Quell'idiota di nostro fratello

Mia seconda visione per questa commedia indipendente molto newyorkese. Questa volta l'ho apprezzata maggiormente, forse anche perché l'ho vista in compagnia di una mia sorella, il che mi ha portato a valutare con maggior attenzione le dinamiche familiari presentate e immedesimarmi maggiormente nel protagonista (ehm, sì, l'idiota del titolo).

Ned (Paul Rudd, che ho appena rivisto anche in Noi siamo infinito e di cui ho potuto apprezzare la capacità di variare i toni, là era un posato insegnante di inglese) è un sempliciotto di buon cuore. Campa coltivando verdura biodinamica e vendendola ai mercatini locali e, già che c'è, non disdegna la coltivazione di piante che non hanno una buona fama presso le forze dell'ordine, delle quali sembra essere pure un felice consumatore.

Un po' tutti si approfittano di lui, compreso un poliziotto che migliora le sue statistiche arrestandolo per spaccio. Ma Ned non se ne cura, nemmeno la galera riesce a scalfire il suo buonumore. Anche quando scopre, uscendo in anticipo per buona condotta, che la sua donna nel frattempo l'ha sostituito con un altro tizio non particolarmente brillante e si è impossessata di casa e campicello annesso (non è chiaro di chi sia la proprietà del posto, Ned dice di esserci arrivato prima, come se si trattasse di un'area abbandonata), mostra solo un leggero stupore. Più fastidio gli dà che lei si rifiuti di lasciargli il cane (Obi-Wan Kenobi per noi italiani, ma in originale era Willie Nelson), ma nemmeno questa angheria - a lei evidentemente del cane non importa niente - riesce a farlo arrabbiare.

Questa debacle lo costringe a tornare in famiglia, venendo palleggiato tra una madre che non sembra pienamente in sé e, soprattutto, tre sorelle che hanno scelto tre modi di vita molto diversi, ognuno a suo modo rappresentativo di uno spicchio della New York culturale.

Miranda (Elizabeth Banks) sta cercando di diventare una giornalista di quelle riviste più inclini al pettegolezzo che alle notizie propriamente dette, e per questo ha sacrificato la sua vita privata.

Natalie (Zooey Deschanel) è una stand-up comedian molto alternativa. Ha una consolidata relazione lesbica (Rashida Jones) e una sessualità confusa e prorompente.

Liz (Emily Mortimer), si è sposata col documentarista Dylan (Steve Coogan), ha un paio di figli, e una evidente crisi coniugale.

L'approccio alla vita di Ned male si accoppia con quello delle sorelle, la sua candida semplicità finisce per magnificare i problemi che già esistevano nelle loro vite, per farli esplodere, con conseguente ostilità delle sorelle. E qui vediamo Ned finalmente reagire, seppure a suo modo, rifiutandosi di accettare il pagamento di una cauzione, preferendo tornare in galera.

Segue lieto fine come imposto dalle leggi della commedia.

Come dicevo, non è che si possa gridare al capolavoro. Ma la storia è ben scritta e diretta da Jesse Peretz e si giova dell'interpretazione di un buon cast.

Charlie viene prima di tuo marito - Tutte pazze per Charlie

I distributori italiani pensavano di farlo uscire al cinema col primo titolo (Charlie prima ...), poi devono avere avuto un inaspettato soprassalto di buon gusto, o forse è stata solo la fortuna che ha risparmiato allo spettatore disattento il rischio di sprecare il tempo e qualche euro con questa pellicola. Ormai il doppiaggio lo avevano fatto, e sembrava brutto buttare via il tutto. Hanno cambiato il titolo, evidentemente per strizzare l'occhio a Tutti pazzi per Mary, e ne hanno fatto un DVD. In televisione, però, potreste trovarlo col titolo cinematografico. Per essere sicuri di evitarlo, conviene tenere a mente anche il titolo originale, Good luck Chuck.

