Crocevia della morte

Visto che al titolo originale (Miller's crossing - il crocevia di Miller) è stata aggiunta in italiano la "morte", e visto che, ad esempio, ad Amore e guerra di Woody Allen, che ce l'aveva in originale, è stata tolta, possiamo forse dedurre che la distribuzione italiana ritenga che basti quella parola per indirizzare lo spettatore al cinema? O forse è solo l'ennesimo caso di titolo scelto a capocchia.

Occhio e croce questo dovrebbe essere il primo film dei fratelli Joel e Ethan Coen che io abbia visto. Ai tempi non erano ancora molto noti, soprattutto fuori dagli USA, Blood simple aveva avuto una distribuzione quasi simbolica, e Arizona junior ha fatto quasi l'80% del suo incasso in patria. Con questo titolo, invece, i Coen hanno sollevato più interesse in Europa che a casa loro.

La sceneggiatura ha un pesante (e non dichiarato) debito verso un paio di lavori di Dashiell Hammett, come se La chiave di vetro sia stato incrociato con Piombo e sangue, e il risultato sia stato riscritto per dargli una direzione diversa. Insomma, un lavoraccio. Al punto che i Coen a metà dell'opera si sono incagliati e per riprendere la rotta si sono presi una pausa in cui hanno scritto il loro film successivo (Barton Fink).

Siamo in una non specificata città americana che è nelle mani di una gang irlandese, a capo della quale c'è Leo (Albert Finney). La storia è narrata seguendo il punto di vista di Tom Reagan (Gabriel Byrne), che è una specie di consigliere di Leo, da cui pur mantiene una sua indipendenza. Tra i due c'è un evidente affetto, che viene alla prova dall'attrazione che entrambi hanno per Verna (Marcia Gay Harden), la quale punta a Leo perché interessata al suo potere, in particolare per proteggere quel poco di buono di suo fratello Bernie (John Turturro), ma mollerebbe volentieri tutto quanto per Tom, che però ha notevoli problemi ad esprimere i suoi sentimenti (al punto che lui stesso si chiede se ne abbia o meno).

Il personaggio di Tom è avvolto dal mistero. Sa tutto di tutti, ma nessuno sa molto di lui. Vuol far tutto secondo le regole, ma c'è sempre qualcosa che gli sfugge. E' ossessionato dal suo cappello (un bel fedora in perfetto stile) che sogna gli voli via, e in effetti spesso gli cade, lo raccoglie, ce lo fa danzare davanti agli occhi. Rimbrotta Leo perché non pensa alle conseguenze delle sue azioni, eppure si mette nei guai con un bookmaker sperperando soldi con scommesse azzardate e va a letto con l'amante del capo. Le occhiate finali che lancerà a Leo, fanno pensare che il suo legame con lui sia più che un maschio rapporto d'amicizia. E pure la sua confusa relazione con Verna fanno avanzare dubbi suoi suoi gusti sessuali, che non devono essere per niente chiari nemmeno a lui.

La già abbastanza complicata situazione è fatta detonare da Johnny Caspar (Jon Polito), piccolo delinquente italo-americano emergente, che si ritiene danneggiato da Bernie, e perciò lo vuole eliminare. Per Tom non sarebbe un problema, Leo, invece, preferisce ascoltare il cuore, che gli dice che Verna non sarebbe per niente contenta.

Ulteriore complicazione, il consigliere di Caspar, Eddie il danese (J.E. Freeman), è gay e sta con Mink (Steve Buscemi), il quale è molto amico anche di Bernie.

Roba da perderci la testa. E in effetti, in un modo o nell'altro, buona parte dei succitati finirà per perderla.

I Coen hanno cercato di trattare la materia senza dar troppo spazio alla loro naturale propensione per l'umorismo nero e per l'improbabile, che pure emergono di tanto in tanto.

Vedasi in particolare la scena (da antologia) in cui una squadra di Caspar tenta di eliminare Leo. Il boss irlandese è a letto a casa sua, e si sta sentendo Danny boy (tanto per rivoltolarsi negli stereotipi) al grammofono. In un battibaleno la scena cambia, casa in fiamme, mitragliatrici che crepitano come se avessero una dotazione illimitata di proiettili. Morte, fiamme, distruzione, da cui emerge un illeso Leo, che si rimette il sigaro in bocca e si gode il finale della canzone (che a questo punto dobbiamo dedurre sia nella sua mente e non su disco).

Oppure la scena in cui Leo butta fuori dal suo quartier generale Tom a pugni in faccia. Tom non reagisce, incassa il pugno, si rialza, ne prende un altro, rotola per le scale, si rialza ... finché finisce per scontrarsi con un donnone agghindato (siamo finiti nel bar illegale di Leo) che non apprezza, e si mette ad urlare e a prenderlo a borsettate.

Ruoli minimi per Frances McDormand, segretaria del sindaco, e Sam Raimi, poliziotto in borghese che pensa di essere molto figo ma finisce molto male.

4 commenti:

  1. I Coen sono nati così, e per fortuna te ne sei accorto. Io però non c'ho visto quel casino di sceneggiatura, tutto fila liscio.

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    1. Non mi sono spiegato bene, la sceneggiatura è un orologio. E' complicatissima come da genere (Hammett, un nome una garanzia), ma i numerosi fili si svolgono senza inciampi. A perdere la testa non sono gli spettatori ma i personaggi che vengono eliminati (sempre nel rispetto della tradizione) in gran numero.

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    2. Infatti, ed erano solo agli inizi. Hanno una certa propensione a complicare le cose, vedi anche Burn after reading, ma un occhio attento, che volentieri si fa distrarre, non perde il filo con loro, mai.

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    3. Sì, credo anch'io che sia così. Uno dei loro pregi è quello di creare trame intricate ma che filano alla meraviglia. Giusto per citare un altro titolo, L'uomo che non c'era. Lo spettatore, se non si distrae, ha sempre tutto sotto controllo. Ma i poveri personaggi si trovano trovano sballottati in un mondo ostile che non riescono a capire.

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