Primo lungometraggio (scritto e diretto) di Robert Connolly. Chi è costui, mi sono chiesto. Grazie a imdb ho scoperto che si tratta di un regista australiano che fa un film ogni quattro anni, e recentemente ha fatto qualcosa anche per la televisione. Il tutto sempre in Australia, con una eco molto limitata nel resto del mondo.
Però è correntemente al lavoro in una produzione americana, riconducibile a Jonathon Stevens, personaggio che fino ad oggi si è fatto notare più nel campo dei videogiochi e dell'editing musicale (The social network e Millennium - Uomini che odiano le donne, tra gli altri). Dal punto di vista artistico c'è da dire che A view from the bridge (questo il titolo) basa la sua sceneggiatura su di pezzo teatrale di Arthur Miller e ha come protagonista Vera Farmiga. Sarà interessante scoprire cosa viene fuori da questo strano impasto.
Tornando a The bank, anche la sua produzione ci riserva una sorpresa, nel nome di Domenico Procacci che appare come coproduttore. E morì con un felafel in mano, altra e più nota produzione australiana per conto della sua Fandango, è dello stesso anno.
Le star sono due attori che sono restati legati a Connolly, David Wenham (protagonista) e Anthony LaPaglia (antagonista). LaPaglia (è anche in A view from the bridge) è decisamente il migliore in campo, interpretando con convinzione il suo personaggio.
Alla regia Connolly non è male, purtroppo la sceneggiatura, pur essendo basata su una valida idea, non viene sviluppata adeguatamente. Si apre sul passato del protagonista, bimbetto in una scuola nel nulla australiano che si sta sorbendo una sorta di Mostra e Dimostra da parte di un bancario che racconta il senso del risparmio.
Salto in avanti, lo troviamo sulla trentina abbondante, immerso in conti e simulazioni di andamenti di borsa. Pare che abbia ottenuto un risultato interessante. Un estratto della ricerca viene mandato ad una banca. In quella stessa banca LaPaglia si sta beccando un fervorino dal consiglio di amministrazione per non aver generato abbastanza utili. Non abbiamo nessun motivo per stare dalla sua parte, è evidentemente un tipaccio. Per migliorare la redditività aziendale ha una sola ricetta: licenziare e tagliare le spese. E siccome a già tagliato tutto quello che poteva tagliare, non ha più carte da giocare. La ricerca del matematico capita perciò a fagiolo. Se funziona, riuscirà a far contenti i suoi capi.
Ora, l'idea di poter predirre l'andamento borsistico è priva di senso. A naso direi che chi ci crede dovrebbe cadere in una tra le seguenti categorie: male informati, sciocchi, matti. In Pi di Darren Aronofsky (una volta tanto, il titolo italiano Pi greco - Il teorema del delirio, aggiunge senso invece che toglierne) si esplora la terza ipotesi, e il protagonista, partendo dalla teoria della complessità (a quei tempi più nota come teoria del caos), sbarella pensando di essere sul punto di trovare il senso di tutto, che poi sarebbe un altro modo di dire dio.
In The bank, il matematico non sembra appartenere a nessuna delle tre categorie, mentre il banchiere reclama a gran voce di essere inserito nella seconda. A dire il vero, parlando con un dipendente (anch'egli matematico, ma molto meno brillante del protagonista, e che direi appartenga al primo gruppo) gli dice chiaramente di avere seri dubbi in proposito, giustamente notando che il fattore umano non è contemplato dalla matematica. E allora direi che l'ingordigia abbia finito per ottundere le sue capacità intellettive. Ma la figura che fa alla fine è sempre quella dello sciocco.
Credo sia proprio questo il tema principale del film: l'ingordigia rende sciocchi. Non è solo il manager, è tutto il consiglio di amministrazione della banca (con una sola ammirevole eccezione) che si dimostra incapace di ragionare, con la mente e con il cuore, quando le cifre diventano troppo alte. Fuori dalla metafora, è quello che vediamo anche oggi nel nostro sistema economico-finanziario. Non funziona, sappiamo che non funziona, però nell'immediato genera quattrini (per alcuni, almeno, e per quei pochi le cifre sono davvero alte). E allora ce lo teniamo.
Vicenda parallela è quella di una famigliola rovinata dalla stessa banca. Strumentale per sottolineare come il miraggio del profitto abbia fatto perdere il lume della ragione a una parte (voglio sperare sia solo una parte) del sistema bancario e come i motivi del matematico per agire come agisce siano molto forti, al punto da farlo spergiurare in tribunale - cosa che vediamo gli costa parecchio.
Altra storia che si incastra è quella di una amoretto tra il matematico e una dipendente della stessa banca (Sibylla Budd). Personaggio debole, interpretazione dimenticabile. Lo scopo credo sia quello di far vedere come il gioco della finanza finisca per distruggere ogni possibilità di relazioni umane propriamente dette, ma la mancanza di approfondimento non fa un buon servizio a questa tesi.
Penso sarebbe stato opportuno sacrificare una delle due sottotrame in modo da rendere più sostanziosa la superstite - o, alternativamente, dare maggior spazio ad entrambe. Ma questo avrebbe comportato un allungamento del minutaggio del film, e maggiori investimenti in un cast più credibile.
Nonostante le debolezze del film, ho notato con piacere una buona cura verso i dettagli. Il tema della teoria della complessità fa capolino da tutte le parti. Anche nella colonna sonora minimalista di Alan John, godibile anche se non memorabile.
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