Vesna è un giovanissima ceca (Tereza Grygarová) che arriva a Trieste con uno di quegli innumerevoli autobus che, approfittando della scomparsa della cortina di ferro, portavano gli est-europei in visita lampo ai paesi occidentali. Ma l'idea di Vesna non è quella di tornare indietro, vuole invece stare da noi. A far che, non lo sa bene nemmeno lei. Vorrebbe diventar ricca e, dopo aver accumulato tanti soldi, godersi il semplice piacere di sedersi su una sedia in un bel giardino a prendere il fresco in una tiepida giornata.
Incontra un gran numero di uomini, ognuno che avrebbe una sua storia (nel bene e nel male) da raccontare, ma Vesna va davvero veloce e, solo sul suo percorso fino a Rimini, scivolano rapidamente, lasciando poche o nessuna traccia, un assicuratore (Silvio Orlando) in cerca di tenerezze, un camionista (Tony Sperandeo), un cameriere (Roberto Citran), uno slavo disperato.
Sembra che Vesna a Rimini ci voglia restare, ma continua a correre velocemente da un incontro all'altro, mangia a sbafo in una tavola calda guadagnandosi il maltrattamento da parte del proprietario (Antonio Catania) e snobbando il cameriere (Stefano Accorsi) che cerca di consolarla. Decide invece di dedicarsi alla prostituzione, passando in rassegna, sempre rapidamente, una galleria di personaggi di varia umanità (a partire da un tremendo Ivano Marescotti), fino a che non incappa in Antonio (Antonio Albanese) un cliente a cui si sente attratta, ma solo parzialmente.
Il problema è che Antonio le fa qualche domanda di circostanza sulla sua vita, e rimane stupito quando lei gli dice che la prostituzione non è certo piacevole, ma è sempre meglio di quello che faceva prima - senza che si riesca a capire cosa mai fosse.
Nonostante la diffidenza di Vesna, succede qualcosa che li avvicina, e i due passano qualche tempo assieme, abbastanza per illudere lei che lui la accetti così com'è, e lui che lei possa accettare una vita semplice con lui.
Ma, appunto, è solo una illusione. Lei, evidentemente, non vuole lasciare il giro, lui si sente intrappolato dai silenzi con cui Vesna protegge il suo doloroso e misterioso passato e, complice una serata in un albergo nell'entroterra (il cui proprietario è Marco Messeri), si consumerà la rottura.
Non è il mio film preferito tra quelli di Carlo Mazzacurati (regia e co-scrittura), però è ben rappresentativo della sua cinematografia. Molto viene lasciato alla sensibilità dello spettatore, ognuno può decidere di interpretare anche il finale come meglio gli pare.
Degna di nota la colonna sonora, basata sul sassofono di Jan Garbarek e integrata con canzoni come Ask dei The Smiths e un paio di brani dei Mau Mau.
The pervert's guide to cinema
C'è 'sto tizio, Slavoj Žižek, che per un paio d'ore parla in un inglese dal forte accento sloveno di cinema, aiutato da numerosi spezzoni che arrivano da ben note pellicole. E questo più o meno è tutto.
La regia è di Sophie Fiennes, la documentarista tra i fratelli Fiennes, la musica è di Brian Eno.
L'interesse in tutto ciò nasce dal fatto che Žižek parla di cinema dal suo punto di vista di Philostar, ovvero di filosofo(/psicologo) con un forte impatto mediatico, almeno per chi segue quegli argomenti. A me, che non sono particolarmente interessato alla psicoanalisi, sono sfuggiti alcuni punti. Ad esempio Žižek fa un parallelo tra i tre piani della casa di Norman Bates in Psycho e il suo (di Bates) io, super-io, e id, che mi è sembrato molto elegante e ben svolto, ma non sono sicuro di aver afferrato in pieno.
Nonostante questa debolezza, dovuta peraltro alla scarsa cultura dello spettatore, e limitata solo ad alcuni momenti, ho apprezzato la lettura alternativa degli spezzoni di film mostrati. Parziale e a tesi, evidentemente, ma che vale la pena di tener presente. Da sottolineare poi che questa lezione di cinema è tenuta con toni molto leggeri, con Žižek che spesso butta lì con nonchalance battute per rompere la tensione.