L'idea al cuore della sceneggiatura è una versione romanzata delle disgrazie amorose di Steve Glenn, un tizio che fa case prefabbricate (in versione eco-sostenibile e modaiola, e in California) che conosce gente di Hollywood. Gli capitò di parlarne ad un produttore cinematografico di troppo, e da qui, complice la scarsità di idee che aleggia da quelle parti, a pensare di farne un film il passo è stato breve. Non è neanche una cattiva storia, anche se tendente al paranoico. Lui esce con donne, con nessuna delle quali riesce ad avere una relazione a lungo termine, ma queste, come rompono con lui, trovano immediatamente in un altro l'amore della loro vita.

Il problema è che questo canovaccio è stato passato a Josh Stolberg che, evidentemente, ha un immaginario non molto maturo. Per dirla tutta, al confronto i Farrelly (giustamente citati nel secondo titolo italiano) sono dei raffinati geni. Per ridurre al minimo le possibilità che ne uscisse qualcosa di accettabile si è preso come regista Mark Helfrich, un bravo montatore che mai aveva diretto alcunché.

I protagonisti sono Dane Cook e Jessica Alba, che hanno meritato una candidatura ai Razzie per la loro interpretazione poco esaltante.

Skyfall

Mi pare che la produzione del cinquantennale franchise di 007 abbia voluto tentare una specie di reinvenzione del personaggio, muovendolo in una nuova direzione pur mantenendo un'aria di famiglia che non spaventi i vecchi fan. Ai due sceneggiatori che hanno pensato i James Bond da The world is not enough in avanti (Neal Purvis e Robert Wade) si è aggiunto John Logan, per la regia è stato preso niente meno che Sam Mendes. Un team creativo che mi fa pensare che si voglia fare qualcosa come quello che Christopher Nolan ha fatto con Batman, una trilogia crepuscolare su un personaggio che fino a quel momento sembrava destinato ad essere inchiodato ad un presente infinito.

Il protagonista resta Daniel Craig, ma viene introdotto un nuovo Q (Ben Whishaw), capiamo subito che M (Judi Dench) sta per uscire di scena, e non possiamo non pensare che ad ambire il suo ruolo ci sia un tal Mallory, anche perché ad interpretarlo è Ralph Fiennes. Tra le Bond girl di questo episodio alcune sono destinate a non apparire mai più, come Severine (Bérénice Marlohe), ma Eve (Naomie Harris) sembra qui per restare, e nel finale capiremo meglio in che ruolo. Nella parte del cattivo Javier Bardem, anche qui, come in Non è un paese per vecchi, dotato di una capigliatura memorabile.

L'azione è molto bondiana, ma le variazioni sono significative. Sin dall'inizio Bond sembra meno cinico del solito, il terribile cattivo arriva persino a mettere in dubbio la sua mascolinità, e lo vedremo pure commuoversi.

La cuoca del Presidente

O meglio, Il sapore del Palazzo (Les Saveurs du Palais) o anche, sbirciando quale sia il titolo internazionale, Haute cuisine.

Approssimativamente basato sulla storia di Danièle Mazet-Delpeuch, che tenne il ruolo di chef privata per François Mitterrand per un paio di anni durante il suo secondo mandato presidenziale, credo che sia stato prodotto mirando a chi sia interessato ad una vista obliqua sul quel presidente o, come meglio lascia intendere il titolo originale, i meccanismi che regolano i centri del potere politico francese (che poi non devono essere molto diversi da quelli di tutte le democrazie occidentali).

Hortense Laborie (Catherine Frot) viene convocata a Parigi per la sua capacità di interpretare la cucina francese storica, visto che il presidente non è convinto dalle nuove interpretazioni che i cuochi francesi le stavano dando. Chissà che avrebbe mai pensato della cucina molecolare.

Il presidente si entusiasma, ma Hortense si trova a combattere contro una burocrazia tentacolare, lotte intestine di potere, e persino (orrore!) i dietologi che cercano di evitare l'esplosione del fegato presidenziale.

Una specie di incrocio tra Chef e Il ministro - L'esercizio dello Stato. Meglio il primo, se si vogliono fare quattro risate ammirando nel contempo alcuni piatti spettacolari, o il secondo se si vuole ragionare sul potere.

La migliore offerta

Nonostante che dopo la prima visione abbia letto alcune recensioni piuttosto velenose, questa seconda visione mi ha rafforzato nell'opinione di aver ragione io a considerarlo un ottimo titolo e torto chi lo considera una ciofeca.

