La grande bellezza

Sì, va bene, in un film ambientato a Roma evitare il riferimento a Federico Fellini è praticamente impossibile, La dolce Vita, I vitelloni, Roma, 8 1/2 (e altri, sicuramente) sono proprio dietro l'angolo. E, visto che si parla dei salotti romani, non si può nemmeno dimenticare La terrazza di Ettore Scola.

Ma diamo retta a Paolo Sorrentino, che il film lo ha pensato, scritto (con l'aiuto di Umberto Contarello) e diretto. C'è dell'altro, ed è quest'altro che dobbiamo cercare, se non vogliamo fermarci alla superficie.

Lui ci dà un indizio, la citazione sui titoli di testa dal Viaggio al termine della notte di Louis-Ferdinand Céline, e un riferimento ripetuto all'idea di Flaubert di fare un romanzo che non abbia nulla da dire, sia solo basato sulla sua capacità espressiva. Già questo ci dovrebbe dare l'idea del protagonista. Come Céline e il suo alter ego protagonista del romanzo si tratterà di una persona di grande cultura, ma con un ancor più grande buco nell'anima.

Infatti la storia è narrata in soggettiva da Jep Gambardella (Toni Servillo) che una quarantina di anni fa era un giovanotto di belle speranze alla conquista di Roma, anche se già allora aveva qualcosa che lo angustiava. Dice infatti che quello che voleva era la capacità di distruggere le feste. Qualcosa lo aveva ferito, qualcosa da cui non si è più saputo riprendere.

Lo vediamo festeggiare i suoi sessantacinque anni con una festa elegante (nel senso spregiativo che ha recentemente assunto questo aggettivo) in una centralissima terrazza sul Tevere. Possiamo assumere che raggiunto il suo scopo, ma deve aver scoperto che era un obiettivo scemo, che non gli è servito a nulla.

Ha abbandonato la carriera di scrittore, per passare al giornalismo, qualcosa di mezzo tra la critica culturale e il pettegolezzo fine a se stesso. Più facile, più redditizia, più adeguata al suo scopo. Ma non gli ha lasciato niente.

Avrebbe molti amici, di cui però non ha una grande opinione o, forse ancora peggio, non ha nemmeno più voglia di avere un opinione. Si dedica distrattamente a quello che sembra il suo migliore amico (Carlo Verdone), per cui ha anche un minimo sussulto quando questo (finalmente) realizza che Roma non fa per lui e decide di tornarsene al suo paese nativo. Ma anche questa reazione svanisce in pochi secondi.

Ha avuto molte donne, e non fa fatica a portarsi a letto una bella e ricca milanese (Isabella Ferrari) appena conosciuta. Ma non riesce più a provare nemmeno interesse alla cosa, al punto da annoiarsene rapidamente e andarsene all'inglese.

Conosce una greve, a suo modo sincera, spogliarellista non più giovane (Sabrina Ferilli) con cui sembra stabilire una amicizia degna di questo nome. Ma anche lei esce di scena improvvisamente, lasciandolo più sorpreso che sconvolto.

Ha modo di incontrare una fauna variegata, trattata sempre con un cinismo che sembra voglia distruggere tutto e tutti. Vedasi l'episodio della bambina-artista, costretta dai genitori a produrre arte ad uso e consumo dei possibili clienti mentre lei vorrebbe semplicemente giocare con i figli del gallerista (che poi è Lillo Petrolo). La bambina è disperata, e la spogliarellista se ne accorge (sembra essere l'unica che ci faccia caso) ma lui glissa affermando che guadagna milioni.

Forte con gli umili, punzecchia anche il Cardinal Bellucci (Roberto Herlitzka), che meriterebbe ben di peggio, ma a cui poi offre le sue scuse.

Non mancano i momenti di grande bellezza, per un secondo vediamo anche Fanny Ardant, che non dice una parola, ma basta un suo mezzo sorriso a illuminare una nottata.

Ma il lungo percorso di Jep sembra quello dei trenini delle sue feste, non porta da nessuna parte. Ogni strada che prende finisce in un vicolo cieco. Così alla fine scopriamo che il vero grande amore della sua vita, era una ragazzetta come mille che diceva e faceva cose scontate, che ha finito per sposare un altro di cui non era innamorata, e costui, giunto il momento del distacco, ci ha messo pochi giorni per dimenticarla.

E la sua decisione di tornare a scrivere un libro, che potevamo pensare salvifica, non è altro che un ennesimo trucco, l'ennesimo paravento che nasconde il nulla.

Un personaggio così mi pare lontano mille miglia dai modelli felliniani, che sono sempre in bilico tra furfanteria e almeno un briciolo di buon cuore. E' più in linea con certi personaggi disillusi della letteratura francese. In particolare a me ha fatto pensare ad un Bel Ami invecchiato. E mi chiedo se sia un caso che Guy de Maupassant abbia scritto anche L'inutile bellezza.

4 commenti:

  1. Concordo
    Accostare LA GRANDE BELLEZZA a LA DOLCE VITA è come paragonare Berlusconi a Napoleone: tutti e due bassi di statura, tutti e due ambiziosi oltre ogni limite e ogni prudenza, tutti e due finiti male (spero...)
    Ma le analogie sono sovrastate dalle differenze. Mastroianni era un protagonista ricco di fascino e di vitalità, Servillo è stanco della vita, al un passo dalla disperazione e galleggia nella mediocrità
    E mettere Anitona (dea splendente nella Fontanona) davanti a una 50enne che si esibisce sguaiata in un night di serie B?
    Forse si può apprezzare il tentativo di Sorrentino di mostrarci quanto Roma sia diventata superficiale e (quasi?) irrecuperabile; ma Fellini lo avrebbe fatto meglio.
    Riposa in pace, caro Federico. Ci manchi tanto.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. E giustamente anche Sorrentino ha detto che il paragone non è corretto. E' una storia diversa, che non credo che a Fellini sarebbe piaciuta. I suoi personaggi, che pure possono essere anche più terribili, non hanno quel cinismo nichilista di Jep.
      Apprezzo il tuo ottimismo, io invece mi sono persuaso che la superficialità e il degrado rappresentato non sia un problema recente. Cambiano i modi, ma la sostanza mi pare sia quella.

      Elimina
  2. Mamma mi, che angoscia, meno male che non sono andata a vederlo
    sprrentino è un regista che ha dimostrato gia due volte di non fare per me.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Per conto mio, se un qualunque motivo ti spinge a non voler vedere un film, fai bene a non vederlo.

      Ma, angoscia? Nel film non mi pare di averne percepita nemmeno in personaggi a cui non avrebbe fatto male sperimentarne un po' (ed è proprio quello uno dei loro problemi). E per quanto ne so non ne ha causata nemmeno agli spettatori.

      Però in un certo senso hai ragione. Si potrebbe interpretare Jep come una metafora del nostro Paese. Grande cultura di base, grandi possibilità sprecate malamente. E questo, in effetti, un po' angoscioso è. Ma Sorrentino è bravo a non tediare lo spettatore con un taglio deprimente, e lascia che ognuno prenda dal film quello che vuole.

      Elimina