La regia è di Sophie Fiennes, la documentarista tra i fratelli Fiennes, la musica è di Brian Eno.
L'interesse in tutto ciò nasce dal fatto che Žižek parla di cinema dal suo punto di vista di Philostar, ovvero di filosofo(/psicologo) con un forte impatto mediatico, almeno per chi segue quegli argomenti. A me, che non sono particolarmente interessato alla psicoanalisi, sono sfuggiti alcuni punti. Ad esempio Žižek fa un parallelo tra i tre piani della casa di Norman Bates in Psycho e il suo (di Bates) io, super-io, e id, che mi è sembrato molto elegante e ben svolto, ma non sono sicuro di aver afferrato in pieno.
Nonostante questa debolezza, dovuta peraltro alla scarsa cultura dello spettatore, e limitata solo ad alcuni momenti, ho apprezzato la lettura alternativa degli spezzoni di film mostrati. Parziale e a tesi, evidentemente, ma che vale la pena di tener presente. Da sottolineare poi che questa lezione di cinema è tenuta con toni molto leggeri, con Žižek che spesso butta lì con nonchalance battute per rompere la tensione.
I sogni segreti di Walter Mitty
Il povero Ben Stiller è contrastato da una piccola comunità che non lo ha per niente in simpatia. Per fortuna sua, e del mondo intero, questa è ben poco attiva e conta, per quel che ne so, un numero minimale di appartenenti. La cito qui esclusivamente perché tra i congiuranti c'è pure il sottoscritto, e questo spiega come mai io abbia svicolato una prima volta dalla visione questo suo ultimo film (regia, parte principale, co-produzione) usando come scusa la prima versione cinematografica tratta dallo stesso racconto di James Thurber, The secret life of Walter Mitty. Mezzuccio che non ha retto al passare del tempo, anche a causa della sua lunghissima (e poco giustificata, a mio avviso) permanenza in cartellone.
Devo ammettere che, dopotutto, non è poi così male. Anche se non sono d'accordo con l'impostazione generale, la storia (praticamente scritta di sana pianta da Steve Conrad mantenendo ben poco del film precedente o del racconto di Thurber) più o meno potrebbe reggere, magari facendola rivedere da uno sceneggiatore più esperto. Anche lo Stiller regista se la cava per buona parte del tempo, anche se mi pare incapace di approfondire a dovere i personaggi, che restano quasi tutti allo stadio di bozzetto.
Però avrei preferito che Stiller non fosse anche protagonista. Ma lo Stiller regista e quello produttore devono aver fatto notevoli pressioni per prenderlo a bordo. Il brutto è che Walter Mitty è fondamentalmente l'unico personaggio del film. Tutti gli altri, e parliamo di gente come Kristen Wiig (Cheryl, la collega di cui Mitty si innamora), Shirley MacLaine (madre di Mitty), e persino Sean Penn (il fotografo Sean O'Connell che scatena l'intera azione), hanno poco tempo e battute restando, nel migliore dei casi, sullo sfondo.
Walter Mitty lavora praticamente da sempre a Life, e siamo nel periodo in cui quella gloriosa testata sta terminando la sua avventura cartacea. Ai tempi si pensava ad una sua transizione elettronica, sperando in qualche modo di farla sopravvivere nel web. In realtà quello che è rimasto, vedi life.time.com, è poco più che un museo digitale del bel tempo andato.
Per motivi non chiari, Walter ha una notevole difficoltà ad affrontare il mondo reale, e reagisce alle difficoltà fantasticando una sua vita parallela in cui è una specie di supereroe. Questo handicap (e un buffo problema nell'uso delle tecnologie moderne) gli impedisce di dichiararsi alla bella collega (la Wiig) che pure non sembra maldisposta nei suoi confronti. La catastrofe di Life complica ulteriormente le cose, con l'arrivo di un gruppetto temporaneo di manager (mal sceneggiati) che non sanno di cosa si occupano e pensano solo a tagliare teste alla svelta. Vedere Tra le nuvole di Jason Reitman per avere qualche squarcio su come questa tematica avrebbe potuto essere meglio trattata.