Credo che gli esponenti del partito avverso siano stati ingannati dalla struttura della narrazione, che segue gli stilemi del thriller, e non si siano accorti che il punto del film sia completamente diverso, essendo piuttosto una meditazione su quel che conta nella vita, su cosa valga la pena di fare la propria migliore offerta, e quanto alta questa puntata possa, o debba, essere.

L'appassionato di thriller, in effetti, potrebbe non essere soddisfatto dalla semplicità dell'inghippo. Troppo facile immaginarsi quello che gli sembra il colpo di scena del finale. Però, nel far questo, deve far finta che il film finisca alcuni minuti prima dell'inizio dei titoli di coda, declassando al livello di coda poco significativa quello che è il vero cuore dell'azione, che finisce per dare il senso complessivo alla storia.

Dopo il trailer dico qualcosa che potrebbe infastidire chi teme gli spoiler. Lettore avvisato, mezzo salvato.

Il protagonista è Virgil (Geoffrey Rush), un banditore d'asta incapace di relazionarsi con gli umani e che ha sublimato il suo desiderio d'amore nella creazione di una collezione di dipinti femminili da capogiro. Freddo nei rapporti interpersonali, al punto da indossare sempre un paio di guanti per evitare quelli che per lui sono sgradevoli contatti, riesce a empatizzare solo con i dipinti (praticamente l'unica cosa che tocca a mani nude).

Si circonda di persone che apprezza per le loro capacità ma di cui in pratica non sa nulla. In particolare lo vediamo interagire con Billy (Donald Sutherland), pittore scarso ma fidato compare quando si tratta di acquisire con modi poco puliti nuovi esemplari per la sua collezione, e Robert (Jim Sturgess), una specie di genio della meccanica.

Capita poi che Claire (Sylvia Hoeks), una giovane ereditiera con un grosso patrimonio di cui vuole liberarsi, chieda a Virgil di occuparsi del suo caso. Virgil è indeciso ma, a poco a poco, viene portato a dedicare sempre più tempo ed energie al complicato caso di Claire. Sia per la complessa personalità della donna, che ben si rapporta alle sue stesse spigolosità caratteriali, sia perché tra il materiale presente nella villa emergono ingranaggi che sembrano riconducibili ad un robot settecentesco dal favoloso valore.

Se questo fosse un semplice heist film, sapremmo già tutto. Virgil è il pollo. Billy è il genio. Robert e il guardiano della villa sono i compari, Clair è l'esca. Il bottino è la collezione di Virgil, il motivo è il senso di rivalsa di Billy, che si sente maltrattato da Virgil, pensando di essere un bravo pittore incompreso (ma vediamo un suo quadro, che alla fine chiarirà definitivamente questa parte del racconto, ed è difficile dare torto a Virgil).

Però stiamo guardando un film di Giuseppe Tornatore, che non è solo bravo come regista, ma sa anche scrivere sceneggiature di notevole spessore. Dobbiamo aspettarci qualcosa di più.

Succede infatti che Claire resti colpita da Virgil, capisca il suo dramma, e veda come l'amore di lui lo cambi. Non sappiamo come e perché sia entrata a far parte della banda, ma la vediamo sempre meno convinta di quello che sta facendo, lasciando a Virgil qualche piccolo indizio. Forse sperando che lui capisca e non inghiotta l'amo. L'amore, però, rende ciechi, e per il povero Virgil, che mai lo ha sperimentato in vita sua, è praticamente impossibile capire cosa stia davvero accadendo. Almeno fino a quando non è troppo tardi.

E siamo dunque al vero finale. Virgil ha perso la sua collezione dal valore incalcolabile, e ha perso la donna di cui è innamorato. Gli basta una piccola indagine personale per capire il poco che gli era rimasto oscuro, potrebbe denunciare il furto, e lasciare che la giustizia faccia il suo corso. Sarebbe difficile trovare Billy e Robert, ma per lo meno avrebbero vita più difficile. Questo però servirebbe solo per cercare di riavere indietro i quadri che, ora Virgil capisce, non valgono nulla in confronto al suo amore per Clair. Pensa dunque agli indizi che lei gli ha lasciato, e scopre di avere una piccola, tenue, speranza di rincontrarla. Quel che basta a permettergli di non sentirsi più solo.

