La sceneggiatura, pur non essendo niente di particolarmente sconvolgente, è interessante. Basata su un romanzo di Martin Booth, uno scrittore inglese nato poeta e convertito alla narrativa, adattato alle necessità produttive (George Clooney oltre che protagonista è anche tra i produttori) da Rowan Joffe, che ha riportano la storia più sui canoni del genere, mantenendo comunque l'introspettiva impostazione originaria, che potrebbe risultare sonnolenta allo spettatore che si aspettasse un film d'azione alla Bourne.
Peccato che la regia di Anton Corbijn sia discontinua, alternando momenti migliori a cose poco riuscite, in particolare il prologo e la prima parte del film mi hanno fatto pensare a prodotti televisi anni settanta, anche se l'eccellente fotografia ricorda che siamo in ben altro ambito.
La storia è tutta centrata sul personaggio di Clooney, un produttore artigianale di armi in funzione delle richieste di killer d'alto bordo, che non disdegna di fare anche lui qualche ammazzatina quando ne ha l'occasione. Agli altri restano solo le briciole, qualche spazio hanno i personaggi di Violante Placido, una giovinetta che sbarca il lunario prostituendosi; Paolo Bonacelli (per me indissolubilmente legato al personaggio di Leonardo da Vinci in Non ci resta che piangere), un prete di campagna; Thekla Reuten una cliente di Clooney. Particina microbica per Filippo Timi, e Johan Leysen è il capo di Clooney. Il cast prevalentemente italiano, e che si comporta benissimo, dimostrando che se la nostra cinematografia ha normalmente pessimi risultati fuori dai nostri confini la colpa non è della parte artistica, è giustificato dall'ambientazione. Infatti a parte il prologo svedese, il resto dell'azione si svolge quasi totalmente in Abruzzo, con una apparizione straordinaria di Roma.
Si inizia con Clooney all'opera come killer nel nulla boschivo e innevato svedese. Essendo braccato, lascia la Svezia e arriva a Roma (in treno, una bella sfacchinata) dove incontra il suo capo, che lo manda in una sorta di esilio in un paesino dell'Appennino. Clooney ha un paio di problemi, che non sarebbero tali per uno che facesse un lavoro normale, ovvero gli piacciono le donne e vorrebbe avere delle amicizie. Nel suo caso, si tratta di hobby che possono essere fatali, per lui e per gli altri.
Però ormai ha una certa età e il suo lavoro, in cui primeggia - bella le scene in cui lo vediamo reperire materiale di scarto nel garage di Timi, e tirarci fuori un silenziatore per il fuciletto che sta adattando su commissione - ormai non lo soddisfa più. Si crea così un paio di amicizie anomale, la prostituta e il prete, prima avvicinandosi sospettosamente, poi lasciandosi relativamente andare.
Arriviamo finalmente al nocciolo della storia. Il protagonista deve prendere una decisione, continuare la sua vita solitaria, o cambiarla per fare spazio alla Placido. Il cuore gli dice di cambiare, la ragione di fare attenzione. Il caso, rimescolatore supremo dei destini, deciderà come andrà a finire.
Eccellente Clooney nel rendere un personaggio dal carattere indurito da una vita solitaria, notevole la scena in automobile, nel finale, quando si rende conto che, dopotutto, le cose non stanno andando come lui si aspettava, e sembra che si chieda come mai la vita non è come un fucile, che lo si monta, lo si regola, e funziona come uno si aspetta.
A causa della sua passione per le farfalle, il protagonista viene chiamato signor Farfalla, e a casa del prete sentiamo uno spezzone da Madama Butterfly, ma la relazione col capolavoro pucciniano mi pare puramente causale. Per una disturbante rilettura dell'opera si veda piuttosto M. Butterfly di Cronenberg.
La riscrittura di Joffe del romanzo originario mi è sembrata influenzata da La legge del samurai di Jim Jarmush, per la passione del protagonista per il suo "lavoro" e per lo strano legame che ha con il suo capo.
La scena nel bar dove il barista sottolinea che C'era una volta il west è di Sergio Leone, un italiano, può sembrare insulsa a noi, ma bisogna tener presente che a livello planetario la cosa risulta spesso bizzarra. E in effetti, a pensarci bene, lo è. Ben strano che una delle migliori rappresentazioni dell'immaginario americano sia stata fatta da italiani.
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