Un contrattempo porta (in modo forzato) il protagonista a abbandonare il proprio guscio per partire alla ricerca di un prezioso negativo. Lo strano è che questo lungo viaggio che gli farà lasciare New York, per la Groenlandia, l'Islanda, un breve ritorno a casa, poi l'Afghanistan, lo Yemen (non mostrato), Los Angeles (ma vediamo solo l'aeroporto) sembra più pensato per farci vedere belle immagini che per permettere una maturazione del personaggio.
Dicevo che le tre versioni (il racconto e i due film) della storia hanno poco in comune. In particolare, nella versione original non mi pare che il sognare ad occhi aperti del protagonista sia connotato positivamente o negativamente, è una pura fuga dalla realtà, senza particolari motivazioni o vantaggi. Direi che potrebbe essere una narrazione umoristica dell'autore sul come gli nascevano le fantasie che poi trasformava in vignette o racconti. Nel primo film diventa invece una difesa del protagonista dal forte carattere della madre (e poi del capo sul lavoro) che, al momento opportuno, si trasforma in una potente arma che gli consente di ottenere quello che vuole. Qui, invece, viene vista come una specie di malattia. Non si capisce bene come mai Mitty abbia questo problema - il rapporto con la madre sembra normale, ha una sorella (Kathryn Hahn) invadente, ma niente di terribile - si accenna ad trauma relativo alla morte del padre, ma manca una spiegazione che soddisfi. La tag line del film è addirittura Stop dreaming, start living: Smetti di sognare, inizia a vivere. E infatti quando Walter inizia ad agire i suoi sogni ad occhi aperti magicamente spariscono.
Colonna sonora non particolarmente interessante, a parte l'inclusione di Space oddity di David Bowie, che viene anche simpaticamente inglobata nella narrazione, permettendo alla Wiig di darne una sua interpretazione accompagnandosi da sé alla chitarra.
Devo ammettere che, dopotutto, non è poi così male. Anche se non sono d'accordo con l'impostazione generale, la storia (praticamente scritta di sana pianta da Steve Conrad mantenendo ben poco del film precedente o del racconto di Thurber) più o meno potrebbe reggere, magari facendola rivedere da uno sceneggiatore più esperto. Anche lo Stiller regista se la cava per buona parte del tempo, anche se mi pare incapace di approfondire a dovere i personaggi, che restano quasi tutti allo stadio di bozzetto.
Però avrei preferito che Stiller non fosse anche protagonista. Ma lo Stiller regista e quello produttore devono aver fatto notevoli pressioni per prenderlo a bordo. Il brutto è che Walter Mitty è fondamentalmente l'unico personaggio del film. Tutti gli altri, e parliamo di gente come Kristen Wiig (Cheryl, la collega di cui Mitty si innamora), Shirley MacLaine (madre di Mitty), e persino Sean Penn (il fotografo Sean O'Connell che scatena l'intera azione), hanno poco tempo e battute restando, nel migliore dei casi, sullo sfondo.
Walter Mitty lavora praticamente da sempre a Life, e siamo nel periodo in cui quella gloriosa testata sta terminando la sua avventura cartacea. Ai tempi si pensava ad una sua transizione elettronica, sperando in qualche modo di farla sopravvivere nel web. In realtà quello che è rimasto, vedi life.time.com, è poco più che un museo digitale del bel tempo andato.
Per motivi non chiari, Walter ha una notevole difficoltà ad affrontare il mondo reale, e reagisce alle difficoltà fantasticando una sua vita parallela in cui è una specie di supereroe. Questo handicap (e un buffo problema nell'uso delle tecnologie moderne) gli impedisce di dichiararsi alla bella collega (la Wiig) che pure non sembra maldisposta nei suoi confronti. La catastrofe di Life complica ulteriormente le cose, con l'arrivo di un gruppetto temporaneo di manager (mal sceneggiati) che non sanno di cosa si occupano e pensano solo a tagliare teste alla svelta. Vedere Tra le nuvole di Jason Reitman per avere qualche squarcio su come questa tematica avrebbe potuto essere meglio trattata.