Noi siamo infinito

Seconda visione a un anno di distanza, stessa ottima impressione. Stephen Chbosky dirige la materia che lui stesso ridotto in sceneggiatura a partire dal suo stesso romanzo young-adult.

Racconto di formazione che segue il punto di vista di Charlie (Logan Lerman), ragazzino che ha avuto una infanzia decisamente poco piacevole e ora si trova ad affrontare le scuole superiori. Per sua fortuna incontrerà un paio di mezzi-fratelli, Patrick (Ezra Miller) e Sam (Emma Watson) che, nonostante la differenza di età (sono all'ultimo anno), lo accoglieranno nella loro piccola comunità di "diversi". Qualcosa di simile a L'attimo fuggente di Peter Weir, dunque, e in effetti anche qui c'è la figura di un professore di inglese (Paul Rudd) che capisce il protagonista e lo aiuta nel suo percorso di crescita, ma ha molto meno spazio.

La localizzazione nel tempo e nello spazio è evidentemente influenzata dall'esperienza personale di Chbosky. Siamo infatti a Pittsburgh a fine anni ottanta, o poco più in là, come si evince anche dalla colonna sonora, che include brani dei Sonic Youth, Morrissey / The Smiths, New order. A fare la parte del leone, musicalmente parlando, è però Heroes, di David Bowie che, pur risalendo a a dieci, forse quindici anni prima dei fatti narrati, è sconosciuta ai protagonisti, che ne riescono a trovarne una copia solo dopo lunghe ricerche. Questo dettaglio può sembrare strano a chi non abbia vissuto l'epoca pre-web, però mi sento di confermarne plausibilità.

7 psicopatici

Mia seconda visione per il secondo lungometraggio di Martin McDonagh, che mi ha fatto ridere forse anche più della prima visione, anche se questa volta l'ho trovato un poco meno coinvolgente.

Forse conviene avvertire lo spettatore potenziale che c'è una dose di violenza non trascurabile, con alcuni omicidi piuttosto efferati. Ma conviene avvertire pure che non c'è alcuna indulgenza nei confronti della violenza, e dunque chi si aspettasse un film alla Quentin Tarantino o (dio non voglia) alla Michael Bay, potrebbe trovarsi a disagio nei confronti dell'impostazione data alla storia da McDonagh.

Siamo più dalle parti dei fratelli Coen (e basterebbe la colonna sonora di Carter Burwell a ricordarcelo) e di Michael Haneke (i riferimenti a Funny games mi sembrano piuttosto chiari). Le situazioni tarantiniane, invece, si risolvono con tali ribaltamenti di prospettiva da far pensare semmai ad uno spoof.

Il protagonista è Marty (Colin Farrell), uno sceneggiatore irlandese (evidente alter-ego di McDonagh) in trasferta ad Hollywood che dovrebbe consegnare la sceneggiatura di un film (che poi è proprio quello che stiamo guardando) del quale ha prodotto solo il titolo. Billy (Sam Rockwell), suo amico, cerca a suo modo di aiutarlo, ma essendo egli un personaggio piuttosto peculiare (attore spiantato, la sua occupazione principale sembra essere quella di rapire cani per poi restituirli dietro ricompensa), anche la sua idea di aiutare gli amici è alquanto bizzarra. Compagno di affari canini di Billy è Hans (Christopher Walken), polacco molto religioso la cui moglie è in ospedale per un tumore. Succede quindi che Billy e Hans rapiscono il cane di Charlie (Woody Harrelson), uno sciroccato boss della mafia italo-americana, che è stato appena mollato dalla sua fidanzata (Olga Kurylenko) e di cui ha commissionato la morte ad un paio di suoi sgherri (Michael Pitt e Michael Stuhlbarg). La ricerca del suo cane lo porterà a mettersi all'inseguimento di Marty, Billy e Hans, fino all'epilogo nel deserto che permetterà al protagonista di capire il senso della storia che stava cercando di scrivere.

Nella girandola di personaggi secondari, da notare Zachariah (Tom Waits), che si definisce un serial killer di serial killer, e che darà modo a Marty di farci vedere quanto la scrittura del film sia servita a cambiarlo in meglio.