Happy family

Mi pare che Magnifica presenza di Ozpetek condivida con questo titolo firmato da Gabriele Salvatores (e scritto da Alessandro Genovesi) l'idea di fondo. Il protagonista vive in un mondo suo, facendo un salto nel fantastico incontrando una immaginaria (o fantasmatica) compagnia di attori.

Cambiano le atmosfere, qui più sbarazzine (e milanesi), e anche il risultato. Darei la vittoria ai punti a Ozpetek per una maggior tenuta d'insieme del lavoro, che invece qui mi sembra più sfilacciato, forse a causa dell'eccessiva complicazione della struttura della sceneggiatura, costruita a scatole cinesi. Mi è parsa una mossa avventata, inoltre, affidare la parte del protagonista a Fabio De Luigi, che non regge il confronto con il resto cast e nemmeno con il concorrente diretto in versione romana (Elio Germano). Margherita Buy è presente su entrambi i fronti.

La storia è quella di un tale (De Luigi) che si mette in mente di scrivere una sceneggiatura, ma che non sa cosa scrivere. Accenna malamente i personaggi, inserisce una scena buffa ma inutile (la sua visita ad una massaggiatrice cinese nella chinatown di zona Paolo Sarpi), finché i personaggi si ribellano e lo costringono a prendere più sul serio la loro storia. Che sarebbe poi quella di due famiglie molto diverse che si incontrano a causa dei loro figli che, sedicenni, si vogliono sposare. Da una parte abbiamo un avvocato economicamente ben messo (Fabrizio Bentivoglio) ma a cui è appena stato diagnosticato un fatal tumore. Non ha ancora detto niente alla moglie (la Buy) la quale capisce che c'è qualcosa che non va ma non ha idea di cosa possa essere. L'altra coppia è composta da uno scioperato (Diego Abatantuono) che cerca di nascondersi dalla vita, in particolare consumando ingenti quantità di erba. La moglie Carla Signoris ricambia rifugiandosi nell'alcol.

Nonostante la riottosità del protagonista, e grazie alla testardaggine degli attori, si riesce ad arrivare ad una fine tutto sommato soddisfacente della storia (da notare il cameo di Sandra Milo, in quanto madre molto sportiveggiante del protagonista), se non che c'è un ennesimo colpo di scena, che non rivelo, ma che penso faccia riferimento al finale de I soliti sospetti. Già, perché i riferimenti ad altri film (primo su tutti, la saga dei Tenenbaum di Wes Anderson) si sprecano, anche ai precedenti di Salvatores.

Colonna sonora che si regge su una serie di canzoni di Simon & Garfunkel (l'idea sarebbe che è l'unico disco che ha in casa il protagonista, mentre scrive la storia che stiamo vedendo). Tra le poche musiche non del duo spicca il notturno numero 20 di Chopin, che fra l'altro viene usato benissimo da Salvatores per proporci un viaggio notturno in una Milano ben diversa da quella che vediamo nel resto del film.

Stargate

La parte simpatica del film è che riesce riportare in gioco l'immaginario egiziano (nel senso di faraoni e piramidi) adattandolo alla fantascienza delle civiltà sparse nell'universo (dalle parti Star Trek / Star Wars) ma senza la seccatura dei viaggi spaziali via astronave, risolvendo il problema delle distanze siderali per mezzo di un inesplicabile portale approssimativamente basato sull'idea del wormhole. Che sarebbe poi più o meno il mezzo usato dagli alieni in 2001 di Kubrick e in Contact.

Bravi dunque Dean Devlin e Roland Emmerich ad inventarsi un divertente universo parallelo, meno bravi a tirarci fuori una sceneggiatura credibile. Anzi, per dirla tutta, il risultato mi è parso molto scarso.

Forse l'interesse per l'antico egitto scatenato da questo film ha fatto sì che arrivasse l'OK alla produzione per La mummia. Ma non sono sicuro se si debba annoverare questa circostanza tra i lati positivi o negativi di Stargate. Come curiosità noterei che Erick Avari fa da collegamento esplicito tra i due titoli, essendo qui il capo della comunità egiziana in trasferta.