Un contrattempo porta (in modo forzato) il protagonista a abbandonare il proprio guscio per partire alla ricerca di un prezioso negativo. Lo strano è che questo lungo viaggio che gli farà lasciare New York, per la Groenlandia, l'Islanda, un breve ritorno a casa, poi l'Afghanistan, lo Yemen (non mostrato), Los Angeles (ma vediamo solo l'aeroporto) sembra più pensato per farci vedere belle immagini che per permettere una maturazione del personaggio.
Dicevo che le tre versioni (il racconto e i due film) della storia hanno poco in comune. In particolare, nella versione original non mi pare che il sognare ad occhi aperti del protagonista sia connotato positivamente o negativamente, è una pura fuga dalla realtà, senza particolari motivazioni o vantaggi. Direi che potrebbe essere una narrazione umoristica dell'autore sul come gli nascevano le fantasie che poi trasformava in vignette o racconti. Nel primo film diventa invece una difesa del protagonista dal forte carattere della madre (e poi del capo sul lavoro) che, al momento opportuno, si trasforma in una potente arma che gli consente di ottenere quello che vuole. Qui, invece, viene vista come una specie di malattia. Non si capisce bene come mai Mitty abbia questo problema - il rapporto con la madre sembra normale, ha una sorella (Kathryn Hahn) invadente, ma niente di terribile - si accenna ad trauma relativo alla morte del padre, ma manca una spiegazione che soddisfi. La tag line del film è addirittura Stop dreaming, start living: Smetti di sognare, inizia a vivere. E infatti quando Walter inizia ad agire i suoi sogni ad occhi aperti magicamente spariscono.
Colonna sonora non particolarmente interessante, a parte l'inclusione di Space oddity di David Bowie, che viene anche simpaticamente inglobata nella narrazione, permettendo alla Wiig di darne una sua interpretazione accompagnandosi da sé alla chitarra.
I Croods
Tecnicamente molto bello, la sceneggiatura (nonostante lo zampino di John Cleese) mi ha lasciato invece perplesso in più punti. Curioso notare come Walt Disney e Dreamworks sembra si siano scambiate il target di riferimento. Ai tempi una storia come quella di Shrek non poteva che arrivare dai secondi, adesso sarei quasi sorpreso se fossero loro a produrre qualcosa di simile.
Si narrano le vicende dei Croods, una assurda famiglia simil-preistorica alla Flintstones, che però abita su un pianeta colorato e abitato che assomiglia più a Pandora (nel senso del pianeta su cui si svolge la storia di Avatar) che alla nostra Terra. La figlia maggiore, Hip (Emma Stone la voce originale) è stufa di vivere in una caverna, anche perché il padre, Grug (Nicolas Cage doppiato da Francesco Pannofino), è iperprotettivo. E ne ha ben donde, visto l'ambiente che li circonda. Il conservatorismo estremo di Grug viene spiazzato da una serie di eventi cataclismatici, ovvero terremoti e l'arrivo di Guy, un ragazzotto che sembra destinato a portarsi via Hip.
Segue la solita marcia verso una terra promessa, con relativo cambio di paradigma che i protagonisti dovranno accettare se vogliono sopravvivere. Ho trovato imbarazzante che il passaggio dal vecchio al nuovo mondo avvenga passando attraverso un vallo tra due alti picchi gemelli, per la sua simbologia sessuale fin troppo evidente.
Mi ha negativamente colpito come siano trattati i caratteri femminili. La signora Crood (Catherine Keener) non fa praticamente nulla, sua madre (Cloris Leachman) è vista come una suocera dei film anni cinquanta, la stessa protagonista finisce per diventare subalterna a Guy. Di tutt'altra pasta le moderne eroine Disney.
