne, in cui la moglie lo segue tutto il tempo e cerca di ucciderlo in vari modi. La cosa avviene in modo da farci dubitare quale sia la verità (nel film, intendo) e quale la falsa memoria. Un po' anche come Inception, a ben vedere.

Noi siamo infinito

Ovvero, I vantaggi del far tapezzeria (The perks of being a wallflower) o, come recita il titolo italiano del romanzo omonimo, Ragazzo da parete. Scritto (il libro) da Stephen Chbosky, che l'ha poi adattato a sceneggiatura e infine diretto.

Si seguono le vicende di un ragazzetto (Logan Lerman) al primo anno di liceo agli inizi degli anni novanta a Pittsburgh. Molto introverso, praticamente nessun amico. Potrebbe essere pensato come una possibile continuazione della serie Diario di una schiappa, non fosse che il protagonista, nonostante la giovane età, deve fare i conti con un paio di lutti: l'amico coetaneo che si è appena sparato un colpo e la zia che è stata sfracellata da un camion anni prima, per Natale.

Taglio molto più drammatico, dunque. E taccio di altri traumi, di cui verrà edotto lo spettatore (o il lettore) più paziente.

Fortuna vuole che costui incontri un paio di sciroccati all'ultimo anno, niente meno che Emma Watson (altro centro dopo Marilyn, sembra destinata ad una carriera perfetta) ed Ezra Miller (...e ora parliamo di Kevin) che lo accolgono nella loro compagnia di personaggi marginali, ma decisamente più interessanti della media.

Come ci si può aspettare da ogni bravo romanzo di formazione, i tre protagonisti vivranno una serie di avventure grazie alle quali diventeranno (quasi) adulti. Una parte essenziale è coperta dalla musica, e in particolare da Heroes di David Bowie.

Come per Blue valentine mi sfugge il senso di programmarlo per San Valentino. C'è una storia d'amore, ma non è risolta e, per dirla tutta, non è né la parte principale del racconto né particolarmente adatta alla caramellosa ricorrenza. Però chi ama il buon cinema non può che ringraziare.