Cast ben poco memorabile. I protagonisti sono Kurt Russell nei panni di un colonnello depresso con tendenze suicide, richiamato all'attività per questa missione, e James Spader, un egittologo a cui nessuno dà retta, al punto che pare non avere un seguito nemmeno tra cacciatori di misteri improbabili, e che dunque viene reclutato dal governo americano per risolvere il mistero sul funzionamento di un oscuro macchinario, risalente a svariate migliaia di anni prima e in loro possesso da quasi un secolo.

La guerra è dichiarata

Giulietta (Valérie Donzelli) incontra Romeo (Jérémie Elkaïm), si piacciono, fanno un figlio assieme, che chiamano Adamo (Gabriel Elkaïm), a cui viene un tumore al cervello. Il risultato non mi ha convinto. Si narra di due persone circa normali (in cui non mi riconosco, ma questo è un problema mio) che si scontrano contro un grosso problema, lo affrontano assieme, finché riescono. Poi non ci riescono più e si lasciano. Sarà una storia (circa) vera, però non vedo cosa abbia da dire, per lo meno a me.

Il momento migliore mi è parso quello che dà origine al titolo. I genitori chiedono un appuntamento con un luminare del campo, vengono convocati a brevissimo tempo, e i rapidissimi preparativi per il viaggio vengono narrati come se si trattasse di una operazione militare. Il resto della pellicola mi è sembrato poco incisivo, privo di un bersaglio.

La sceneggiatura è scritta da i due protagonisti, basandola sulla loro storia (con evidenti varianti). Forse meglio sarebbe stato se la vicenda fosse stata filtrata da estranei, e magari girata da un regista più capace.

L'uomo senza passato

Tipico film di Aki Kaurismäki che, come spesso accade, può lasciare basito lo spettatore. La qualità dell'immagine, i colori, gli abiti, gli oggetti, le musiche, le situazioni, sembrano riferibili agli anni sessanta. Tranne una scena (quella in cui il protagonista torna al suo passato) che è visibilmente anni duemila. Il tutto poi sembra quasi opera di un neorealista italiano, che abbia distrattamente ambientato la vicenda in Finlandia.

Un tale (Markku Peltola) arriva in treno ad Helsinki nel cuore della notte. Una banda di teppisti lo rapina e lascia più morto che vivo. Senza un soldo, documento, e memoria di chi era, viene accolto da una famigliola sull'orlo della miseria, ed entra a far parte di una comunità di una specie di baraccopoli sul bordo della città, che mi ha fatto pensare a Miracolo a Milano di De Sica.

Seguono una serie di episodi tra il tragico, il comico, il desolato e il patetico, in cui il nostro riesce faticosamente a ricostruirsi una specie di vita e imbastire una relazione affettiva con una donna dell'esercito della salvezza, unica organizzazione che sembra dare un minimo supporto a quei disperati. Presa in confidenza in sé stesso, riuscirà anche a convincere la banda musicale ad aggiornare il proprio stile musicale, diventando il loro impresario (si tratta di Marko Haavisto & Poutahaukat, www.markohaavisto.com)

Nel tentativo di aprire un conto corrente, necessario per avere un lavoro propriamente detto, resta coinvolto in una rapina anomala, e questo porta la giustizia ad interessarsi di lui. Si scopre dunque la sua passata identità, nei confronti della quale il protagonista dovrà fare i conti.

Notevole la colonna sonora, in cui, oltre ai sopracitati Poutahaukat, spiccano un paio di brani cantati dalla direttrice della sezione dell'esercito della salvezza (che risulta essere Annikki Tähti).

I Goonies

Ci sono alcuni film che, usando uno spericolato paragone vinicolo, definirei di pronta beva. Vanno visti quando escono, e bisogna essere nel giusto target, per poterli gradire. Nel caso in questione, essere minorenne negli anni ottanta direi che sia una condizione molto forte per gradirne la prima visione. Chi per motivi anagrafici o altro si trovi impossibilitato a rispettarla, più difficilmente troverà uno senso nelle quasi due ore di durata della pellicola.

Per fare un confronto, un film tutto sommato paragonabile come Stand by me, uscito l'anno dopo ma basato su più robusta storia (Stephen King) e regia (Rob Reiner nel suo periodo d'oro), mantiene invece quasi inalterato il suo appeal anche per lo spettatore che ci si avvicini oggi per la prima volta.