Si narrano le vicende dei Croods, una assurda famiglia simil-preistorica alla Flintstones, che però abita su un pianeta colorato e abitato che assomiglia più a Pandora (nel senso del pianeta su cui si svolge la storia di Avatar) che alla nostra Terra. La figlia maggiore, Hip (Emma Stone la voce originale) è stufa di vivere in una caverna, anche perché il padre, Grug (Nicolas Cage doppiato da Francesco Pannofino), è iperprotettivo. E ne ha ben donde, visto l'ambiente che li circonda. Il conservatorismo estremo di Grug viene spiazzato da una serie di eventi cataclismatici, ovvero terremoti e l'arrivo di Guy, un ragazzotto che sembra destinato a portarsi via Hip.
Segue la solita marcia verso una terra promessa, con relativo cambio di paradigma che i protagonisti dovranno accettare se vogliono sopravvivere. Ho trovato imbarazzante che il passaggio dal vecchio al nuovo mondo avvenga passando attraverso un vallo tra due alti picchi gemelli, per la sua simbologia sessuale fin troppo evidente.
Mi ha negativamente colpito come siano trattati i caratteri femminili. La signora Crood (Catherine Keener) non fa praticamente nulla, sua madre (Cloris Leachman) è vista come una suocera dei film anni cinquanta, la stessa protagonista finisce per diventare subalterna a Guy. Di tutt'altra pasta le moderne eroine Disney.
Reality
La storia narrata da Matteo Garrone è semplice ma efficace. Luciano (Aniello Arena, esordio sul grande schermo), pescivendolo napoletano che arrotonda le entrate grazie ad una truffa che ha cucito assieme alla moglie (Loredana Simioli) sulla vendita per corrispondenza di un buffo robot da cucina, e che da sempre rallegra il vasto parentado con spettacolini da varietà casalingo, si convince che ha i numeri giusti per entrare nel cast del Grande Fratello, e fare così il gran salto in una vita migliore. Per rincorrere questo sogno sacrifica il lavoro, la famiglia, la sua sanità mentale. Lo raggiungerà? Forse sì. In ogni caso il prezzo che paga sembra troppo alto.
Lo svolgimento è in bilico tra la brutale realtà di una Napoli degradata abitata da personaggi tragicamente grotteschi e una spiazzante atmosfera da favola, ben supportata dalla bella colonna sonora di Alexandre Desplat.
Buona rappresentazione del nostro corrente sfacelo culturale-economico. L'unico contraltare al vuoto spinto che mitizza il successo basato sul nulla di chi nulla sa fare, ma che tutti conoscono perché appare in televisione è la Chiesa. I discorsi di Michele (Nando Paone), cugino di Luciano, non però riescono ad avere alcuna presa sul protagonista.
In un piccolo ruolo (il barista) c'è anche Ciro Petrone.
Lo svolgimento è in bilico tra la brutale realtà di una Napoli degradata abitata da personaggi tragicamente grotteschi e una spiazzante atmosfera da favola, ben supportata dalla bella colonna sonora di Alexandre Desplat.
Buona rappresentazione del nostro corrente sfacelo culturale-economico. L'unico contraltare al vuoto spinto che mitizza il successo basato sul nulla di chi nulla sa fare, ma che tutti conoscono perché appare in televisione è la Chiesa. I discorsi di Michele (Nando Paone), cugino di Luciano, non però riescono ad avere alcuna presa sul protagonista.
In un piccolo ruolo (il barista) c'è anche Ciro Petrone.
No - I giorni dell'arcobaleno
Il momento storico narrato dal film è interessante. Siamo nel 1988 e la sanguinaria dittatura cilena instaurata quattordici anni prima e che ha nel suo líder máximo il generale Augusto José Ramón Pinochet Ugarte sembra imbattibile. Ha il controllo assoluto dei media, esercita con un controllo asfissiante sulla società civile, e può anche vantare un miglioramento complessivo dello stato dell'economia, ottenuto anche grazie ad un misto di consenso e rassegnazione tra la popolazione.
Il guaio (per lui) è che nel frattempo la guerra fredda è finita. L'Unione Sovietica ha finito i soldi per combatterla e, di conseguenza, per gli Stati Uniti non ha più senso foraggiare un governo imbarazzante come quello cileno. Viene dunque chiesto di verificare con un plebiscito se davvero, come sostiene Pinochet, il Cile sia con lui.
L'idea di Pablo Larraín (basata su una pièce teatrale di Antonio Skármeta, trasformata piuttosto radicalmente in sceneggiatura da Pedro Peirano) è quella di focalizzarsi su un singolo aspetto di quello che accadde in quei giorni, la realizzazione e gestione del quarto d'ora televisivo concesso all'opposizione, per un paio di settimane prima delle votazioni, per illustrare le ragioni del no a Pinochet. E di narrarla come se fosse un documentario girato in quei giorni.
Ho alcune perplessità sia sull'impostazione sia sulla riuscita del film. Il fatto che venga mescolato materiale di repertorio a finzione cinematografica, e che il tutto venga amalgamato così bene, utilizzando macchine da presa d'epoca, e probabilmente degradando il risultato per simulare l'invecchiamento della pellicola, finisce per smussare i confini tra il documento storico e la pura fantasia della coppia Peirano-Larraín. In particolare il protagonista, il giovane pubblicitario che sembra così reale grazie all'interpretazione di Gael García Bernal, non è mai esistito.
Inoltre ho trovato molto noiosa tutta la prima parte del film, anche per la scelta di simulare una ripresa quasi amatoriale. I brutti colori, la sgranatura dell'immagine, la cattiva bilanciatura della luminosità, spesso esasperata dalla presenza nell'inquadratura del sole o di altre fonti luminose, come se chi girasse non avesse il tempo di badare a questi dettagli, mi hanno reso molto faticosa la visione.
Non mi è chiaro poi cosa si voglia dire. Mi pare che si voglia sostenere che la vittoria del no sia stata principalmente figlia di quel quarto d'ora televisivo, il che mi sembra anti-storico, oltre che piuttosto offensivo nei confronti dei cileni.
Il guaio (per lui) è che nel frattempo la guerra fredda è finita. L'Unione Sovietica ha finito i soldi per combatterla e, di conseguenza, per gli Stati Uniti non ha più senso foraggiare un governo imbarazzante come quello cileno. Viene dunque chiesto di verificare con un plebiscito se davvero, come sostiene Pinochet, il Cile sia con lui.
L'idea di Pablo Larraín (basata su una pièce teatrale di Antonio Skármeta, trasformata piuttosto radicalmente in sceneggiatura da Pedro Peirano) è quella di focalizzarsi su un singolo aspetto di quello che accadde in quei giorni, la realizzazione e gestione del quarto d'ora televisivo concesso all'opposizione, per un paio di settimane prima delle votazioni, per illustrare le ragioni del no a Pinochet. E di narrarla come se fosse un documentario girato in quei giorni.
Ho alcune perplessità sia sull'impostazione sia sulla riuscita del film. Il fatto che venga mescolato materiale di repertorio a finzione cinematografica, e che il tutto venga amalgamato così bene, utilizzando macchine da presa d'epoca, e probabilmente degradando il risultato per simulare l'invecchiamento della pellicola, finisce per smussare i confini tra il documento storico e la pura fantasia della coppia Peirano-Larraín. In particolare il protagonista, il giovane pubblicitario che sembra così reale grazie all'interpretazione di Gael García Bernal, non è mai esistito.
Inoltre ho trovato molto noiosa tutta la prima parte del film, anche per la scelta di simulare una ripresa quasi amatoriale. I brutti colori, la sgranatura dell'immagine, la cattiva bilanciatura della luminosità, spesso esasperata dalla presenza nell'inquadratura del sole o di altre fonti luminose, come se chi girasse non avesse il tempo di badare a questi dettagli, mi hanno reso molto faticosa la visione.
Non mi è chiaro poi cosa si voglia dire. Mi pare che si voglia sostenere che la vittoria del no sia stata principalmente figlia di quel quarto d'ora televisivo, il che mi sembra anti-storico, oltre che piuttosto offensivo nei confronti dei cileni.
Educazione siberiana
Non ho capito bene perché Gabriele Salvatores abbia deciso di partecipare a questo progetto. Forse è stato attirato dalle promesse di internazionalità (che in realtà non mi pare siano state mantenute) derivanti dall'interessante cast artistico. Purtroppo il film ha un grosso problema, che mi pare si possa identificare nel romanzo su cui è basata la sceneggiatura.