Storia scritta da Steven Spielberg, convertita in sceneggiatura da Chris Columbus e diretta da Richard Donner. Donner e Spielberg hanno pure prodotto, con piglio molto disneyano, raggruppando un cast in cui spicca Josh Brolin (fratello maggiore un po' tontolone), Robert Davi e Joe Pantoliano (cattivi fratelli italo-americani che di cognome fan Fratelli - ah ah ah ._.) e la loro terribile mamma (Anne Ramsey, che svilupperà ancor meglio questo personaggio in Getta la mamma dal treno, un paio di anni dopo). In subordine, è simpatico notare come la ragazzina "bruttina" sia Martha Plimpton, figlia di Keith Carradine.

Il riferimento principale è forse Indiana Jones, ma ogni elemento del pool creativo ha buttato nel calderone qualcosa di suo (Gremlins, Superman, ET, ...) oltre che assorbire molto dell'atmosfera del tempo.

PS: Leggo ora della morte di Roger Ebert, uno che di cinema non ne blaterava come il sottoscritto, ma ne scriveva con passione e capacità.

Wittgenstein

Sembra un po' di vedere quelle riduzioni a cartone animato di un film in sessanta secondi. La vita (parecchio complicata) di uno dei più importanti filosofi novecenteschi, Ludwig Wittgenstein, in un ora. Possibile? Beh, sì. Però si corre come dei disperati, e si taglia tutto quello che è possibile tagliare, anche quello che sembrerebbe difficile eliminare.

Tutto girato in studio, con un fondale nero, narrato da un Wittgenstein bimbo presciente che incontra un marziano a cui viene raccontata la complicata storia di un ricchissimo rampollo di una famiglia viennese (da adulto interpretato da Karl Johnson) che rinuncerà al patrimonio in quanto fonte di corruzione, e spenderà una parte significativa della sua vita a Cambridge in compagnia di gente come Bertrand Russell (Michael Gough), John Maynard Keynes (John Quentin) e Lady Ottoline Morrell, in quanto amante di Russell, interpretata da una sfavillante Tilda Swinton.

Il risultato è sorprendente, grazie alla regia Derek Jarman, anche se credo convenga guardare il film sapendo già cosa venga narrato, appunto un po' come i cartoni animati sopra citati.

Il segreto di Pollyanna

Produzione Disney di mezzo secolo fa, con tutto quello che ne consegue. Però la sceneggiatura (del molto disneyano David Swift, anche alla regia) è basata sul romanzo di Eleanor H. Porter, il che permette di avere una relativa maggior profondità dei personaggi, e persino un finale che non sia piattamente felice e scontato.

La storia è quella di una orfanella (Hayley Mills) che viene adottata dalla ricca zia Polly (Jane Wyman) che ha il grosso problema di non essere capace di esternare i propri sentimenti. Al contrario, l'orfanella ha un modo tutto suo di trovare il positivo in (quasi) tutto quello che accade, al punto che il "gioco di Pollyanna", che consiste nel trovare un aspetto positivo in un accadimento apparentemente solo negativo, è diventato proverbiale.

Tra i personaggi minori c'è Karl Malden, qui nei panni del prete della chiesa locale.

Nonostante la zuccherosità e dabbenaggine disneyana - terribile, ad esempio, la scena in cui la giovane protagonista (che occorre notare è interpretata da una attrice inglese) canta avvolta nella bandiera americana l'inno informale America the beautiful - ci sono riferimenti allo stile narrativo di Mark Twain (il monello, orfano pure lui, amico della protagonista ha un che di Tom Sawyer) che rendono più accettabile la visione.

La storia in sé, poi, sembra quasi una versione per minori di La vita è meravigliosa di Frank Capra, e in effetti a Capra era talvolta rinfacciato dai detrattori di avere una visione troppo polliannesca della vita. In realtà, a ben vedere, né la Pollyanna della storia, né i personaggi di Capra sono autoreferenziali ottimisti ad oltranza. E infatti il punto chiave della storia è come solo la risposta degli altri al polliannismo del(la) protagonista riesca a dare una via d'uscita ad una situazione che sembra compromessa.