Non ho letto il libro di Nicolai Lilin ma dai commenti (anche positivi) che ho visto mi pare quanto di più anti-filmico si possa immaginare. Una serie di episodi che illustrano la comunità da cui proviene l'autore mescolando realtà e fantasia in una proporzione non ben definita. E secondo i detrattori è una sovrabbondante fantasia che mira a nobilitare quanto di ben poco nobile c'è in una realtà molto depressa.
Il lavoro di sceneggiatura (della premiata coppia Stefano Rulli e Sandro Petraglia, con il concorso dello stesso Salvatores) ha smontato il materiale originale, lo ha fatto a pezzi e ricucito in una storia cercando di tirarci fuori qualcosa di adatto alla rappresentazione su schermo. Grazie alla capacità del terzetto il risultato è accettabile ma credo che a questo punto sarebbe stato meglio partire da zero, abbandonando del tutto la struttura originale.
Curioso che gran parte del cast, compresi di due protagonisti, siano lituani e anche alla prima esperienza cinematografica. Come se si fosse deciso (o si fosse stati obbligati) a prendere il personale sul posto per riuscire a non sforare i limiti del budget, che immagino sia stato mangiato in buona parte dalla messa in scena e poi dal cachet dei tre attori noti a livello internazionale, che pure hanno ruoli secondari. Il più importante (e costoso) dei tre è certamente John Malkovich, gli altri due sono Peter Stormare (che ricordo soprattuto per Fargo dei Coen), e Eleanor Tomlinson (che ha iniziato ad illuminare le pellicole con il suo bel sorriso a partire da The illusionist di Neil Burger nel 2006).
La storia oscilla tra lo studio della formazione di giovani delinquenti, alla C'era una volta in America di Sergio Leone, ma senza disdegnare anche una citazione di Arancia meccanica di Stanley Kubrick (sottolineata da una scheggia musicale firmata dagli Area) a quello di una famiglia della criminalità organizzata di area ex-sovietica (vedi La promessa dell'assassino di David Cronenberg, alle relazioni in un gruppo di ragazzi all'alba dei primi turbamenti sessuali (e qui la citazione di Absolute beginners di Julien Temple è sottolineata dall'uso del brano omonimo di David Bowie), senza trascurare nemmeno il film militare, con una puntata in Afghanistan.
I protagonisti sono Kolyma (Arnas Fedaravicius) e Gagarin (Vilius Tumalavicius). Il primo integrato nella comunità di onesti (!) delinquenti capitanata da suo nonno (Malkovich), il secondo ribelle, con un grosso problema di rabbia di cui non sappiamo bene quale sia l'origine. Sembra che Gagarin abbia pure una attrazione sessuale per Kolyma, che forse non è ricambiata (o forse Kolyma, così inquadrato, preferisce non riconoscerla). In ogni caso Kolyma si prende una cotta per la figlia del dottore, Xenya (Tomlinson) che è rimasta bloccata mentalmente alla sua infanzia. Il buon Kolyma, che ha pure una certa capacità artistica, cerca di sublimare la sua disastrosa vita sentimentale affrontando il tradizionale uso dei tatuaggi, a cui viene introdotto da Ink (Stormare).
Sarà Gagarin a rompere definitivamente gli indugi entrando in modalità (auto)distruttiva e causando una serie di danni spaventosi.
La parte di Malkovich, secondaria per quel che riguarda il tema della storia, è fondamentale per lo sviluppo della stessa, avendo la funzione di voce narrante che spiega le tradizioni del gruppo, facendoci capire perché l'integrato Kolyma si comporti in un certo modo, e contro cosa si scontri Gagarin.
Molto piccola la parte della Tomlinson, che però ha alcuni dei momenti liricamente più belli del film. In particolare la scena in cui Xenya cerca di spiegare a quel babbeo di Kolyma quanto lo ami e come vorrebbe fare all'amore con lui, senza avere le parole per farlo, è davvero molto toccante.
Musicalmente, a parte gli inserti progressive e del duca bianco, il tutto è tenuto assieme dalla bella colonna sonora firmata da Mauro Pagani, nientemeno.
Non ho letto il libro di Nicolai Lilin ma dai commenti (anche positivi) che ho visto mi pare quanto di più anti-filmico si possa immaginare. Una serie di episodi che illustrano la comunità da cui proviene l'autore mescolando realtà e fantasia in una proporzione non ben definita. E secondo i detrattori è una sovrabbondante fantasia che mira a nobilitare quanto di ben poco nobile c'è in una realtà molto depressa.
Il lavoro di sceneggiatura (della premiata coppia Stefano Rulli e Sandro Petraglia, con il concorso dello stesso Salvatores) ha smontato il materiale originale, lo ha fatto a pezzi e ricucito in una storia cercando di tirarci fuori qualcosa di adatto alla rappresentazione su schermo. Grazie alla capacità del terzetto il risultato è accettabile ma credo che a questo punto sarebbe stato meglio partire da zero, abbandonando del tutto la struttura originale.
Curioso che gran parte del cast, compresi di due protagonisti, siano lituani e anche alla prima esperienza cinematografica. Come se si fosse deciso (o si fosse stati obbligati) a prendere il personale sul posto per riuscire a non sforare i limiti del budget, che immagino sia stato mangiato in buona parte dalla messa in scena e poi dal cachet dei tre attori noti a livello internazionale, che pure hanno ruoli secondari. Il più importante (e costoso) dei tre è certamente John Malkovich, gli altri due sono Peter Stormare (che ricordo soprattuto per Fargo dei Coen), e Eleanor Tomlinson (che ha iniziato ad illuminare le pellicole con il suo bel sorriso a partire da The illusionist di Neil Burger nel 2006).
La storia oscilla tra lo studio della formazione di giovani delinquenti, alla C'era una volta in America di Sergio Leone, ma senza disdegnare anche una citazione di Arancia meccanica di Stanley Kubrick (sottolineata da una scheggia musicale firmata dagli Area) a quello di una famiglia della criminalità organizzata di area ex-sovietica (vedi La promessa dell'assassino di David Cronenberg, alle relazioni in un gruppo di ragazzi all'alba dei primi turbamenti sessuali (e qui la citazione di Absolute beginners di Julien Temple è sottolineata dall'uso del brano omonimo di David Bowie), senza trascurare nemmeno il film militare, con una puntata in Afghanistan.
I protagonisti sono Kolyma (Arnas Fedaravicius) e Gagarin (Vilius Tumalavicius). Il primo integrato nella comunità di onesti (!) delinquenti capitanata da suo nonno (Malkovich), il secondo ribelle, con un grosso problema di rabbia di cui non sappiamo bene quale sia l'origine. Sembra che Gagarin abbia pure una attrazione sessuale per Kolyma, che forse non è ricambiata (o forse Kolyma, così inquadrato, preferisce non riconoscerla). In ogni caso Kolyma si prende una cotta per la figlia del dottore, Xenya (Tomlinson) che è rimasta bloccata mentalmente alla sua infanzia. Il buon Kolyma, che ha pure una certa capacità artistica, cerca di sublimare la sua disastrosa vita sentimentale affrontando il tradizionale uso dei tatuaggi, a cui viene introdotto da Ink (Stormare).
Sarà Gagarin a rompere definitivamente gli indugi entrando in modalità (auto)distruttiva e causando una serie di danni spaventosi.
La parte di Malkovich, secondaria per quel che riguarda il tema della storia, è fondamentale per lo sviluppo della stessa, avendo la funzione di voce narrante che spiega le tradizioni del gruppo, facendoci capire perché l'integrato Kolyma si comporti in un certo modo, e contro cosa si scontri Gagarin.
Molto piccola la parte della Tomlinson, che però ha alcuni dei momenti liricamente più belli del film. In particolare la scena in cui Xenya cerca di spiegare a quel babbeo di Kolyma quanto lo ami e come vorrebbe fare all'amore con lui, senza avere le parole per farlo, è davvero molto toccante.
Musicalmente, a parte gli inserti progressive e del duca bianco, il tutto è tenuto assieme dalla bella colonna sonora firmata da Mauro Pagani, nientemeno.
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